mercoledì 27 gennaio 2021

Fuori da questa casa!

 



Jacopo si guarda attraverso lo specchietto della macchina e nota una macchiolina sulla camicia. Ci passa per qualche secondo il pollice, poi rinuncia.

Sul sedile di fianco, il telefono si illumina per un istante. Ma lo ignora.

Apre la vettura e fa qualche passo lungo il vialetto di casa: vicino al vasetto della salvia vede muoversi qualche foglia. Ci si avvicina, ma non c'è abbastanza luce. Prosegue verso la porta, cerca nella giacca le chiavi, ed apre.

Finalmente abbandona il cappellino e la giacca sul divano, quindi si leva le scarpe antinfortunio con un sospiro.


Guarda per qualche attimo il disordine della sala, e la casa gli sembra, più del solito, troppo grande e troppo vuota.

Si sposta in bagno: allo specchio vede un uomo dai capelli grigi, le spalle larghe, le occhiaie da stanchezza e un sorriso imperfetto. Fortunatamente non gli capita così spesso di mostrarlo.

Quando apre la porta del frigo gli sembra sia caduto qualcosa. O forse no. Nell'incertezza, si apre una lattina di birra. Guarda fuori dalla finestra la pioggia che scende sul giardino. Stava già piovendo, prima?

Quando torna indietro al frigo sente un cattivo odore. Come di muffa, ma non ne è certo. Controlla tutto: forse è il prosciutto. Dovrebbe davvero smettere di aprire le bustine e non finirle. Dovrebbe davvero finire quello che inizia.

Butta via tutto, ma gli sembra che l'odoraccio sia rimasto.

Per ora si limita a prendere le lasagne congelate ed infilarle nel microonde, dopo averne bucato la superficie plastica. Osserva quindi il piatto girare oltre il vetro del forno per qualche minuto, poi si siede a mangiare e beve un'altra lattina. La radio parla principalmente del meteo e del calo della borsa. Jacopo alza lo sguardo verso la sedia vuota e lamenta «Borsa. Come se esistesse davvero. Esiste il lavoro. Io che sto in ditta e lo spazzino che...» ma si ferma subito. «Ci manca solo che mi metto a parlare da solo» prende un altro boccone ed un'altra sorsata, quindi butta il piatto nel lavandino. «Del resto non mi hai mai ascoltato neanche quando c'eri...» sembra dirlo all'aria. Si ferma un altro istante, guardandosi intorno: le posate sul lavello, la radio che blatera delle partite, la frutta vicino ai fornelli. Arriccia il naso, va quindi a buttarla in un sacco, poi la getta nel secchio dell'umido.

Cammina fino alla sala per abbandonarsi sul divano, e guardarsi per l'ennesima volta Rambo.

Finito il film, si sposta verso la camera, ma prima si ferma su una porta chiusa a chiave. La fissa per un minuto o due, poi la tocca con il palmo, prima di andare a dormire nella sua stanza.

Il giorno dopo, Jacopo torna a casa qualche minuto prima del solito. Si guarda ancora, prima di scendere dalla macchina. E si ricorda solo ora della macchia. Si ripete che non importa e scende. La luce esterna lampeggia per qualche istante, poi si spegne completamente: «Che cazzo». Si aiuta con la torcia del cellulare per arrivare alla porta di ingresso, e trovare le chiavi finite in un buco nella tasca. Entrato, sente una strana puzza: apre la finestra della sala e, dopo aver lanciato sul divano la giacca, controlla la cucina. Annusa due o tre volte la carne e l'insalata, poi decide di buttare via i pomodori. Controlla nel bagno. Per sicurezza pulisce la lettiera del gatto e gli cambia la sabbia. Una gatta completamente nera e con gli occhi bicolori lo guarda diffidente da sopra l'armadio delle scarpe. «Dovrei guardarti male io, che pulisco i tuoi bisogni. L'hai fatta in giro?».

Torna in cucina. Ascolta la radio, e smette di mangiare il suo panino ed ascoltare davvero solo quando parlano degli accordi che il Regno Unito sta prendendo per uscire dall'Europa. Pare che servirà il passaporto nei prossimi anni per andarci. Non ci è mai andato, anche quando non serviva, ma ora sarà più difficile. Tutto... tende a diventare più difficile.

