lunedì 28 giugno 2021

Cos'è l'estetica?

Cos'è l'estetica? (Da Kant a "Sto pensando di finirla qui", passando per Arthur Danto).
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo farci altre domande, come
- Cos'è la bellezza?
- Cos'è l'arte?
Come cambiano, se cambiano? Come le percepiamo?
L'estetica è un'onda (enorme) del mare della Filosofia. Qui proviamo ad esplorare un possibile frammento della sua affascinante complessità.




martedì 22 giugno 2021

Solo un pastello

 



Una striscia di legno.

L'interno è color noce o,

forse, compensato. 

L'esterno è verde chiaro. 

No, non è un cilindro vero,

ha più... forma esagonale. 


Dietro, sul fondo, un punto verde

immerso nel legno più scuro, 

forse usurato.

La punta è leggermente più chiara,

quando lo usi, hai un'impressione diversa,

per esempio,

quando sottolinei una frase, 

sulla pagina d'un libro, color crema,

come: "Anche la cosa più insignificante

contiene un po' di mistero", il colore

sembra più chiaro, 

quasi fosforescente.

Credo ci stia bene.


Mi fermo meglio a guardare,

vedo dei piccoli segni sul fondo e,

più leggeri e irregolari, sulla superficie, 

per il lungo. 

Segni minuti e disordinati. 

Nessun altro pastello Holland li ha. 

Solo questo. 

E allora mi dico: questo è speciale. 

Questa è una bella storia. 

Un tempo anche a me, capitava di avere

quei segni: minuti e irregolari, sulla pelle

color crema. 

Ci stava bene, il segno dei tuoi denti. 

Però, ora, sono come un pastello qualsiasi. 


lunedì 14 giugno 2021

Un viaggio in treno

 


Al mattino il papà la trovò tra i colori, e con la sua parrucca bionda sopra i capelli nerissimi. Come avesse un nido giallo in testa.


Le sorrise: «Dai, andiamo!»

Delia aveva visto tanti treni, ma non ci era mai salita. Questo era così grande, ma così grigio! I treni lasciano la stazione come le navi lasciano il porto.


Lo percorsero da fuori, lungo la banchina: sembrava infinito, e loro erano all'ultima carrozza. Stavano per salire ma...


Il papà bisticciava con i biglietti: «Ho dimenticato di obliterare, incomincia a salire: arrivo!».


Delia salì sul treno, e vide il papà che prima correva verso la macchinetta in fondo, poi la stazione si allontanava: sembrò andarsene via, e così il suo papà.


Il cuore le batté forte: nel suo vagone sembravano tutti grandi, e tutti tristi. E quando è triste o ha paura, Delia disegna.


Ora, sui vetri del vagone: fiori e piante crescevano tra sedili e giornali, gli uccelli cantavano sui portaborse.


Nei sorrisi dei passeggeri Delia nascose la paura. Se avesse potuto, avrebbe colorato ogni vagone. In ogni vagone ci sarebbe stato un mondo, e in ognuno di questi ognuno avrebbe trovato il suo posto e non sarebbe più stato triste.


Dei rumori la distrassero: un uomo enorme vestito di blu si avvicinò a passi pesanti. Controllava che tutti avessero il biglietto e fossero abbastanza seri e composti.


 Delia mancava entrambe le cose: il cuore batteva, gli uccelli urlavano e i fiori tremavano.


Quando fu troppo vicino Delia corse sotto le gambe del controllore. «Fermati, bimba con quel nido biondo in testa!» ma lei correva per i vagoni, e il controllore la inseguiva.


Tra i vagoni i due corsero come corrono le nuvole, ma Delia inciampò e il controllore arrivò. «Dove sono mamma e papà e dov'è il biglietto? Perché hai sporcato tutto il vagone?! E che diamine hai in testa?».


«P-papà non è salito, ho solo fatto le cose più allegre e questa è per mio fratello» disse Delia, disegnando baffi viola al controllore, che la guardò serio, e sorrise, ma solo per un attimo, sotto quei baffi.


Il treno si fermò. Delia fu portata nella sala d'attesa della stazione: era fredda e buia. «Ora aspetti qui!» gridò il controllore. Fece per andarsene, ma allungò la mano. Delia, mogia, gli passò i pennarelli.


Ora era troppo sola e quella stanza troppo grigia. Delia non piangeva mai, ma quella volta lo fece.


Delia stava ancora aspettando e, quando stava per allagare tutta la stanza, il controllore tornò. «C'è qualcuno per te» disse sotto i baffi viola. La porta si aprì...


ed entrarono papà, mamma ed il fratello Mirco. Bianco in volto, senza capelli, ma sereno.

Delia gli saltò in braccio, si tolse la parrucca che aveva fatto per lui e gliela mise in testa.


Poi tutta la famiglia e il controllore colorano la stanza: alberi, soli, sogni e farfalle.


Non avrebbero più permesso che qualcosa la rendesse di nuovo grigia.


I due fratelli si abbracciarono e, nello specchio della stazione, Mirco vide il suo volto sorridere, poi, tutto il percorso che lo aveva condotto lì.


Mirco e i suoi genitori trovarono sulla banchina ad aspettarli un omone enorme vestito di blu, con degli strani baffi viola sotto il naso, che li accompagnò davanti alla porta della sala d'attesa.


Fu quando salirono sul treno, che il padre di Mirco ricevette la telefonata di un controllore delle ferrovie: era lungo il viaggio, e scesero a quella stazione.


Non era né premuroso né saggio, ma Mirco non volle sentire ragioni: volle partire subito per cercare Delia. Il padre credeva sarebbe arrivata all'ospedale prima di lui, ma forse era ritornata a casa per paura. 


Nella stanza, dopo lunghe ore di cura e poi di stancante riposo, Mirco e sua madre non aspettavano altro che Delia, ma arrivò, trafelato e spaventato, solo suo padre. Chiese come stava Mirco (era stanco e molto triste) ma raccontò che Delia era salita sul treno da sola, e l'aveva persa.


Quello che davvero non si aspettava, era che la sorella lo avrebbe curato con una donazione. Mirco non comprese bene: ma qualcosa che era nel corpo di Delia sarebbe entrato dentro di lui, e lui sarebbe lentamente guarito. Non era qualcosa di sicuro, ma bisognava provare. Per cui un giorno partì con la madre e andò in ospedale per l'ultima cura.


Le cure che Mirco fece erano davvero difficili. Ogni volta stava male, e si chiedeva che cavolo di cura fosse, se poi stava peggio di prima. Avrebbe rinunciato sicuramente, senza i sorrisi e i disegni di Delia.


