giovedì 19 luglio 2018

I pensieri di Spada

I pensieri di Spada

Spada è un ragazzo di circa 17 anni. Non è né magro, né grasso. Anzi, a ben guardare, ha anche qualche muscolo nervoso; capelli biondo cenere un po’ lunghetti, con un ciuffo tagliente e voluminoso; corredo di maglie scure e di norma di qualche gruppo punk o metal, qualche anello, jeans, spesso anfibi. E una brutta cicatrice vicino alla fronte che potrebbe vagamente sembrare una lama.
Mal sopporta il cinismo di Spina e considera Goccia uno sfigato, seppure qualche volta gli chieda consiglio per avere un’opinione diversa dal coro.
La sua, invece, è questa:

Guardatelo mentre si indica la tempia come un forsennato, colpendola più volte, poi si arrotola un ciuffo o tre sul dito, e sbuffa nervoso.

Guardatelo mentre arriva al bancone di ingresso di un pronto soccorso, lasciando una lettera in busta chiusa all’impiegata o infermiera di turno, insistendo e brontolandole contro, poi salutarla con un mezzo sorriso e la mano aperta, e andare via tutto nervoso ed emozionato.





“Ma tu hai in mente quando… quando un pensiero ti frulla in testa e ti rimbalza nella scato… nel cra… insomma, in testa, come fosse una fottuta pallina da ping pong? Lo sapete, voi? Cazzo.
Come un flipper senza via d’uscita. Una volta che parte wow, non si ferma, no.
L’altra notte ho fatto un sogno: arrivo in moto in un posto, tipo un paese, o una città piccola, ma tanto piccola. Dove ti immagineresti il muso dei vecchi appiccicati al vetro a guardarti mentre vai a zonzo in strada, qualche altro vecchio rincoglionito davanti alla TV, qualcun altro a pulirsi la dentiera. Forse c’è qualche bambino che rompe le scatole a qualche vecchio, e quelli giovani… bah, forse non sono mai esistiti, o forse ce ne sono solo 4: due badano a qualche vecchio, ovviamente, e gli altri due sono chiusi in camera a scopare. Porte chiuse, finestre chiuse, tende giù. Come fosse un cazzo di reato.
Una città così. Camminavo in strada, non c’è nessuno, neanche un cane (che poi, se ci fosse un cane che cazzo cambierebbe, o perché non si dice un gatto, o un maiale?) ma mi sento come osservato dalle finestre delle millemila casupole lì attorno. Sì, ho detto che era un paesino del cazzo, ma a me, in quel momento, mi parevano un sacco. Un sacco di finestre. Un occhio per finestra, anzi, due. Anzi, un fottio, ma sempre pari. O forse no.
Solo che non vedevo anima viva: c’era la strada, qualche campo, e tutte ste case e l’opprim… la sensazione del cazzo di essere spiato. Sento la testa che mi gira (sto ancora parlando del sogno), il cuore mi batte, mi viene la nausea. Mi fermo, e d’un tratto da quelle case escono un fottio di omini grigi. Di esserini con le braccia e le gambe lunghe lunghe, la testa ovale e piccola. Sì insomma, quelle cagatine di alieni che ogni tanto fanno vedere nei film di merda che, per la cronaca, sono quelli che piacciono a me.
Allora, nel sogno, tutto mi fu chiaro, o quasi (sensazione che di ra… che non mi viene una fottuta volta quando sono sveglio, o quasi), ero l’unico umano in un fottuto villaggio di alieni.
Allora per forza mi guardavano strano. Mi circondano, mi guardano diffidenti, e diventano così tanti (uscendo dalle case di corsa) che non vedo più un cazzo: solo alieni grigi, poi solo il colore: grigio.
E finisce così. Il sogno, dico.
Che merda.
Voglio dire, che cazzo voleva dire? Che sono come un alieno in questo mondo qui? Che abito nel paese sbagliato? Che i vecchi sono dei rompicoglioni? Che il grigio mi dà nausea?
E da lì, il flipper di merda nella testa di merda che mi ritrovo: mi chiedo, ma possono avere un senso i sogni, o ci inventiamo solo stronzate per dargli un senso? O ancora… ma alla fin fine, perché sogniamo? A che cazzo servono ‘sti sogni? E com’è che vengono fuori dal nulla, come se vedessimo, ma senza guardare? È strana forte, sta roba. È tipo spararsi un viaggio con una pasticca, ma senza pasticca, almeno quando te lo ricordi. Ma in fin dei conti è un po’ così anche con la pasticca. Perché sogniamo?
Voglio dire, non potremmo solo spegnerci come una lampadina. Blackout, e poi risvegliarci belli freschi? Tu non te le chiedi, queste cose? Tu ti chiedi mai qualcosa oltre alle vaccate che ti danno da fare? Io sì. Non che risolva mai un cazzo, ma se parte il flipper, continua. Non ci posso fare nulla.
Perché non andiamo semplicemente nel buio, quando si dorme?
Blackout. Ti spegni… dormi, poi ti accendi e riprendi… be’, le stronzate che fai da sveglio.

Ecco, è ripartita la giostra. Come diceva quel comico: “Voi come fate a dormire sobri? Come fate a fermarvi se non dormendo?”. Ma ecco, ora mi viene in mente che un bel blackout l’ho provato.
Una volta stavo in un paesino del cazzo. No, questo non era un sogno, e non c’erano alieni (sempre che non fossi solo io, nel sogno, l’alieno), ma i vecchi c’erano sicuramente (ci sono sempre, specie dove non dovrebbero). C’ero io, due macchine in croce (che cazzo vuol dire, poi?) e io, in moto.
Poi il nulla (e i vecchi). Be’, sfiga vuole che una di quelle macchine in croce l’ho presa in pieno. Ricordo solo il grigio della macchina, l’adrenalina, poi niente. Blackout.