Recupera un'altra birra e si sposta in sala per guardare qualcosa su Netflix: un poliziesco.

La serie non fa neanche in tempo a cominciare, sigla pretenziosa a parte, che Jacopo lo vede: un grosso topo grigio che lo guarda dall'ultimo gradino che porta in cantina. Deglutisce, e finge di guardare le prime scene della serie. Due poliziotti stanno interrogando una povera donna con troppa solerzia: sembrano corrotti.

Jacopo muove piano, pianissimo la mano destra. Stringe il primo oggetto disponibile: un impolverato dizionario di Inglese lasciato sul tavolino vicino al divano. Inspira, prende la mira, poi di colpo si alza e lancia con forza la voluminosa arma. Il topo fugge dalle scale lunghi secondi prima dell'arrivo del testo. «Bastardo».

Jacopo lascia che l'abuso di potere in TV continui, mentre recupera il dizionario. Qualche pagina si è staccata. Lo apre per alcuni istanti, le dita tolgono un po' di polvere scoprendo fitte note dalla grafia femminile. Strizza gli occhi e lo lancia sul tavolo, ma controllando che atterri dove deve.

Allora, mentre dalla TV arrivano rumori di inseguimento, prende la scopa e toglie il manico dallo scopino. Fa girare il legno tra le dita, poi lo prende saldamente. «Ti conviene andartene e lasciarmi in pace, o scateno una guerra che nemmeno ti immagini» mormora lentamente, cadenzando ogni sillaba.

In cantina, deve aiutarsi ancora con il telefono per farsi luce: le lampadine sono quasi tutte rotte. Apre vari cassetti: ci sono piatti ormai antichi, libri di scuola (delle superiore e delle elementari) e qualche fumetto, ma nessuna traccia del topo. Solo quando si ferma un attimo a controllare il telefono, sente ancora quel rumore. Non è esattamente un fruscio, è più forte. Come se mille zampette corressero sopra qualcosa di delicato. Poi qualcosa che cade. «Dove sei...» Jacopo lamenta, e riprende la ricerca. Ma niente.

Decide allora di ricorrere ad un aiuto. Sale nella sua stanza per recuperare Sabba, che prende in braccio. «Non dovresti acchiapparli quei cosi?». Chiude la porta, per evitare che il bastardo possa accedervi e scende le scale. La gatta nel mentre si lamenta. «Ora ti lascio... fai il tuo dovere» sussurra, poi sorride ed aggiunge: «Trovalo, o io troverò te!» libera la gatta presso lo scaffale dove ha sentito l'ultimo rumore. Non è un'impresa così facile: la cantina è diventata, con il tempo, una sorta di deposito. Ci sono vecchi elettrodomestici, televisori e libri sparsi qua e là. Il divano è pieno di coperte, panni, qualche giocattolo e vestiti vecchi. La gatta si guarda intorno perplessa, poi scappa di sopra, più veloce del padrone che le urla dietro e cerca, inutilmente, di riprenderla «Dove vai Sabba! La fuga non esiste!». Scuote la testa e si rimette a cercare, ma dopo qualche ora rinuncia: meglio dormire. Domani il lavoro non sarà più leggero di oggi.

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Il mattino dopo si sveglia una mezz'ora prima, e dopo un inutile giro di controllo in cantina va su Amazon.

Le trappole per topi sono tremendamente più numerose di quel che sospettava. Sembra che debba capire con chi abbia a che fare per eliminare il problema. Del resto, i film e i libri di guerra lo ripetono: «L'elemento chiave della guerra è conoscere il tuo nemico». Da un articolo della rete legge che ci sono trappole letali e non letali, e le dimensioni dipendono dal tipo di animale. «Devo anche chiedergli come si chiama?»

L'articolo dice che il topo è genericamente più piccolo, ma si distingue in campagnolo, selvatico e... «Sì sì va bene, come cazzo lo prendo».

I ratti (rattus rattus«Come se chiamarmi Jacupus Jacupus servisse a qualcosa... Vogliono anche darsi un tono, questi topi» hanno il muso più arrotondato, sono di colore più scuro, sebbene l'elemento cromatico non sia fondamentale per la distinz... «Ma cos'è un trattato di Statistica?»

