mercoledì 3 marzo 2021

Basta abituarsi




 Non pensavo di arrivare a scriverti una lettera, ma credo che ormai sia necessario. Non sono del resto un amante della tecnologia e della sua velocità, sebbene di tanto in tanto, come tutti, e come sai, la ritenga utile. Non c'è però paragone con l'utilizzo della carta e dell'inchiostro: il vecchio gesto manuale ha tutto un altro fascino, tutto un altro tempo. Quello che ci passa per la testa si colora delle nostre emozioni, e quelle vibrazioni si trasmettono attraverso l'atto della scrittura manuale. Neanche la dimensione è secondaria: c'è un motivo per cui in un momento la nostra grafia tende ad essere più piccola, ed a volte più grande. C'è più di un motivo per cui la nostra mano diviene più tremula o più salda. Come ci sono delle cause nella fluidità della nostra scrittura, o negli errori che commettiamo. I font e le sottili differenziazioni preimpostate del computer non riescono davvero a riprodurre tutti questi intrecci tra la mente, la mano ed il cuore.

Anche la fatica ed il dolore al polso hanno il loro significato: lo sforzo ci costringe a considerare il sacrificio e l'importanza dei nostri gesti. Un diverso quantitativo di impegno ci costringe a selezionare: decidere quale filtro adoperare per riordinare il caos del mondo. Scegliere cosa fare entrare, decidere cosa far uscire.

La lentezza ci costringe a pensare, e scegliere.

Io scelgo te.

Ci conosciamo da un po', e credo tu abbia ormai capito…

E' tanto difficile ammetterlo, vero?

Mi chiedo quale sia stata la prima volta in cui ci sei davvero arrivato. E' stato quando ci siamo visti al parco? Ricordi quanto abbiamo corso per inseguire quel tuo cane: non pensavi si sarebbe mai più fermato…

Oppure quando, così sorpreso, mi hai incontrato fuori dall'ospedale. Ci sono poche cose che possono allontanare i problemi e riscaldare i cuori come una cioccolata calda quando fuori piove. O come quando la solitudine si spezza improvvisamente, quando il deserto ormai sembrava infinito.

O, ancora, è successo quando abbiamo bevuto quell'orribile liquore all'uovo al rifugio di montagna? Oppure quando eri ancora un ragazzino e ti chiedevi cosa poteva essere reale, e cosa frutto della tua fervida immaginazione?

La verità è che io so perfettamente quando è successo. Quando hai realizzato quello che non vuoi ammettere. Non hai bisogno di dirlo a parole: non hai neppure bisogno di rispondere a questa mia lettera. Rileggila ancora, e quando finisce l'inchiostro, ripetilo solo nella tua mente: è proprio così. È proprio così.


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Me lo ricordo come se fosse oggi. Ero solo un ragazzino e mi ero rotto una gamba per una caduta in moto. La frattura era multipla e dovetti fare un'operazione per rimetterla in sesto. All'ospedale ero in stanza con un signore sulla quarantina che pensavo fosse muto: quando ero entrato dopo l'operazione non mi aveva neppure salutato, ma continuava a star seduto e leggere la Bibbia. Aveva capelli nerissimi ed un pizzetto a punta, molto preciso. Sulla mano sinistra aveva un tatuaggio che emulava un anello completamente nero.

Durante tutto il giorno non disse una sola parola, e pensai che fosse meglio così, almeno potevo riposare e non sbattermi per impegnarmi ad intavolare una discussione di circostanza con un tizio sconosciuto. Tanto più che in ospedale si finisce sempre per parlare delle solite cose: tipo quanto stai male e che medicine prendi, o come ci diavolo sei finito in quel letto.

Di notte però, mi svegliarono i suoi singhiozzi, o quelli che credevo tali. Mi voltai verso il suo letto, e vidi le sue coperte tremare, così come la sua nuca corvina. Dopo un certo imbarazzo, gli chiesi se stava bene, e lui mi disse di no, ma senza specificare. Tornò a dissentire quando gli chiesi se aveva bisogno di un dottore.

Siccome i singhiozzi continuavano, mi tirai su sulla gamba sana, stampelle alla mano, e mi avvicinai al suo letto. Gli chiesi se potevo fare qualcosa: solo allora si girò, e solo allora mi accorsi che non stava piangendo. Non aveva gli occhi rossi né segni in faccia, l'espressione era tranquilla, e sulle labbra aveva la piega sinistra di un sorriso malsano. Ricordo perfettamente cosa mi disse.

«A volte le persone ci lasciano. Decidono di lasciarci e ci lasciano sole, dobbiamo abituarci.»

Lo disse con un'enfasi strana, e qualcosa dentro di me si mosse. Dovetti fare appello a tutte le mie forze per rispondergli: «Non è che lo scelgono. Magari sono costrette, non lo decid...»