Per un po’ c’era solo il buio. Una densa nuvola nera della quale non so quantificare il tempo. Non lo sentivo neanche il tempo, come non percepivo lo spazio. Una nebbia, o tipo il Nulla della storia infinita.
Ogni tanto vedevo tracce di grigio, o una luce bianca… nah, niente luci alla fine del tunnel o cazzate del genere. Vedevo come dei fanali.
Poi dei colori, ma poco distinti, una confusione netta. Che poi, se è confusa come fa ad essere netta?
Allora, non sperare in una risposta del genere da me. Non hai neanche idea di quante domande del genere mi abbiano fatto. Vorrei rispondere. Vorrei risponderti, perché tu te lo meriteresti davvero.

Ma non riesco. Faccio fatica a rispondere a domande più semplici quando sono sveglio e sano.
Figurati quando ero in coma. Che, ok, me l’hanno chiesto dopo, da sveglio. E tutto sommato è normale: credono che sia morto, per quei tre mesi. Non sono morto, non ero morto. Forse dormivo, non so neanche questo, a dirla tutta.
Quello che molti pensano, è che sia una specie di miracolato, e magari possa dire loro cosa c’è dall’altra parte. Ma non ci sono stato, di là, qualsiasi cosa voglia dire.
Quello che ricordo è molto poco: molto meno di quando prendi una sbronza talmente colossale da non riuscire a ricordarti che cazzo hai fatto la sera prima.
Però ricordo una voce, una specie di sostegno. Non so se parlasse a me, forse parlava perfino da sola. Ma era un sostegno. Non sapevo, allora, di chi fosse, quella voce.
Però ricordo un tocco leggero, non percepivo dove avvenisse, né come, ma ricordo una specie di tocco, come una carezza o un… trattenere. Era quello che sentivo.

Ricordo poi quando la confusione si è dissolta: nella mente fu quasi di colpo. D’improvviso ho visto una luce bianca fortissima, poi i muri biancastri e verdini della mia stanza. O meglio, quella che mi hanno assegnato nel reparto di terapia intensiva, o come cazzo si chiama.
Poi ti ho vista. E nel tuo sorriso ho visto tutti i colori del sogno, tutte le carezze (che, lo so che non erano carezze, magari mi stavi solo lavando, o che altro, ma per me lo erano) tutto quel… trattenere (non si dirà così, ma non saprei come altro dirlo).
Ed era tutta roba tua, per me.
Tutto quello non era di mia madre, non di mia sorella, non di qualche amico.
E così è stato mentre, gradualmente, anche il mio corpo si risvegliava.
Sì, perché la mente si è svegliata di colpo, ma il mio corpo era ancora rincoglionito: facevo fatica a muovere le dita o la testa, i primi giorni, ma questo lo sai bene. Riuscivo bene solo a piangere. In quello riuscivo benissimo, ma anche questo lo sai bene.
In fin dei conti, mi stavi ancora trattenendo qui.
Non lo ha fatto il dottore, non lo ha fatto il fisioterapista, non l’ha fatto l’infermiera.
Quelli comparivano velocemente, testavano, segnavano qualcosa sul foglio, poi se ne andavano. A volte mi muovevano un braccio, o che. Ma era come se controllassero l’aggiornamento di un pc: reset di fabbrica, poi riaggiustamento delle app e salcazzo. E non gli dedichi davvero tempo ad un pc: al massimo è lui che te lo ruba. Non gli dedichi affetto ed empatia, ad un pc. Vuoi che funzioni e basta. Il loro lavoro era quasi meccanico.
Non era la tua voce, non era il tuo tempo, non era il tuo sorriso, non era la tua premura per me.
Ti chiamano OSS, che non ricordo bene neanche che cazzo vuol dire. Ho sempre odiato le sigle (e le date, ma immagino non c’entri una sega), ma probabilmente potrebbe dire: Operatrice Salva Stronzi. Io, sicuro, sono uno di quelli lì.

Tu eri lì ogni cazzo di giorno, ogni cazzo di volta. E sorridevi ogni volta che facevo un progresso.
E mi vergogno, a ricordare quanto mi hai trattenuto: mi hai tolto le lacrime, mi hai lavato il petto, la schiena e pure il culo. E probabilmente non ti rendi conto di quanto sia stato importante. Di quanto grande sia stato tutto il tuo lavoro. Della luce che vedevo sul tuo volto ogni volta che facevo qualcosa da solo.
In fin dei conti: il tuo tempo, il tuo impegno, la tua voce, il tuo tocco, mi hanno trattenuto prima dal buio, poi dalla rassegnazione. Il resto lo sai: passo passo ho recuperato ogni funzione, come si dice.

Ecco, io non posso fare altrettanto: e del resto sarebbe un po’ imbarazzante. Tu invece hai superato anche quel limite.
Una cosa però posso farla: farti rendere conto di quanto sia stato importante.
E il modo che ho trovato per farlo è questa lettera.

Grazie.

Firmato...
Per gli altri dell’ospedale: stanza 23, piano 2, paziente a.
Per gli altri in genere: Stefano Sironi.

Per te: quello che sta in coma, quello che si risveglia, quello con la cicatrice in testa, quello che piange perché non riesce a muoversi, quello con il culo sporco, quello che piano piano si riprende perché tu lo trattieni, quello che, porcammerda, sa che in ogni tuo sguardo ed in ogni tuo tocco c’era un colpo di luce contro il buio.

PS
Io non so davvero cosa ci sia dall’altra parte, so però perché resto ancora da questa, di parte, e so che qui,  che in te, c’è un botto di luce.

Spada.

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