Più avanti scopre che c'è almeno un terzo tipo di topo, quello di fogna (Rattus Norvegicus) «Ma non poteva starsene tra i vichinghi?» scuote la testa, scrolla oltre e alla fine decide. Sicuro non era così grosso, gli sembrava scuro e... «bah, era un ratto, dai».

Scorrendo un altro articolo scopre che gli escrementi di topo sono più appuntiti, e quelli di ratto più a banana. «Ci manca solo un'esame prostatico...».

Inoltre, i topi sembrano preferire i cereali e i ratti la frutta. I primi sono più abitudinari e cercano il cibo negli stessi posti, gli altri sono più esploratori, e cambiando luogo sono più difficili da prendersi. «Figurarsi». Jacopo torna su Amazon, e medita parecchio in bilico tra una trappola letale a morso ed una "gentile" che si limita a catturare il topo, o il ratto, attirandolo in una gabbietta. Alla fine decide per quest'ultima, ne prende due e belle grandi «Mi interessa vincere, non uccidere». Concluso l'ordine, si infila la giacca e corre al lavoro.

La sera seguente, la caccia al "bastardo" è limitata: controlla la cucina e scopre, con stupore e ribrezzo, da dove arrivava la puzza. Sotto al lavandino, dove tiene i prodotti per la pulizia, ma anche le patate, le cipolle e i croccantini del gatto, scopre che alcune patate sembrano come tagliate da piccolissimi coltelli in svariati punti ed è pieno di piccoli escrementi. Ma davvero non saprebbe dire se siano a punta o a banana. Trattiene un conato di vomito e chiude lo sportello. «Ma da quanto cazzo è qui dentro? Prima lo prendo, poi pulisco».

Con un'altra lattina si mette di nuovo al computer. Sabba miagola, e questa volta è lui a guardare male il felino. Come deluso.

«Possibile che debba fare tutto io in questa vita? Mi lasciate sempre...» si passa una mano sul volto ed impreca. Cerca ancora qualcosa, e scopre che a seconda della specie quei bastardi fanno dai 5 ai 15 cuccioli a parto, e partoriscono dalle 3 alle 8 volte all'anno. «Spero che lo stronzo non abbia compagnia». Non bastasse, le creaturine cagano dalle 40 alle 80 volte al giorno e possono trasferire malattie in gran numero: dalla Leptospirosi alla Peste passando dalla Salmonellosi. «Cioè questo non solo mi invade casa e ruba il cibo, ma caga su qualsiasi cosa trovi e cerca di avvelenarmi!» torna su Amazon e ordina anche un paio di trappole mortali. Quelli con la colla topicida. In sostanza si piazza un'esca al centro di una tavoletta ricoperta di colla molto potente: il "povero" topo dovrebbe andarci in mezzo, e rimanere incastrato. Tra i commenti del prodotto legge che funziona, ma d'altra parte è una cosa crudele. C'è perfino il link ad un breve video dove qualcuno dapprima cattura un topino a quel modo, poi, vedendolo soffrire su quell'affare, lo libera con acqua e sapone. «Ma vaffanculo, questo vuole trasmettermi malattie cagando in casa mia, è una dichiarazione di guerra: o io, o lui». chiude il computer, e proprio in quel momento un veloce fruscio, che ora chiama "zampettio" sembra provenire da dentro la parete alla sua sinistra. «Non dirmi che...» Si avvicina e posa l'orecchio alla parete, ma non sembra sentire più niente. Forse se l'è immaginato. Decide di farsi una doccia, ma prima controlla ogni angolo del bagno e della camera, e chiude per bene tutte le porte. Infine, pur sapendo che non servirà, chiude Sabba in cucina, con la vaga speranza che possa catturare il maledetto.

Entra nel bagno, si toglie i vestiti, e proprio in quel momento scorge un veloce movimento presso il bidet. Gli scappa un grido poco virile e quasi inciampa sulle proprie mutande. Poi recupera la scopa lasciata vicino all'entrata, e si avvicina con estrema lentezza. Un passo di troppo, e il ratto (o forse è un topo?) scappa come una velocissima scia nera, ma trova la porta chiusa. «Fottuto...» Jacopo si gira e molla una forte scopata verso la porta, ma dapprima manca il bersaglio. «Colpisci per primo, nessuna pietà!» Il ratto prova a rifugiarsi sotto al lavandino ma un altro colpo lo stordisce. L'uomo viene preso da una furia topicida e molla non uno, non due, non tre, ma forse cinque colpi alla creatura, uccidendola. Prende fiato, poi alza con un pezzo di carta igienica tra le dita la creatura della coda, a guardarla meglio: proprio una schifosa bestiaccia. Solo ora nota anche i vari escrementi dietro al bidet. Meno che in cucina, comunque.