«C'è sempre un'altra possibilità, Luca. Anche tuo padre aveva scelta. Solo che ha deciso di occuparsi di altri, invece che di te. Questione di priorità. Questione di scelte.»

Mi irrigidii di colpo: poteva sapere il mio nome perché forse un medico o un'infermiera l'aveva pronunciato, anche se non mi sembrava; ma come sapeva di mio padre?

«Smettila. È il suo lavoro, quello di aiutare le persone»

«Anche tu sei una persona. Eppure... tuo padre se n'è andato scegliendo altre persone, lasciandoti qui, solo.»

«Che cosa stai dicendo?!» urlai. «Ti diverti a prendermi in giro?»

«Sono l'unico che non ti prende in giro, Luca, verifica tu stesso. Tuo padre se n'è andato. Ora hai la tua occasione di diventare più forte, più...»

«Ti ho detto di Smetterla!» intimai. Ma lui rise. Rise così forte che non riuscì a controllarmi: lo presi per il colletto del camice da paziente, rischiando di cadere, scrollandolo con forza. Ma qualcosa nel suo sguardo, o la mia rabbia, mi portarono a lasciarlo.

Aveva smesso di ridere, ma sul suo volto era ancora appeso un sorriso indecifrabile, ma sporco. I suoi occhi nerissimi mi sembravano spilli acuminati, e per qualche secondo fui preso da una sensazione che non avevo il coraggio di confessare. Se l'avessi fatto, mi dicevo, mi sarei perduto. O forse quello strano tipo mi avrebbe ucciso, anche se per ora non mi aveva neanche sfiorato. Non con le mani.

Mi allontanai di un paio di metri saltellando, guardandomi intorno. Confuso.

Di colpo ebbi paura. Cercai il telefono nel cassetto e, riprese le stampelle, uscii dalla stanza. Chiamai mio padre, ma non rispose. Sapevo che stava aiutando a portare i soccorsi in una casa, dopo il terremoto. Non era il suo turno, ma era rimasto, per non perdere tempo prezioso. Non poteva venire alla mia operazione...

L'ansia cominciò a pomparmi nelle vene scivolando, gelida, fin dentro al cuore. Come faceva quel tipo a sapere di mio padre? Perché mi aveva detto quelle cose? E… perché mio padre non era tornato da me, sapeva che mi ero fatto male. Anche io avevo bisogno di lui…

I tentativi di chiamarlo si vanificarono. Senza sapere perché zoppicai fino alla fine del corridoio, dove era ancora accesa la TV. Strano a quell'ora. Stava andando in onda un'edizione speciale del notiziario. C'erano almeno quattro pazienti, un paio di infermieri e un dottore a guardarlo.

Durante la notte era successa una tragedia: il complesso dove lavorava mio padre per soccorrere le vittime del terremoto era crollato, sommergendo l'intera squadra sotto le macerie.

Chiamai mia madre, e quando finalmente mi rispose mi disse che aveva visto ma non sapeva nulla ancora, neanche se lui stesse ancora lavorando, o se fosse ancora vivo: bisognava confidare. Lui aveva tirato fuori da lì molte persone. Ora qualcuno tirerà fuori lui, diceva.

Volevo fidarmi di lei, ma le parole del mio compagno di stanza avevano insinuato il dubbio e lo sconforto nella mia testa.

Tornai quasi di corsa - stampelle permettendo - nella mia stanza, ma era vuota. Anche il suo comodino era vuoto e lindo, ed il letto sembrava fatto: era scappato?

Chiesi all'infermiera cosa fosse successo, e mi rispose che in realtà ero solo da tutto il giorno. Forse gli antidolorifici o l'anestesia mi avevano confuso le idee e lo avevo sognato.

Ma io sapevo di non aver sognato.

I giorni seguenti li passai ancora in ospedale, perché dopo quelle domande il dottore non si fidava a lasciarmi andare, anche se l'operazione alla gamba era andata bene.

Continuavano a dirmi che ero sempre stato da solo in stanza. In un certo senso era la stessa cosa che continuava a dirmi lui.

Il giorno dopo quello strano evento, altri uomini della protezione civile e dei vigili del fuoco cercarono nelle macerie del complesso dove mio padre stava lavorando, e poi per altri due giorni, ma nessuno sopravvisse a quel crollo.

Mio padre era morto, ed io non sapevo se essere più triste per la sua mancanza, o più arrabbiato per la sua scelta: avrebbe potuto essere ancora qui…

Ma ha deciso di andarsene. Ha deciso di non restare e di lasciarmi solo. Tutti lo fanno. Devo solo abituarmi.

Solo abituarmi.


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