Allora Delia decise che era il suo turno per cercare di farlo sorridere. Lo faceva in vari modi, ma quello che Mirco preferiva era quando lei disegnava di nascosto (per esempio quando Mirco era all'ospedale per le cure) sulle pareti della stanza, e creava un piccolo mondo per la sua notte.


Mirco non riusciva più a far ridere Delia. Avrebbe voluto, ma era sempre troppo stanco, troppo debole, e questo gli dispiaceva, forse, anche di più di essere così malato. 


Il bambino era sempre più stanco, sempre più pallido. Le sue mani si riempivano di puntini rossi. Sua madre lo controllava sempre, ma non riusciva a vedere nessun disegno sulla sua pelle, come non riusciva a vedere nessun senso nel suo destino.


Sembrava una serenità senza interruzioni, un vetro pulito senza crepe o aloni, la vita di Mirco e Delia e dei loro genitori. Tutti si volevano bene e filava liscio, come un sorgente lungo una collina. Ma un brutto giorno il vetro esplose senza preavviso: Mirco stette poco bene - per la prima volta perse nel gioco della zuffa con Delia, e poi peggiorò a vista d'occhio: il medico gli diagnosticò una malattia mortale.


Mirco e Delia erano due bambini sempre giocosi e vivaci. Erano fratelli, Mirco era di tre anni maggiore: litigavano di rado, e quando lo facevano Mirco trovava sempre un modo per farla tornare a ridere. Una volta le fece un brutto scherzo, allora per farle tornare il sorriso le regalò dei pennarelli bellissimi. Di quelli che puoi scriverci sui vetri e sui muri, volendo. Delia allora prese a colorare il mondo.



giovedì 10 giugno 2021

Cosa vuol dire giocare?

 



Cos'è per "me" il gioco?
Definire significa mettere qualcosa dentro a un insieme, e lasciare fuori qualcos'altro.
Non so definire il gioco.
Però... sai quando ribalti un divano per infilarti sotto una tenda indiana o una grotta misteriosa?
O quando lasci che la pioggia ti bagni senza preoccuparti dei vestiti sporchi?
Quando ti ricordi che conservi ancora l'armadio rotto di tua nonna e, quando ne parli con uno sconosciuto, ti ricordi ancora il suo sorriso di dolce rimprovero?
Quella volta che ti prendi una pausa tra le mille cose che non hai scelto, per vedere come la luce cade sulle foglie?
Quando in quel marasma di cose che il mondo manda avanti con il pilota automatico, trovi spazio per qualcosa che non ha senso per nessuno, tranne chi sta dentro a quel cerchio, sotto a quel tetto?
Quando infili un discorso dentro un altro discorso e tiri notte senza ben capire di che avete parlato, ma state tutti meglio di quando avete iniziato?
Quando torni a casa stanco e un po' depresso, ma alzi lo sguardo e - d'improvviso - ti ritrovi circondato, in quel prato di periferia, da tante lucciole come non accadeva da chissà quanti anni?
Come quando ti appiccichi le dita di colla e colori, prendi il tempo e ne fai un pastrocchio, ma sai che non è perso...

Ecco... credo che giocare sia una cosa così.

lunedì 3 maggio 2021

Cos'è la filosofia? (Una passeggiata tra sogni e farfalle)



Che cos'è la filosofia? Bisognerebbe scrivere interi testi di filosofia per rispondere a questa domanda, e talvolta definire un concetto rischia di essere troppo semplificativo o delimitante: meglio incontrarlo.
Per esempio, tramite un esperimento mentale.

domenica 2 maggio 2021

Non capita spesso, ma a volte succede

 


Non capita spesso, ma a volte succede. 

Un pomeriggio troppo uggioso,

la noia si accumula nel tempo perso

e la vita sembra andare dove non hai scelto

dove non sai. 

Ma il cielo si apre, 

i colori si accendono

come scelti a tavolino

la luce si adagia sui rami

come pittura sulle dita. 


Non capita spesso, ma a volte succede.

Tra le tenebre che ti stringono

le giornate uguali si ripetono

i pensieri grattano il cervello

come zombie chiusi in una stanza. 

Ecco un filo di chiarezza

Tiri tu, ti trascina lui

dove puoi ancora creare

dove smetti di aspettare.


Non capita spesso, ma a volte succede.

Un foglio bianco non vuole parlare

ti fa credere di essere niente

perché niente avviene.

Poi l'aria si sporca di musica e di tè

note leggere, bagnate di gradevole amaro. 

La luce è quella giusta.

Il foglio non è più vuoto

e tutto il mondo... per ora

sei tu. 

venerdì 23 aprile 2021

I pensieri di Spina: cose senza nome

 



"E come la descrivi una cosa così?

Qualcuno lo chiama letto di tenebre, qualcuno parla del fuoco: quando si accende intorno e il fumo ti entra nei polmoni la finestra al quinto piano ti sembra così vicina ed attraente, e mai abbastanza alta.


Ma l'acqua è meglio. Affogare. Sprofondare, scendere nel buio delle tenebre, domandarsi da dove arrivano e risponderti: da me. Sempre da me. 


Affoghi perché l'aria che respirano tutti ti sembra qualcosa di speciale, qualcosa che non va davvero bene nei tuoi polmoni, che quando ti entra in bocca ti secca la lingua e te la fa incollare al palato. 

Non è cosa per te. 


Sprofondi perché non trovi connessione con quello che fanno tutti. Giocano in modo diverso, seguono inconsciamente delle regole che tu non solo non comprendi, ma fatichi perfino a trovare, ed anche a beccarle, da qualche parte: sono in una lingua che non ti appartiene. 


Scivoli ancora più in basso perché poi arrivano i sensi di colpa, e colpiscono così forte che neanche un pugno di Tyson o un triangolo di Khabib. Sì, perché tu lo sai che stai affondando per colpa tua, ma non vuoi che altri in qualche modo ti seguano, o che siano in colpa perché non possono aiutarti. 


Affoghi e la verità è che non sai perché. O meglio, qualcosa lo intravedi: nelle acque più profonde tutto diviene meno speciale, meno particolare, meno pregno di significato. 

Eppure era lì che trovavi ogni dannato colore. Era lì che trovavi ogni senso, oltre la superficie che tutti si ostinano a navigare. Bisogna scendere ancora più a fondo, allora?

Perfino i pesci abissali sembrano così indifferenti. Li guardi e non sai cosa dire, anche quando ti sfiorano delicatamente il volto e sembrano sorriderti: vorresti ringraziarli e sentirli davvero, ma quando affoghi qualcosa ti impedisce di farlo davvero. Senti semplicemente che stai scendendo.

Che stai sprofondando. E apri la bocca, le rarissime volte che vuoi dirlo, ma da lì escono solo bolle. E le bolle non interessano a nessuno. Non queste qui.  