«Come cavolo ci sei arrivato qui?»

Jacopo indossa l'accappatoio poi butta via il cadavere. Torna nella vasca da bagno, ristorato dall'acqua calda e da una piacevole sensazione di vittoria.

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L'indomani, quando torna a casa, trova presso la porta di ingresso vari scatoloni. Quando li apre, senza gran sorpresa trova una gran quantità di trappole per topi. «Diamine, potevo aspettare un po', mi sono sottovalutato». Porta comunque tutto dentro e si prepara la cena ascoltando un vecchio Jazz alla radio. Riposa meglio quando si fa un goccio di whiskey e si pulisce stancamente gli occhiali: gli sembra già da qualche mese di vedere meno bene, ma ha rimandato la visita dell'oculista. C'è sempre così tanto da fare e così poco tempo per farlo. E ora ha solo bisogno di riposare. Prende una lattina di birra e in ciabatte si sposta sul divano, quando sente un forte fruscio da sotto il lavandino. Apre l'armadietto di scatto ed un grosso esemplare di topo scuro gli passa da sotto le gambe: lui grida e quasi inciampa per terra, ma fa in tempo a vederlo correre fino ad infilarsi in un armadietto della sala. Lo insegue e chiude la porticina del mobile, salvo accorgersi che è traballante. «Col cazzo che scappi!» si allunga per prendere una sedia per bloccargli l'uscita, con una mano sull'accesso. Non contento, sposta di peso la poltrona per chiudere ogni via di fuga: «Preso!»

Il pensiero che non possa tenerlo chiuso lì in eterno gli passa dalla testa ma, del resto, se aprisse, veloce com'è il bastardo, rischierebbe di perderselo per strada.

Come è solito fare quando è in difficoltà, cerca informazioni su internet, e tra Wikipedia, un sito sulla disinfestazione, e la pagina "attenti ai ratti!" scopre che i topi hanno una resistenza terrificante: possono stare senza cibo per settimane e trattengono l'acqua (che recuperano perfino da un frutto fresco) peggio di un cammello. Anche se forse non gli serve saperlo, Jacopo legge anche che possono nuotare per parecchie decine di metri e i loro denti possono rosicchiare il legno e forse perfino il ferro, secondo alcuni.

«Cosa cazzo sono, dei terminator? Dei Bear Grylls incrociati con predator? E quanti cazzo sono, allora?»

Non fa in tempo a domandarselo una seconda volta, che i fruscii che ora sente sono almeno due: uno proviene sicuramente da quell'armadietto, l'altro gli sembra provenga dalla cantina. «Merda, ma io che ho fatto di male?»

Non si perde d'animo però, tutto sommato ormai è più che provvisto di armi: apre con furia gli scatoloni e si organizza. Con attenzione sistema dapprima le trappole collose. Siccome non ha ancora capito se siano topi o ratti, decide di abbondare: al centro della tavoletta deposita un pezzo di mela e, sopra quella, una nocciolina; quasi fosse una tartina. Nell'altra, lascia cadere un paio di cucchiaini di burro di noccioline. Ha letto che ne sono ghiotti, quei fetenti. In compenso, a dispetto di Tom e Jerry e compagnia, ha scoperto che quei roditori di merda non mangiano il formaggio, ma vanno pazzi per il cioccolato, infatti usa quello come esche per le due trappole più "gentili". In quelle il topo dovrebbe semplicemente rimanere chiuso dentro la scatola: un pezzo di dolce a volte può costare caro. Erano le trappole consigliate da chi sostiene che in fondo anche i topi hanno il diritto di vivere. Ma ormai per Jacopo è guerra aperta. L'odio è montato come erutta un vulcano, in questi giorni. «Che poi, anche entrasse nella gabbia, poi che dovrei fare, portarmelo a spasso per chissà dove e lasciarlo nel bosco? E se oltre ad essere dei cammelli hanno anche un senso dell'orientamento alla torna a casa Lassie?» guarda Sabba, ma quella lo guarda e tace, non regalandogli neppure un miagolio. «Bah, se li prendo li affogo o li brucio o te li do per cena, ma cominciamo a prenderli».

