domenica 27 gennaio 2019

Arte combinatoria






I due ragazzi entrarono nel salone sporco e si guardarono intorno: tutto sembrava lasciato come era da anni. C'era una vecchia pipa su di un piatto di legno, sul bracciale della poltrona impolverata, a poco dal camino pieno di cenere e rimasugli, chissà da quanto tempo. Un gomitolo di lana mezzo rovinato sul grande tappeto indiano che copriva, quasi per intero, la superficie di quella stanza. Un altro tappeto era, stranamente, appeso ad una parete, come fosse un arazzo, ma quel che mostrava era solo un rosso unito e continuo e un odore vagamente stantio e sapeva di vecchio.
Non c'era molto altro, se non un piccolo mobile bar molto poco fornito, ed un tavolino circolare. Su quello, alcune scartoffie rovinate e uno specchio.

Mentre la ragazza si guardava intorno, aprendo lo sportello del mobile bar e frugando tra le etichette ed una scatoletta per l'argenteria, il ragazzo era rimasto completamente impietrito a fissare uno specchietto posato sul tavolino. Sembrava che
non riuscisse più non solo a parlare ma, quasi, neppure a respirare.
Chiamò la sua amica con un gesto delle mani, senza usare voce o parole, quasi non potesse fare nessun altro gesto. O come se ogni altra energia fosse stata risucchiata da quello che stava guardando.

Quando lei arrivò e gli si mise a fianco, fu colmata dallo stesso stupore: spalancò la bocca e trattenne il respiro, tenendo gli occhi fissi sul vetro.
Lo specchio, restituiva loro un'immagine. Anzi, una specie di film. Ma era solo uno specchio: non c'era nessun collegamento elettrico, nessun filo, e quello di certo non era un tablet o un computer con una strana forma.
I due fissavano quello che stava accadendo in quella specie di filmato attraverso lo specchio.
Il salone era stranamente familiare: una poltrona in pelle vicino al camino, pulita e ben sistemata; un bel tappeto indiano a ricoprire e decorare buona parte del pavimento; un altro tappeto d'un bel rosso vivo appeso alla parete, come un arazzo.
In mezzo alla sala, due signori ben vestiti, ma con abiti singolari. Uno portava una camicia a sbuffo, e stivali colorati. L'altro, una lunga giacca verde, e scarpette a punta, con un che di arabeggiante.

Parlavano, pareva. Ma c'era qualcosa di stravagante e strabiliante in mezzo a loro, una macchina di metallo, o meglio, un misterioso marchingegno che i due ragazzi non seppero definire o distinguere. Sembrava un enorme macchina da cucire, o forse solo un attrezzo a ruote, nel bel mezzo del salotto. I due signori "oltre lo specchio" parlavano e indicavano lo strumento, osservandolo ammirati.

I due ragazzi avrebbero tanto voluto sentire cosa stavano dicendo, ed avvicinarono di più il muso e gli occhi al vetro: ed ecco che, piano piano, le voci incominciarono a farsi udire. Dapprima flebilissime, poi via via più vicine, più udibili. Fino a quando non riuscirono a sentire cosa dicevano.