Ed è così strano: a volte tutto è indistinto, noioso, indifferente, a volte tutto è così tetro e terrificante da sentire così tanta tristezza da chiederti come fai a sopravvivere: quella è l'acqua che ti entra nei polmoni e ti ammazza dall'interno. 

A volte, quando tutto non è così terribilmente triste o così incredibilmente insignificante ci provi a sputare fuori tutta quella merda, ci provi davvero.

Ma a volte hai troppa acqua in bocca, e troppo poca aria nei polmoni.

A volte provi perfino a sfiorare i colori di un pesce o azzardare un timido sguardo verso la superficie. Solo che ti sembra sempre di esserteli inventati quei colori, quella via di fuga. E allora pensi perfino che non te la meriti, quella via di fuga. Quella luce, quei colori. 

Ti guardi dietro e vedi che hai attaccata al culo una lunghissima coda di sporcizie, lattine vuote, sacchetti di plastica gettati, polvere mescolata al sangue e all'inchiostro. Non sai quanto sia lunga quella coda, ma si attorciglia ovunque, e forse è incastrata nel fondo degli abissi: ti ancora là. E tu la guardi, quella coda, ed ogni occhio la vede diversamente.

Da una parte non c'è cosa che tu possa odiare di più, non c'è cosa che possa farti più schifo. Dall'altra però, la guardi con un certo affetto, con una qualche misura di tenerezza: in fondo è il tuo percorso, per quanto attorcigliato e complesso, per quanto sporco e merdoso. 

Non lo sai se prima o poi lo toccherai il fondo, non lo sai se quella fottuta coda prima o poi si spezzerà, non lo sai se tutta quella dannata sporcizia prima o poi ti servirà a qualcosa, o forse sarà proprio quella a farti tornare a galla. 

Non lo sai."

giovedì 8 aprile 2021

IL sistema dell'apprendimento




Gli scatoloni del giorno erano quasi pronti. Grazie alla direzione del signor Yorick, anche questa mattina tutto era stato riordinato e preparato alla perfezione.


Nel primo armadio erano stati posizionati i materiali per la prima classe. Questi, erano suddivisi non solo per argomenti e fasce di età dei fruitori (o dei bisognosi, per meglio dire), ma anche per tipologia di somministrazione, metodo di verifica e perfino posologia eccezionale, per casi legalmente certificati.


Il Grande signor Yorick stava illustrando l'enorme archivio al signor Zweifel, che era venuto dall'estero per osservare i metodi del sistema, ormai diffuso uniformemente - con pochissime vere varianti - in tutto il mondo.


Era veramente incredibile la capacità che aveva il Grande signor Yorick di fare tante cose contemporaneamente: mentre guidava il signor Zweifel tra i numerosissimi labirinti bibliotecari del Sistema. Riusciva infatti a mostrare i materiali, dare gli ultimi ritocchi mentre spiegava, dare le ultime istruzioni del momento ai suoi dipendenti, il tutto senza perdere mai il filo. Per farlo, doveva essere perfettamente organizzato: anche l'imprevisto era incasellato in un preciso tempo ed un preciso tassello: di modo che venisse prontamente neutralizzato.


Il signor Zweifel ne ebbe prova diretta quando una sua collaboratrice, allarmata, gli disse che nella scuola dodici del quarto distretto era arrivata una nuova ragazzina, con certificazione A018, ed aveva due ore buche, quella mattina. Il Grande Signor Yorick continuò a mostrare il percorso al suo ospite, ma nel mentre prese dei materiali: una raccolta di slide, un breve messaggio audio, due pagine di lettura, un paio di immagini, una mappa concettuale ed una verifica a domande brevi, con risposta di massimo dieci righe ciascuna. «Pim pum pam, partite con il castello medievale e la sua struttura, e le ore sono riempite, occupate» aveva già costruito il pacco, e lo aveva consegnato alla sua dipendente: «Lo porti in consegna». La donna lo ringraziò con occhi ammirati, e partì per la consegna del prezioso pacchetto disciplinare.


Intanto, il signor Yorick illustrava il Sistema, mostrando con gesti pragmatici l'enorme archivio di materiali al signor Zweifel. Il tutto sembrava inserito in una struttura enorme e labirintica, ma da come si muoveva il suo architetto ed i suoi dipendenti, si comprendeva che ogni cosa fosse perfettamente organizzata. Ogni elemento era al suo posto, esattamente dove doveva stare. «Qui si trova di tutto in termini di contenuto, dalle rocce sedimentarie al moto rettilineo uniforme; dal piano inclinato al De rerum natura; dai logaritmi ai giorni della settimana in inglese e francese».


Il signor Zweifel annuì guardando l'enorme struttura, poi chiese «Ho visto che ha abbinato dei materiali a delle prove di verifica ed una lista di procedure, nel pacchetto di prima, se non sbaglio...».


Il signor Yorick sorrise mentre controllava un dipendente allestire un pacchetto dedicato alla lettura delle ore analogiche e digitali e preparava un suo personale bonus di un'ora sulle mogli di Enrico VIII (divorced beheaded died, divorced beheaded survived) «Certamente, i pacchetti sono divisi per età di somministrazione, tempo di fruizione, difficoltà disciplinare, metodologia di acquisizione e tipologia di verifica. Se si segue la giusta procedura è davvero impossibile sbagliare» lo disse mentre allestì nel mentre un nuovo pacchetto: «Pim pum pam, pacchetto sui pianeti del sistema solare. Mentre Volavo Tu Mi Gettasti Su Un Nuovo Pianeta» ridacchiò consegnando il pacco ad un giovane corriere.


Il signor Zweifel si grattò la barba castana, pensoso, poi chiese: «Ma c'è possibilità che gli studenti possano scegliere i loro pacchetti, o almeno parte di essa?».


Il grande signor Yorick rise di tanta ingenuità: «I pacchetti sono studiati nel minimo dettaglio, dai contenuti, alla proceduta di somministrazione, alla verifica degli apprendimenti. Ed ogni pacco si collega con logica e coerenza perfetta ad altri pacchetti, formando una catena senza anelli deboli, senza lacune di alcun tipo. Un tale lavoro esclude che si possa fare una scelta del genere senza conoscere perfettamente di cosa abbiano bisogno i discenti».


Ovviamente, Yorick rispondeva a tutto questo mentre controllava due altri pacchetti: uno riguardava la Maieutica socratica (suddivisa in comodi schemi ad albero ed esempi significativi e verificata con un test multiplo a crocette) ed un elenco di 35 figure retoriche, collezionato in ordine alfabetico e con indice di frequenza nelle poesie di maggior valore oggettivo.