Lascia quindi una trappola in cucina, un paio in cantina ed uno appena fuori dalla porticina dell'armadio della sala, che ha lasciato appena aperta.

Ormai sta diventando un esperto di topi, e sa quanto è essenziale sfruttare l'ambiente per vincere una guerra: sa che sono animali notturni e sono furbi: finché sta a guardare quello non esce dalla sua tana. Del resto, deve essere lo stesso meccanismo dell'acqua che non bolle se stai ad osservare in attesa delle bolle.

Con qualche difficoltà si mette a dormire, anche se durante la notte gli sembra di sentire degli squittii e qualche inquietante fruscio fra le pareti. Quando riesce a prender sonno, purtroppo i sogni non lasciano scampo: forse stimolato da una risposta ironica di qualche forum, sogna di un topo che si intrufola nel suo letto, per mangiargli gli occhi mentre dorme.

Si sveglia di colpo, con ancora entrambi i bulbi oculari a posto. Si toglie il sudore dalla fronte e si ferma per una decina di minuti in bagno, poi controlla le trappole: niente. Tutte vuote. Un'occhiata veloce all'armadietto, forse dovrebbe ricorrere alla fedele scopa, ma per ora lascia perdere. Prova a dormire almeno un paio d'ore, prima di andare al lavoro.

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Gli ultimi minuti in cui monta le rocche di tessuto da infilare nell'autoclave sono i più lunghi. Da una parte la monotonia e la stanchezza dal poco riposo, dall'altra, l'ansia di sistemare quella sporca questione.

Appena apre la porta di ingresso non sa bene se gridare di schifo o di esultazione: un grosso sorcio è rimasto incollato alla tavoletta. Ancora si muove e si allunga, squittendo sofferente. Per un attimo gli viene in mente quel video del tizio animalista. Ma presto fa sparire quella pietà dalla testa, e ritorna alla sua guerra. Recupera la sua fedele scopa e la alza sopra la testa. «Ricorda che l'hai voluto tu!» e giù botte. Due a due finché, quasi, non diventano dispari, e quella creaturina smette di sussultare. Jacopo recupera fiato e forze, poi butta via la seconda vittima. La soddisfazione è grande, ma la consolazione minore: sa che la battaglia è vinta, ma la guerra è ancora aperta.

Controlla le altre trappole, ma per ora niente. Sabba invece dorme tranquilla sulla poltrona: un alleato decisamente inutile. Peggio della Svizzera.

Entra in cucina per prepararsi la cena ma deve portarsi una mano al naso: l'odore è insopportabile. «Ma che...» gli basta una rapida panoramica, per accorgersi che, oltre agli escrementi sotto al lavandino, sembrano esserci delle tracce anche sui fornelletti delle cucine e persino sul tavolo. «Deve esserci un bastardo che quando lavoro se ne esce tranquillo a cercare cibo» e le trappole le ha bellamente ignorate.

Ma non può essere solo quello... e infatti, quando apre il cassetto delle posate, trova un topolino già morto, con la pancia tagliata. Chissà se Sabba l'ha ferito o è stato così idiota da uccidersi da solo, fatto sta che chissà come è entrato lì e lì ci è morto. Non è ancora del tutto decomposto, ma per fare schifo fa schifo eccome. Jacopo trattiene il vomito «Ma come cazzo sei entrato...» quindi passa a buttare tutte le posate nel lavandino, dopo essersi sbarazzato del cadavere con guanti e fazzoletti. «Ci mancavano i topi kamikaze». Passa la sera a disinfettare le posate e il cassetto, e quasi si dimentica di cenare.