L'uomo con la camicia a sbuffo mostrava entusiasta quel marchingegno, spiegandone l'origine. < Nel 1642 Pascal inventò la pascalina: era una rudimentale calcolatrice, in grado di risolvere meccanicamente somme con numeri fino a 12 cifre. La inventò per suo padre, che era un contabile, sperando di poterlo avvantaggiare con il lavoro. In fin dei conti, tutte le macchine migliori hanno questo scopo: ridurre il lavoro e le fatiche dell'uomo, anche se... > forse accorgendosi che si stava divagando, il signore con la giacca verde lo interruppe con la mano e con la voce < Certamente, ma restiamo al nostro. Come prosegue l'innovazione del marchingegno?>.
L'altro signore tossì, si ricompose e dopo aver annuito riprese il racconto < Trattasi di una serie di ruote da caricare che, con opportuni denti e rondelle, liberano l'uomo dalla fatica del calcolo: una ruota per le centinaia, una per le unità, e così via> e ancora l'altro volle andare al sodo <Ma dicevate ci furono innovazioni incredibili che utilizzarono l'arte combinatoria delle ruote non solo per fare dei calcoli in serie, ma per rispondere ad ogni possibile quesito>.
L'uomo dalla camicia a sbuffo sorrise, ma questa volta fu lui a mostrare il palmo della mano. <Ci arriviamo. Ci arriviamo. Nel 1666 Leibniz modificò la pascalina per farne un calcolatore più efficiente, introducendo nella macchina anche la possibilità di automatizzare sottrazioni e divisioni> questa volta tossì per i fatti suoi, come interrompendosi da solo, prima di proseguire: < Ma, come ha prima riassunto, il vero intento di Leibniz non era di eseguire il semplice calcolo matematico... Lui, seguendo una misteriosa ed affascinante tradizione precedente, voleva riassumere l'intera conoscenza in una semplice relazione simbolica>
<Ora non vi seguo> replicò l'altro, che presto ebbe risposta <Da Lullo a Bruno, passando per matematici cinesi e via dicendo, era una antica speranza: che ogni conoscenza, nuova o vecchia che sia, ogni invenzione, ogni risposta... per qualunque domanda, potesse trovarsi attraverso una certa combinazione di simboli. Un'arte combinatoria> vide l'altro ancora perplesso, per cui sintetizzò <In parole povere, messere, quella che abbiamo qui davanti è il sogno realizzato dei rinascimentali: questo marchingegno è costituito da una serie di trenta ruote, e su ogni dente di ciascuna ruota, c'è un simbolo che rappresenta una conoscenza. Ora, girando opportunamente le ruote per formulare una domanda con il linguaggio simbolico della macchina, e caricando la leva, la macchina fornisce una risposta, quella assolutamente corretta>.
Lo stupore era talmente vasto da uscire dal salone, per attraversare lo specchio e colpire i due giovani spettatori al di fuori di esso. Rimasero così incollati a quella scena, che proseguì.
<Quindi, se ponessi ora una qualsivoglia domanda, sarebbe solo il caso di tradurla nel linguaggio del marchingegno, usare le ruote simboliche per comporre la domanda, e non dovrei fare altro che aspettare la risposta? Sicuro che non sarete voi a rispondere per la macchina?> l'altro sorrise, sicuro. <Fatemi una domanda la cui risposta non posso conoscere>
L'altro ci pensò un po' su, poi alzò le spalle <Cosa ho mangiato ieri sera per cena?>. L'amico con la camicia a sbuffo si mise a sistemare le ruote, dalla prima alla trentesima, in modo che ogni simbolo, ossia ogni dente, fosse posizionato sul tassello chiave, di modo da comporre la domanda in linguaggio simbolico. Questione di cinque minuti. Caricò la leva a molla, e partì un piccolo sbuffo, poi le ruote si misero in moto, combinandosi: guardando da un lato la macchina, si poteva vedere che le ruote si erano mosse fino a mostrare una certa combinazione di simboli.
In pratica, i denti, e quindi i simboli della prima ruota erano tutti nascosti, tranne uno. Stessa cosa per la seconda ruota, e così via, fino alla trentesima. Guardando in prospettiva, si vedeva come una ruota sola con 30 simboli complessivi, la ricombinazione totale offerta dalla macchina come risposta alla domanda posta.
L'uomo con la giacca verde la osservò perplesso, il suo compare gli si mise a fianco, controllò e sorrise <Ha mangiato del pollo, un'insalata con olive, ed un abbondante porzione di budino alla nocciola, bevendo del porto>. L'altro deglutì, poi fece un passo indietro. <È incredibile ma... ma... come... sta leggendo un linguaggio che io non comprendo, non capisco quei simboli>. L'altro lo rassicurò <Posso insegnarvi il linguaggio, è molto, molto più semplice di un qualsivoglia linguaggio naturale, fa tutto la macchina>.

L'uomo in giacca verde volle riprovare <Quando è nata mia figlia?> la macchina, predisposta a dovere, rispose correttamente anche a questa domanda. <Quanto ho pagato il mio ultimo abito da sera?> ancora una risposta, ancora quella corretta, precisa al centesimo. A quel punto il passo verso una curiosità più ampia fu breve: <Chi ha ucciso il Re morto l'anno scorso?> e la macchina rispose. Ora, quello era un caso irrisolto. Ma il marchingegno formulò senza esitazioni un nome, un cognome ed un titolo, che i due non conoscevano ma che reputarono verosimile. Anzi, ormai erano rapiti da un entusiasmo tra l'eccitato e lo spaventato per quel marchingegno. Fecero altre domande: quando impostavano interrogativi conosciuti o verificabili, per esempio con una semplice consultazione nella libreria del salone, il marchingegno dava sempre risposte corrette. Quando chiedevano cose che non potevano sapere o scoprire, erano ormai certi che rivelasse il vero. Sia sul passato, sia sul presente, sia sul futuro.
Quel marchingegno sembrava senza limiti. I due gentiluomini ciarlarono di come il sogno dell'arte combinatoria fosse davanti a loro, del fatto che non esiste nessuna invenzione completa, ma ogni innovazione è un rimescolarsi di vecchie scoperte, di simboli. Al miscuglio giusto, una nuova scoperta. E ovviamente parlarono a lungo di come sfruttare quel marchingegno fenomenale, ma anche dei suoi rischi: poter conoscere ogni cosa, avrebbe potuto risolvere ogni umano dubbio. Avrebbe perfino, socialmente parlato, evitato all'uomo il peso del dubbio e del pensiero. In fondo, come avevano detto: le macchine dovrebbero evitare all'uomo la fatica ed il lavoro, e quale peso più opprimente esiste, del pensiero, del dubbio, della conoscenza? Che forse, con quello strumento affascinante, sarebbe bastato manipolare le ruote per conoscere il proprio futuro, o per sapere come comportarsi, o scoprire l’insondabile? Forse che perfino la fatica della scienza e della religione avrebbero trovato risposo e soluzione, ed ogni quesito potesse essere così risolto?
E ancora: avrebbero dovuto rivelare ad altri di quella scoperta (o forse ricombinazione) o tenere quell'immenso potere per loro?
Decisero di chiederlo direttamente al macchinario, e la risposta li lasciò basiti e sorpresi <Il segreto di cui erano in possesso, non era già più solo loro: perché qualcun altro ne era a conoscenza. Due ragazzini> che, appena sentirono enunciare la risposta dall'uomo con la camicia a sbuffo, si allontanarono dallo specchio e, inquietati, corsero fuori dalla stanza, per non tornarci mai più.

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