Qualcosa però continuava a non tornare al signor Zweifel «Quindi i contenuti sono predisposti per fasce di età ed utilità conseguente. Mi chiedo però: se gli studenti non possono scegliere quali pacchetti esaminare, o per meglio dire, di quale materia interessarsi, o di quale domanda tentare di cercare la risposta, non rischiano di perdere interesse? E, in ogni caso, non potrebbero scegliere almeno il metodo di apprendimento e di studio?»


Il signor Yorick quasi rise, poi scosse la testa mentre allestiva una risma di fogli colorati l'uno sull'altro: l'illustrazione del RAGionier VAIV spiegava i colori dell'arcobaleno, per poi verificare con un compito di realtà (la ricerca su internet di un arcobaleno) la conoscenza dei discenti. «Vede, caro amico, la vera istruzione non è diversa dalla Medicina: i pazienti non sanno davvero cosa li affligge, né perché, sono i dottori, forti della loro preparazione, a sapere non solo cosa è meglio prendere, che dieta seguire e che cura apportare, ma anche come farlo, e con che tempi. Il che non è strano: è il loro mestiere, il loro studio ed in fondo... la loro vita. Allo stesso modo, i discenti non sanno davvero quello che bisogna conoscere, come apprendere o come performare. Ma il Sistema è forte di moltissimi anni di studio e di perfezionamento, e per ogni contenuto ha ormai trovato il giusto metodo di connettere i contenuti ai metodi, i procedimenti ai test, gli spazi ai tempi. Rompere un tassello del meccanismo, per frenesia o ingenua curiosità, significherebbe, come le dicevo indirettamente prima, indebolire la catena».


Il signor Zweifel si fermò per qualche istante per guardare il via vai dei corrieri vestiti di bianco e con il cravattino nero disperdersi tra quegli enormi archivi, sembrava effettivamente un formicaio perfettamente organizzato. E si sa, le formiche possono sparpaiarsi di tanto in tanto, ma poi tornano sempre dove erano, e la loro struttura gli permette di sopravvivere a quasi ogni cataclisma, se non a livello individuale, a livello gerarchico e sociale. «Mi viene però da dire» continuò in ogni caso il pensoso ospite del Sistema «che se uno studente non può mai scegliersi un argomento o una metodologia di studio rischia di finire per annoiarsi, di non sentire come proprio quello che sta analizzando, non capire davvero perché lo stia facendo e...»


Yorick lo interruppe, mentre già stava finendo di impacchettare un bonus sul teorema di Pitagora con applicazione sull'agrimensura dei campi di barbabietola da zucchero «Oh ma non deve preoccuparsi di questo: nei pacchetti sono sempre inclusi dei suggerimenti per rendere sempre frizzante la procedura o la lezione dei docenti. Per esempio, sono corredate di anedotti divertenti, o ganci cognitivi, come piccoli e celeri riferimenti allo sport o allo spettacolo, di modo che gli studenti si sentano sempre in empatia e connessione, ma senza limitare i contenuti o indebolire la struttura di verificazione».

«Così però non li si sta semplicemente ingannando?»

«Prego?»

«Voglio dire, si rende una lezione statica leggermente più dinamica per far credere che ci sia un collegamento con quel ragazzo o l'altra signorina, ma in realtà il tutto è rimasto immutato, solo che si è aggiunto un po' di colore per poter dire che tutto è cambiato».

Yorick ridacchiò mentre sistemo velocemente un pacchetto sulla sociologia della religione, che includeva un veloce passaggio sul culto fatto in caso ed una breve possibilità di dibattito sul crocifisso in aula. «Lei sottovaluta i dettagli: se aggiungo molteplici comfort ed optional ad una vettura, non sto ingannando chi la guida, la sto effettivamente cambiando. E, in un certo senso, quella macchina non è più la stessa».

«In un certo senso...»

Passando su un altro tavolo, l'ospite vide come si facevano certe antologie: si prendevano dei romanzi, o dei racconti lunghi, e li si tagliavano, facendole come a pezzi, per poi ricomporle, appunto, come un utile florilegio. Ogni pezzo, ovviamente, aveva un commento, delle note a piè di pagina, degli esercizi da svolgere sulla lettura oppure, se necessario, una parafrasi: nella pratica, il saggista o curatore dell'antologia spiegava in parole semplici quelle cose che il poeta o l'autore del testo non erano riusciti a spiegare, tenendo un po' troppo alle loro... "pieghe". 

Rimase insieme stupito ed affascinato da quel mestiere, ma anche critico: «Ecco. Mi viene da chiedere, ma spezzettando così un libro intero, e leggendone solo dei passi, non si rischia di perderne il senso completo?».

Il grande signor Yorick rispose con estrema pazienza, anche se le sue mani correvano veloci per riordinare accuratamente dei pezzi - per esempio un terzo di lunghi racconti, o una paginetta di qualche romanzo - assieme a lunghi commenti ed analisi di ogni forma «Prima di tutto, c'è sempre da considerare il tempo. Non si può far tutto. Si deve scegliere, ed è sicuramente meglio prendere dei frammenti, ottimamente spiegati, di molte cose diverse, che poche cose per intero. Inoltre, lei deve sempre considerare che qui lo scopo non è leggere per intero dei romanzi o dei racconti, a titolo di esempio, ma far capire le strutture, le forme, i linguaggi: lavoro molto più difficile, ma assai più costruttivo. Le storie, in fondo, sono degli accessori ai temi, alle figure, alla terminologia da imparare».

L'ospite annuì senza rendersene conto: in fondo sembrava tutto così razionale. Fece ancora qualche domanda, ma più generica, mentre esplorava altri reparti del Sistema, ma sembravano tutti molto simili al primo: probabilmente, come il signor Yorick gli aveva spiegato, non aveva la preparazione necessaria per cogliere ogni singola distinzione, ogni piccolo e pregiato dettaglio che, al contrario, gli avrebbe fatto apprezzare di più sia le minute differenze, sia la struttura generale del Sistema e la sua perfezione.

Ad ogni buon conto, il signor Zweifel alla fine del giro era ancora pieno di domande. Si chiedeva perché tutti quei giganteschi armadi fossero destinati specificamente ad una certa età, si domandava perché non fosse possibile mescolare persone di diversa età, o perché il tempo fosse così preciso nello scandire gli anelli della catena, come amava dire il signor Yorick, ed al suono della campanella, per dirla così, bisognava per forza smettere di fare quello che si stava facendo, per passare ad altro. O ancora, si chiedeva perché il 90 per cento dei contenuti fossero dedicati - per dirla con Cartesio - ad attività mentali e cognitive e saltassero a piè pari (è il caso di dirlo) l'utilizzo del corpo fisico e del coinvolgimento emotivo, come nell'arte, la danza, il canto, il teatro o la lotta. Ancora, si chiese se non fosse il caso di inserire nella complessa procedura del sistema qualche tempo morto, per riposarsi, parlare, o magari inventarsi qualcosa di nuovo o, semplicemente, lasciarsi il tempo di assorbire quanto precedentemente osservato. Si chiese perfino perché gli spazi dovessero essere sempre quelli, sempre al chiuso, e sempre su quelle sedie.