Va a dormire, ma prima decide di farsi un goccetto. Quando apre il cassetto degli alcolici sente un fruscio rapido e sinistro da sotto il lavandino: fa in tempo a vedere un grosso topo grigio che si arrampica sulle tubature e si nasconde in qualche interstizio. «Non è possibile!» si passa la mano sul volto, poi esce sul portico esterno, per vedere qualcosa muoversi tra i cespugli. Non è sicuro, ma l'istinto ha la meglio sul calcolo: afferra una bottiglia vuota da fuori e la scaraventa con tutta la forza verso le piante. «Bastardi, ma che cazzo volete, che cazzo!» per qualche attimo si si lascia cadere in ginocchio. Gli sembra di vedere come tutti i problemi ignorati si stiano accumulando per fargli visita. Quei topi sono i suoi demoni? È per quello che ha fatto? È per quello che non ha fatto?

Si tira una sberla, poi rientra in cucina. Piazza un'altra trappola sotto il lavandino, ma poi ci ripensa. La sposta. E decide che deve togliere altre occasioni di nutrirsi a quei maledetti. «Devo impedirgli di fare rifornimento sul mio terreno difensivo». Oltre quello, è arrivato il momento di pulire tutto, anche se non li ha presi tutti. Fa troppo schifo, troppo.

Passa praticamente tutta la notte, guanti di plastica sulle mani e bandana in testa, musica metal nelle orecchie, a pulire e disinfettare a fondo sotto al lavandino, poi i fornelletti, dietro al frigo e sotto i mobili. Poi fa lo stesso per il bagno, la sala, e la camera. Non soddisfatto, sparge in tutte le stanze un repellente per topi alla menta. Non ha questo gran profumo, ma ha letto da qualche parte che i sorci lo odiano. Rimane chiusa e non controllata solo una stanza, ma sa che quella è rimasta sempre chiusa. Per qualche minuto ci si ferma davanti, indeciso, ma poi desiste.

Esausto, si fa una doccia veloce e, finalmente, si butta nel letto a dormire.

Quando perde coscienza, sogna prima di essere disteso sulla spiaggia, in costume, più magro di quanto attualmente non sia. I piedi vengono bagnati dalle onde del mare. Sua figlia, più piccola, ha circa 9 anni, si diverte ancora a giocare con lui, che la prende in braccio per strofinarle i capelli e farle il solletico, poi la lascia scappare via ridendo, mentre con lo sguardo cerca il fratellino sulla spiaggia. Si alza, e grida a Sofia di curare il bambino. I tempi si mescolano, e si ritrova a piangere. Li chiama a sé, ma quando le lacrime gli impediscono di vedere si ritrova nel suo letto. Si morde il labbro inferiore e cerca di trovare un po' di respiro dal dolore al petto ma, con orrore, sposta i piedi di scatto quando sente qualcosa sfregare sulla sua pelle. Lancia via le coperte e vede una dozzina di topi enormi e neri accumulati sotto le coperte: parte dei piedi sono stati divorati da quegli esseri immondi. Ossa e tessuti nervosi sono scoperti. Gli lancia contro il cuscino e questi gli si scagliano contro: ha la sensazione di essere coperto da quelle creature. Sente la pelle strapparsi e venir tagliata da quei dentini schifosi e infetti, ed urla, urla talmente forte che si sveglia, sudato e spaventato.

Si alza sul letto e respira piano, cercando di controllarsi. Segue un quadrato mentale: inspira. Trattieni. Espira. Inspira. Lo fa per una decina di volte, come gli hanno pazientemente insegnato, poi si sdraia a fissare il soffitto, ma di dormire non ne ha proprio idea. Si limita a stare immobile. Come lo è stato per tutta la vita, gli verrebbe da dire. «Ah, fanculo» si alza per andare a pisciare e farsi un caffè, poi accende la tv. Per fortuna oggi non è di turno in ditta, ma i pensieri continuano a tornare a quei maledetti. Controlla le trappole in cucina e in bagno: niente. Sono furbi, quegli stronzi.