Alla fine però, sentite le sempre pronte risposte del signor Yorick , si convinse della vanità dei suoi dubbi. Tutto sommato, si sentì anche un po' in colpa: chi era lui per mettere in dubbio quelle pratiche consolidate, e corroborate dal tempo, oltre che dalla autorevole competenza del suo creatore? Decise quindi di mettere da parte ulteriori domande, convincendosi della bontà del Sistema. Anzi, uscì da lì con un bel pacchetto metacognitivo sulle procedure di insegnamento veramente completo: c'erano 150 slide, 15 mappe mentali, 30 flashcards, un video bonus e ben tre tipologie di verifica! Non solo, il signor Yorick, come ringraziamento per la sua visita, gli regalò un bonus fatto sul momento sull'arte cretese. Non sapeva ancora come era organizzata, ma ormai non aveva più dubbi: era esattamente ciò di cui aveva bisogno.

mercoledì 31 marzo 2021

Più o meno una borraccia

 


Un alto cilindro di plastica viola che scivola nell'azzurro

e poi nel verde.

In cima, ha un tappo nero provvisto di chiusura ermetica.

C'è anche una sicura: basta alzare la levetta di plastica per evitare perdite improvvise.

Appena sotto il tappo, una coroncina di stoffa verde forma un piccolo nastro per poter prendere la borraccia anche da quel cordino.

Lungo la costa laterale, una scritta sottile, quasi fusa con la trasparenza colorata del rivestimento plastico indica la marca: "New Water" e quasi sembra volersi confondere con l'acqua che contiene.

Sempre presso la superficie, di lato, vi sono delle tacchette che segnano sia la quantità volumetrica del liquido sia il tempo, in ore. Antimeridiane e postmeridiane.

Il quantitativo in acqua è segnato in once (OZ), unità di misura a me misteriosa ma che, lo dice wikipedia, dovrebbe essere pari a circa 30 ml.

Più interessante è l'orario: serve a mettere in relazione il livello dell'acqua e il tempo della giornata.

Io mi fido della borraccia e del suo tappo ermetico, ma lei non si fida di me. Mi ricorda, infatti, quanto devo bere e a che ora. Ma non basta: sul fondo mi ordina di riempirla quando l'acqua raggiunge quel livello.

A pensarci, non mi sembra un rapporto paritario: in fondo, anche tu, cara e fedele borraccia, nonostante il nastrino, il tappo ermetico e la leva di sicurezza, hai avuto le tue incertezze.

Ti ricordi quella volta che bagnato la sua giacca nuova, sul sedile posteriore della macchina, quando eravamo in gita ed io non sapevo come scusarmi?

In fondo, quello era il tempo in cui io e lei stavamo imparando a conoscerci e, saltando le tappe, guardandoci negli occhi stavamo imparando ad amarci.

Per fortuna, quella giornata fu così bella che nessuno ebbe davvero il coraggio di lamentarsi di un po' d'acqua rovesciata sulla giacca nuova: ecco, quando la vita è bella, è più facile perdonare.

Anzi, la memoria e il buon umore riesce perfino - con il tempo che diventa ricordo - a trasformare un fastidio in un sorriso piacevole. Alle volte, perfino una tragedia può far sorridere, e non per forza bisogna vergognarsene.

Quasi, cara borraccia, mi viene da ringraziarti, per quell'errore.

E tu? Lo so, sono un tipo disordinato e scostante; spesso mi dimentico le cose e mi perdo facilmente ma, forse, un giorno anche tu saprai ridere dei miei difetti e delle mie numerose mancanze...

Tornando al tuo errore: non era un'occasione da poco; eppure, non me la sono presa con te al punto da ricordarti ogni santo giorno cosa devi fare (o non devi) e a che ora!

In fin dei conti, insieme stiamo capendo che il mondo lo puoi vedere come qualcosa da provare, qualcosa da riempire tappa per tappa, ogni cosa al suo giusto momento, senza mai sgarrare; oppure, puoi bere tutto di un fiato e scombinare i tempi; scoprire - perfino - che se anche qualcosa non va come dovrebbe, anche se qualcosa si rovescia... be', in fondo, poco male: è solo un po' d'acqua; è solo una borraccia.  


mercoledì 17 marzo 2021

Prima di ripartire




Prima di ripartire

Finito il lavoro mi siedo in macchina.

Aspetto ad accenderla: guardo solo davanti a me.

Non ho la forza di ripartire

così sto fermo e, tra le luci dell'orologio

e del contachilometri

cerco di trovare un senso alle ore spese lì dentro.

Alcune macchine di alcuni colleghi partono,

si allontanano dal parcheggio.

Non ci riesco.

Rimango a contare i respiri e trattenere le lacrime.

Stringo il volante e mi chiedo: "Che ci faccio qui?"

Chiudo gli occhi per dieci secondi e accendo la macchina.

Prendo il telefono dalla giacca e, non so perché,

ascolto la tua voce registrata.

Alzo gli occhi oltre al parabrezza e lo vedo.

Nel prato del parcheggio,

un grosso uccello di cui non saprei dire il nome.

Ha un piumaggio grigio e blu, e un bel becco arancione.

Sembra sereno.

Forse cerca qualche briciola in quel granello di prato,

nel parcheggio, tra i posti auto.

La radio si accende sull'ultima traccia.

Abbina uno sfondo perfetto alla tua voce

mentre quell'uccello blu e grigio zampetta,

tranquillo, intorno alla mia macchina.

Sorrido e aspetto ancora...

Qualche altro secondo...

Prima di togliere il freno a mano e mettere in prima.

Posso andare.

Ora posso andare.  


martedì 9 marzo 2021

Quale mondo vuoi?




 Un piccolo frammento di vita (più o meno immaginaria) che mi è arrivato da questa canzone di Laura Shigihara (e relativo gioco - Rakuen): 

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[Parco della betulla, Esterno Giorno, Sole. ]

Nel parco c'erano tanti alberi, ed anche laghetti, piccoli ponticelli, qualche giostra e più di un'altalena, ma soprattutto alberi. E uno di questi, era decisamente particolare: più particolare di tutti. Stava vicino alla grande villa neoclassica a poche centinaia di metri dall'ingresso principale del parco, ed era un'enorme betulla piangente. No, non un salice, proprio una betulla, con tanti di quei rami che scendevano fino a toccare terra... tanto da creare una specie di tenda, anzi, un vero e proprio salone naturale. Ci si poteva entrare e nascondere, senza neanche bisogno di stare rannicchiati o abbassare la testa. Per la verità, era talmente grande, lì sotto, che ci poteva stare una dozzina di persone, e c'erano perfino due panchine. Belle e bianche: come il tronco della betulla.


A volte la gente entrava sotto quei folti rami come si entra aprendo le tende, o in quei vecchi negozi dove molteplici fili di perline fanno da porta: bisogna stringere le mani per infilarle in una piccola sezione (tra un filo di perline e l'altro, o tra un ramo piangente e l'altro) e poi aprire le braccia, per allargare il varco ed entrare dentro in quella sorta di salone da ballo naturale, che era anche una specie di grande rifugio. Basta quindi fare un singolo passo e la cascata di perline (o di rami) si chiude dentro di te, facendoti quasi entrare in un altro mondo. Da fuori, non riuscivi davvero a vedere quello che c'era dentro.


A volte, non c'era niente di davvero interessante da vedere, ma un pomeriggio, quel pomeriggio, qualcosa di importante successe davvero. Ecco cosa.


Due ragazzini erano seduti per terra, vicino ad una panchina, bianca e bella, come la betulla dentro la quale erano nascosti. Uno aveva i capelli biondissimi, l'altro, rossicci. Uno era un poco più alto e magro, l'altro portava gli occhiali, ma si assomigliavano proprio tanto. Del resto, entrambi assomigliavano proprio tanto alla donna dai capelli chiari ed i grandi occhiali circolari seduta sulla panchina. Questa di tanto in tanto guardava i due ragazzi, ma perlopiù sembrava fissare il vuoto. O meglio, quella specie di muro naturale che i rami della betulla costruivano.


Ai piedi dei due ragazzi c'era un po' di tutto: ghiande, castagne, sassolini colorate e qualche foglia dalla forma interessante. Forse anche qualche cartaccia ed altro che avevano trovato e recuperato passeggiando per il parco.


I due bambini pescavano tra quelle cianfrusaglie, ne prendevano una e la mostravano all'altro, poi creavano una storia, o un mondo.


Per esempio, il rosso prendeva un sassolino bianco con al centro una sfumatura di blu e diceva: «Questo è un mondo fatto quasi interamente di sabbia bianchissima. Al centro c'è un enorme lago azzurrissimo e, almeno una volta nella vita, tutti gli abitanti delle sabbie bianche vanno a vedere il lago azzurro: un lago bellissimo e anche magico, perché ci si può respirare dentro e, forse anche per questo, non è abitato da pesci, ma da gatti, scoiattoli e cagnolini che ci nuotano dentro, fin nelle sue profondità».


Allora l'altro ragazzino prendeva una foglia verde verde e molto piatta e diceva qualcosa come: «Questo mondo è una nave gigantesca che vola nel vuoto. Una nave verdissima e fatta interamente di piante e liane, con alberi da frutta, orti e caramelle che crescono dal terreno. Ci si organizzano feste danzanti e canti lunghissimi. Continuamente, mentre la nave - quel mondo verdissimo - se ne va a spasso per il vuoto, quasi fosse un mare tutto nero, senza dentro niente».


Ancora, il rosso prese in mano un piccolo ombrello da cocktail, tutto rosso, e spiegò che quello era un mondo sempre all'ombra: perché stava sempre sotto un enorme ombrello, più grande di tutti i paesi del mondo. Era un bel mondo perché lì potevi rifugiarti quando il sole picchiava troppo, ma anche quando avevi bisogno di nasconderti: l'ombra ti dava, in qualche modo, la sensazione di protezione che cercavi.


Oppure, ancora, l'altro ragazzino prendeva in mano una ghianda con un buco dentro, e parlava di un mondo dove quasi tutto era dentro un'enorme caverna, con stalagmiti e stalagtiti fosforescenti e coloratissime. Questa caverna era talmente grande da contenere laghi, oceani, e perfino mondi con dentro grandi parchi dove si potevano trovare betulle piangenti abbastanza grandi da celare, sotto i suoi rami, delle sale da ballo, o almeno da pranzo.


La fantasia di questi ragazzi, che si scambiavano i loro mondi, come altri si scambiano le figurine, destò quel pomeriggio l'attenzione di due singolari personaggi.


Uno era un tipo molto alto, con un bel cappello rossiccio che lo faceva sembrare ancora più alto. Aveva degli strani braccialetti fosforescenti ed elettronici sul polso e se ne stava con un album da disegno appeso ad un leggio ed una tavolozza di colori davanti, e un pennello in mano. Era, ovviamente, un pittore, e stava disegnando qualcosa che quei due giovani avevano evocato. Non tanto lontano da lui, seduto sull'altra panchina sotto la grande betulla piangente, c'era un tizio con un bel pizzetto nero e gli occhiali da sole. Leggeva un enorme giornale ingiallito, ma spesso alzava lo sguardo castano verso i ragazzi, o verso l'artista, specie quando sentì quest'ultimo parlare.


Il pittore, infatti, dopo aver sentito il bizzarro gioco dei ragazzi, fece loro i complimenti e gli mostrò quanto aveva disegnato: una versione dei bambini da adulti, molto caratterizzata. Il biondo era dipinto come un esploratore. Lo si capiva dalle mappe che aveva in mano, il cannocchiale al collo, e la bussola nel taschino. Il ragazzino coi capelli rossi era rappresentato - sicuramente - come uno scrittore. Nel disegno aveva degli occhiali con la montatura a tartaruga e le dita sottili su una vecchia macchina da scrivere.


Il pittore, con un gran sorriso, incitava i ragazzi quando li vide curiosi e stupiti dalla sua opera. «Vedete, ragazzi, mi avete dato ispirazione per creare questo disegno. Per ringraziarvi, voglio ricordarvi che, se ci metterete tanto impegno, potrete diventare qualsiasi cosa! Nella vita, non importa cosa vi dicano gli altri, potete realizzare qualsiasi sogno, basta...» stava per andare avanti con ardore, quando il signore, alzando lo sguardo da sopra il giornale ingiallito, lo interruppe. «Non dovrebbe illuderli a quel modo».


«Prego?»


«Questo mondo è difficile e complesso, ed ovviamente la maggior parte della gente finirà a fare lavori umili e che non ha scelto. Solo pochissimi potranno davvero realizzare i propri sogni, e in un certo senso è giusto così: abbiamo bisogno di chi fa il pane, chi sta alla cassa e chi raccoglie pomodori molto di più di chi dipinge o esplora nuovi territori».