Scende allora a controllare di sotto, e trova effettivamente una gabbietta occupata. Jacopo fa per sorridere, ma la soddisfazione dura poco: quando si avvicina per controllare, sente dei rumori. Alcuni provengono dai mobiletti sulla sinistra, alcuni da un armadio sulla destra. Controlla ovunque, scopa e repellente in mano, ma senza successo. «Basta, cazzo, non ce la faccio più!» si mette a sedere vicino ad un sacco riempito di cose da buttare, ma ancora lì da chissà quanto, e proprio davanti alla gabbietta del topo, che graffia inutilmente per cercare di uscire. Jacopo allunga un dito a sfiorare le sbarre, e si ritrova con gli occhi umidi a fissarlo. «Che cosa volete da me, mh? Perché non ve ne andate? Non avete un po' di pietà, almeno voi?». Il topo sembra tranquillizzarsi a quella voce triste. Si avvicina alle sbarre ed annusa. Quasi come un criceto domestico. Jacopo si alza, e prende la gabbietta dal gancio superiore. La solleva e sale le scale. Esce in giardino e si guarda attorno; quindi posa la gabbietta per terra. Prende un secchio da lavoro dal disordine sulla sinistra, e lo riempie d'acqua. Si sposta a recuperare la trappola con dentro il topo, e la butta dentro per intero. Si ferma a sentire gli squittii e i movimenti, fino a che tutto si placa. «Voi non avete pietà, non posso averne io».

Libera il cadavere gettandolo con gli altri, poi pulisce la gabbietta e la prepara.

Ma ormai le sue armi non bastano. «Quando le forze sono troppo numerose, devi avere il coraggio di arrenderti».

Si rassegna e chiama un'impresa di disinfestazione. Fortunatamente quella si libera nel pomeriggio. Jacopo guarda il tutto da lontano: l'utilizzo del veleno, l'installazione di altre trappole, lo spray velenoso per gli angoli del caso e la pulizia completa. Tranne che per quella stanza.

Due giorni dopo, gli uomini vengono per un controllo ed un richiamo del repellente. In totale trovano altri sette topi: quattro ratti e tre topi domestici. I disinfestatori consigliano a Jacopo di far sparire cibo e spazzatura da fuori casa, e tenere il cibo in cucina dentro cassetti di plastica, prima di ricevere il pagamento.

Jacopo controlla tutta la casa da solo, sia tra i cassetti della cucina sia tra i mobili vecchi in cantina. Si assicura di pulire e sistemare anche la camera e il bagno. Anche quando prepara la cena sta con le orecchie pronte, come in attesa. Ma, fortunatamente, non sente più nulla. Però, continua a sentire un cattivo odore: forse è quel repellente. Decide di ripulire la cucina e spargere per tutta la casa un deodorante migliore, casalingo, che dovrebbe sapere di mare, qualunque cosa voglia dire. Ma è come se quell'odore continuasse ad aleggiare per la casa. Allora si butta nella doccia e lava con estrema accuratezza ogni parte del suo corpo, colto dal sinistro pensiero che quella puzza l'abbia indosso lui. Che sia sua la colpa.

Alla fine si mette a dormire, stanchissimo.

Passa la giornata di lavoro quasi come un sonnambulo: sono ore che scivolano via senza rimedio e senza vera attenzione.

Cerca riposo in una birra veloce al bar, poi torna a casa per farsi una pizza surgelata, ed un'altra birra mentre ascolta i notiziari alla radio.

Si siede quindi sul divano, guardando il muro davanti a sé per lunghissimi minuti. Inspira pesantemente, si alza ed arriva all'unica stanza che non ha mai controllato, e nella quale non ha fatto entrare neppure i disinfestatori. Nella mano sinistra ha il suo fedele manico di scopa. Apre piano la porta, accende la luce e ci scivola dentro. La cameretta è impolverata ma pulita. Ci sono due letti l'uno accanto all'altro, qualche poster di film e di cantanti alle pareti. Su una scrivania un paio di quaderni ed un vecchio computer; sul letto più piccolo un paio di macchinine. In fondo, una libreria: si avvicina e la guarda per bene. Assottiglia gli occhi: tra i pochi volumi rimasti, gli sembra di scorgere qualcosa di scuro. Trattiene il respiro e fa un altro passo. Allora gli sembra di sentire una specie di musica fatta solo di fruscii sinistri e rumori inquietanti: come se milioni di zampette veloci si muovessero ovunque, senza tregua. Dalla libreria alla porta dietro di lui. Da dentro alle pareti a sotto il pavimento. Dal sottotetto all'interno dello schermo del PC. Si lascia cadere a terra, ginocchia sul tappeto, bastone per terra, mentre intere orde di topi escono da ogni angolo: in breve, corrono e coprono ogni metro della cameretta, circondandolo. Jacopo prende il telefono e manda un messaggio vocale «Non è colpa tua, piccola. Dovevo guardarlo io. Dovevo...» poi lascia cadere lo smartphone. Si limita ad allargare le braccia, chiudendo gli occhi. «Facciamola finita» e quei maledetti topi sembrano ascoltare e capire: si fiondano su di lui in mucchio, buttandolo a terra e ricoprendolo, riunendosi così vicini da far sparire ogni cosa. Così pressati da non lasciare spazio alla luce. Così che tutto sia buio.