Il pittore rimase stupito da tanto cinismo. «Eppure, io credo che non bisogna mai arrendersi. Se si sa quello che si vuole, si può raggiungere, con impegno e dedizione, qualsiasi obiettivo. La vita non è solo quello che ci accade».


«Mi sembra piuttosto crudele come concezione».


«Ma come! Sono io quello che sta alimentando i loro sogni. Sono io quello che crede nella speranza e nell'impegno, lei sta dicendo a questi poveri ragazzi che il mondo è impietoso ed ingiusto».


«Veramente ho solo detto che non mi sembra il caso di alimentare false speranze. Inoltre, non c'è niente di male nello svolgere un lavoro semplice o meccanico... ed... ecco, nel suo discorso io vedo una grande cattiveria: parla di impegno e dedizione, di come bastino questi due elementi ad ottenere qualsiasi cosa. Alla fine il rischio è che chi per sfortuna o caso non riuscisse a realizzare i propri scopi non solo dovrebbe sentirsi frustrato per il mancato successo, ma dovrebbe perfino sentirsi in colpa: perché sarebbe solo di peso da loro, e non dalle circostanze avverse. Non sta facendo davvero un favore a questi due simpatici marmocchi».


Il pittore sembrava scandalizzato. «E quindi non dovrebero neanche tentare? O dovrebbero già credere che sia tutto una questione di fortuna o sfortuna? A volte questa è solo una scusa per non tentare! Se non si crede davvero in se stessi, si dà sempre la colpa a qualcosa di esterno. Si crede che se non si è riusciti in qualcosa è solo perché non si è stati capiti, e le circostanze sono state avverse: si rischia di essere dei falliti credendo di essere dei giganti, ma senza mai provarlo. É questo quello che vorrebbe, per questi due figlioli?»


«Io veramente dicevo solo che dovrebbero abbassare le aspettative: si vive molto meglio, se non ci si aspetta mai granché dalla vita. Si rischia meno di vivere di illusioni o di farsi fregare».


«Credo davvero che questo sia un terribile insegnamento da dare!»


Il signore con il giornale alzò le spalle, poi guardò verso la signora con i grandi occhiali rotondi dietro ai ragazzi, che sembrava aver ascoltato tutto il loro discorso, pur senza dire una parola. Era ovvio che fosse la loro madre. «E lei, signora, che cosa ne pensa?»


La mamma dei bambini - lo era effettivamente - guardò alternativamente i due signori, il pittore e l'uomo con il giornale. Se ne stette in silenzio per un bel po', come pensandoci sopra. Quindi sorrise, di un sorriso largo e aperto, ma strano, ad occhi più larghi degli occhiali grandi. Sorrise senza pensieri, senza futuro e senza passato. Poi, senza dire una parola, cercò qualcosa nella tasca, fino a trovarlo: un vivacissimo naso rosso. Se lo mise sul suo vero naso, coprendolo interamente. Poi, dalla borsa che aveva accanto, tirò fuori una sciarpa lunghissima e colorata, con la quale si avvolse il collo e le spalle e, infine, sempre dalla borsa, tirò fuori una banana. Se la portò all'orecchio e, alzandosi, cominciò a parlare, come fosse al telefono, ma in una lingua incomprensibile: «Aaaaaah, gherisbei, poten-damoi nucaratan, socheleman, dossemas, nipirmas doche!» e continuava, continuava come un fiume in piena, con parole che né il pittore né l'uomo con il giornale potevano afferrare: si limitarono a guardare la scena della signora con il naso rosso e la banana come telefono che se ne andava fuori dalla betulla piangente, mentre i due ragazzini, ridacchiando, la seguivano. Lasciarono i due uomini stralunati e confusi, per una volta senza parole. Tutti e tre teatralmente marciando, non come avanzano i soldati, non come strisciano i paurosi, ma come inciampano i clown.

mercoledì 3 marzo 2021

Basta abituarsi




 Non pensavo di arrivare a scriverti una lettera, ma credo che ormai sia necessario. Non sono del resto un amante della tecnologia e della sua velocità, sebbene di tanto in tanto, come tutti, e come sai, la ritenga utile. Non c'è però paragone con l'utilizzo della carta e dell'inchiostro: il vecchio gesto manuale ha tutto un altro fascino, tutto un altro tempo. Quello che ci passa per la testa si colora delle nostre emozioni, e quelle vibrazioni si trasmettono attraverso l'atto della scrittura manuale. Neanche la dimensione è secondaria: c'è un motivo per cui in un momento la nostra grafia tende ad essere più piccola, ed a volte più grande. C'è più di un motivo per cui la nostra mano diviene più tremula o più salda. Come ci sono delle cause nella fluidità della nostra scrittura, o negli errori che commettiamo. I font e le sottili differenziazioni preimpostate del computer non riescono davvero a riprodurre tutti questi intrecci tra la mente, la mano ed il cuore.

Anche la fatica ed il dolore al polso hanno il loro significato: lo sforzo ci costringe a considerare il sacrificio e l'importanza dei nostri gesti. Un diverso quantitativo di impegno ci costringe a selezionare: decidere quale filtro adoperare per riordinare il caos del mondo. Scegliere cosa fare entrare, decidere cosa far uscire.

La lentezza ci costringe a pensare, e scegliere.

Io scelgo te.

Ci conosciamo da un po', e credo tu abbia ormai capito…

E' tanto difficile ammetterlo, vero?

Mi chiedo quale sia stata la prima volta in cui ci sei davvero arrivato. E' stato quando ci siamo visti al parco? Ricordi quanto abbiamo corso per inseguire quel tuo cane: non pensavi si sarebbe mai più fermato…

Oppure quando, così sorpreso, mi hai incontrato fuori dall'ospedale. Ci sono poche cose che possono allontanare i problemi e riscaldare i cuori come una cioccolata calda quando fuori piove. O come quando la solitudine si spezza improvvisamente, quando il deserto ormai sembrava infinito.

O, ancora, è successo quando abbiamo bevuto quell'orribile liquore all'uovo al rifugio di montagna? Oppure quando eri ancora un ragazzino e ti chiedevi cosa poteva essere reale, e cosa frutto della tua fervida immaginazione?

La verità è che io so perfettamente quando è successo. Quando hai realizzato quello che non vuoi ammettere. Non hai bisogno di dirlo a parole: non hai neppure bisogno di rispondere a questa mia lettera. Rileggila ancora, e quando finisce l'inchiostro, ripetilo solo nella tua mente: è proprio così. È proprio così.


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Me lo ricordo come se fosse oggi. Ero solo un ragazzino e mi ero rotto una gamba per una caduta in moto. La frattura era multipla e dovetti fare un'operazione per rimetterla in sesto. All'ospedale ero in stanza con un signore sulla quarantina che pensavo fosse muto: quando ero entrato dopo l'operazione non mi aveva neppure salutato, ma continuava a star seduto e leggere la Bibbia. Aveva capelli nerissimi ed un pizzetto a punta, molto preciso. Sulla mano sinistra aveva un tatuaggio che emulava un anello completamente nero.

Durante tutto il giorno non disse una sola parola, e pensai che fosse meglio così, almeno potevo riposare e non sbattermi per impegnarmi ad intavolare una discussione di circostanza con un tizio sconosciuto. Tanto più che in ospedale si finisce sempre per parlare delle solite cose: tipo quanto stai male e che medicine prendi, o come ci diavolo sei finito in quel letto.

Di notte però, mi svegliarono i suoi singhiozzi, o quelli che credevo tali. Mi voltai verso il suo letto, e vidi le sue coperte tremare, così come la sua nuca corvina. Dopo un certo imbarazzo, gli chiesi se stava bene, e lui mi disse di no, ma senza specificare. Tornò a dissentire quando gli chiesi se aveva bisogno di un dottore.

Siccome i singhiozzi continuavano, mi tirai su sulla gamba sana, stampelle alla mano, e mi avvicinai al suo letto. Gli chiesi se potevo fare qualcosa: solo allora si girò, e solo allora mi accorsi che non stava piangendo. Non aveva gli occhi rossi né segni in faccia, l'espressione era tranquilla, e sulle labbra aveva la piega sinistra di un sorriso malsano. Ricordo perfettamente cosa mi disse.

«A volte le persone ci lasciano. Decidono di lasciarci e ci lasciano sole, dobbiamo abituarci.»

Lo disse con un'enfasi strana, e qualcosa dentro di me si mosse. Dovetti fare appello a tutte le mie forze per rispondergli: «Non è che lo scelgono. Magari sono costrette, non lo decid...»

«C'è sempre un'altra possibilità, Luca. Anche tuo padre aveva scelta. Solo che ha deciso di occuparsi di altri, invece che di te. Questione di priorità. Questione di scelte.»

Mi irrigidii di colpo: poteva sapere il mio nome perché forse un medico o un'infermiera l'aveva pronunciato, anche se non mi sembrava; ma come sapeva di mio padre?

«Smettila. È il suo lavoro, quello di aiutare le persone»

«Anche tu sei una persona. Eppure... tuo padre se n'è andato scegliendo altre persone, lasciandoti qui, solo.»

«Che cosa stai dicendo?!» urlai. «Ti diverti a prendermi in giro?»

«Sono l'unico che non ti prende in giro, Luca, verifica tu stesso. Tuo padre se n'è andato. Ora hai la tua occasione di diventare più forte, più...»

«Ti ho detto di Smetterla!» intimai. Ma lui rise. Rise così forte che non riuscì a controllarmi: lo presi per il colletto del camice da paziente, rischiando di cadere, scrollandolo con forza. Ma qualcosa nel suo sguardo, o la mia rabbia, mi portarono a lasciarlo.

Aveva smesso di ridere, ma sul suo volto era ancora appeso un sorriso indecifrabile, ma sporco. I suoi occhi nerissimi mi sembravano spilli acuminati, e per qualche secondo fui preso da una sensazione che non avevo il coraggio di confessare. Se l'avessi fatto, mi dicevo, mi sarei perduto. O forse quello strano tipo mi avrebbe ucciso, anche se per ora non mi aveva neanche sfiorato. Non con le mani.

Mi allontanai di un paio di metri saltellando, guardandomi intorno. Confuso.

Di colpo ebbi paura. Cercai il telefono nel cassetto e, riprese le stampelle, uscii dalla stanza. Chiamai mio padre, ma non rispose. Sapevo che stava aiutando a portare i soccorsi in una casa, dopo il terremoto. Non era il suo turno, ma era rimasto, per non perdere tempo prezioso. Non poteva venire alla mia operazione...

L'ansia cominciò a pomparmi nelle vene scivolando, gelida, fin dentro al cuore. Come faceva quel tipo a sapere di mio padre? Perché mi aveva detto quelle cose? E… perché mio padre non era tornato da me, sapeva che mi ero fatto male. Anche io avevo bisogno di lui…

I tentativi di chiamarlo si vanificarono. Senza sapere perché zoppicai fino alla fine del corridoio, dove era ancora accesa la TV. Strano a quell'ora. Stava andando in onda un'edizione speciale del notiziario. C'erano almeno quattro pazienti, un paio di infermieri e un dottore a guardarlo.

Durante la notte era successa una tragedia: il complesso dove lavorava mio padre per soccorrere le vittime del terremoto era crollato, sommergendo l'intera squadra sotto le macerie.

Chiamai mia madre, e quando finalmente mi rispose mi disse che aveva visto ma non sapeva nulla ancora, neanche se lui stesse ancora lavorando, o se fosse ancora vivo: bisognava confidare. Lui aveva tirato fuori da lì molte persone. Ora qualcuno tirerà fuori lui, diceva.

Volevo fidarmi di lei, ma le parole del mio compagno di stanza avevano insinuato il dubbio e lo sconforto nella mia testa.

Tornai quasi di corsa - stampelle permettendo - nella mia stanza, ma era vuota. Anche il suo comodino era vuoto e lindo, ed il letto sembrava fatto: era scappato?

Chiesi all'infermiera cosa fosse successo, e mi rispose che in realtà ero solo da tutto il giorno. Forse gli antidolorifici o l'anestesia mi avevano confuso le idee e lo avevo sognato.

Ma io sapevo di non aver sognato.

I giorni seguenti li passai ancora in ospedale, perché dopo quelle domande il dottore non si fidava a lasciarmi andare, anche se l'operazione alla gamba era andata bene.

Continuavano a dirmi che ero sempre stato da solo in stanza. In un certo senso era la stessa cosa che continuava a dirmi lui.

Il giorno dopo quello strano evento, altri uomini della protezione civile e dei vigili del fuoco cercarono nelle macerie del complesso dove mio padre stava lavorando, e poi per altri due giorni, ma nessuno sopravvisse a quel crollo.

Mio padre era morto, ed io non sapevo se essere più triste per la sua mancanza, o più arrabbiato per la sua scelta: avrebbe potuto essere ancora qui…

Ma ha deciso di andarsene. Ha deciso di non restare e di lasciarmi solo. Tutti lo fanno. Devo solo abituarmi.

Solo abituarmi.