domenica 17 gennaio 2021

Visita alla casa abbandonata

 



Rumori di vetri rotti, uno spiffero freddo che passa veloce da una finestra spaccata e coperta d'una velina di polvere vecchia, un ragno morto appeso ad una densa ragnatela che gli ha fatto da casa e da tomba. Qualche vecchio giornale ingiallito per terra e, più in là, in un angolo dove la parete è decisamente scrostata, fumetti e settimane enigmistiche mai risolte del tutto, abbandonate al tempo ed all'incuria. Pavimenti scricchiolanti ed insicuri, un'edera che ha superato la soglia esterna, in qualche punto, per intrufolarsi in un enorme camino in pietra, come a ribadire la propria vitalità su quel nido di fuoco, ed ormai di cenere: nel suo coprire di verde le crepe di quella pietra cava, esulta in una continua eco la propria vittoria.

Fuori solo rampicanti, cespugli di rovi e saliscendi di ortiche. Dentro, qualche vecchio cimelio, rifiuti veri e finti, come un piccolo accendigas che è solo un “trattieni-accendino”: si tira una leva semplicemente meccanica, e un dente smuove la rotella e pigia il tasto, per generare la fiammella. Come a sostituire lo sforzo di un pollice.

Stranamente, quella c'è ancora, come se il tempo avesse intaccato tutto: le pareti, i pavimenti, la vita, ma non quell'unico accendino. Non quella fiammella che, giusto ora, una ragazzina dai lunghissimi capelli rossi, vestita di un'ampia maglia azzurra, sta tenendo accesa. Tiene nella mano il piccolo ritrovato ingegneristico come fosse qualcosa di particolare, con la curiosità che hanno solo i bambini. Forse non è anagraficamente collocabile in quella fascia d'età. Tredici, quattordici anni. Ma in quel momento potrebbe averne anche venti, o cinquanta: sarebbe comunque una bambina. Ha esattamente quello sguardo lì.

L'ha, quella luce bambina negli occhi verdi, ora che gioca con quel piccolo, semplice strumento; l'aveva prima, quando si è intrufolata sotto una sbarra di ferro con il cartello “Pericolante, non entrare”, e si è infilata tra i rovi ed ha scavalcato la finestra, facendo attenzione ai vetri. Quindi ha passato praticamente ore a cercare intorno. A perlustrare tra la polvere, con l'emozione e la sensazione dentro di sé che cavalcava una leggera paura, un'ansia non ben definita. O forse è solo quel particolare, intrigante disagio che ti assale e ti accoglie quando stai facendo qualcosa che “non va fatto”: non si dovrebbe proprio, ma lo fai lo stesso.

Eppure la paura non l'ha bloccata, no. Le ha solo regalato quel brivido, e l'emozione di sbirciare con occhi meravigliati quella che, in altri contesti, sarebbe solamente una serie di ampi ed alti locali abbandonati e ripieni di polvere e cianfrusaglie.

Come quella che ha trovato ora, in una stanza che forse un tempo era adibita a ripostiglio, o chissà, a pensatoio. Una volta si faceva. Doveva o poteva essere qualcosa del genere, perché molto piccola, alta, senza dentro nessun mobile, se non una poltrona sgualcita e rovinata e un tappeto. Ma quest'ultimo non stava per terra, ma era appeso alla parete, come se fosse un quadro, o una lingua di peli rossi che scendeva dal soffitto lambiccando lungo la parete.

La ragazzina si era perfino seduta, con quel cimelio ritrovato in mano: un album da disegno, di quelli molto vecchi, una via di mezzo tra un diario a copertina rigida per gli schizzi, ed un album A4, per le dimensioni, ovviamente parecchio vecchio. Dentro, però, una strana forma di meraviglia: disegni a carboncino, quasi sempre senza nessun colore aggiunto. C'era il retro dell'enorme casa (forse una villa padronale di quella sorta di villaggio fantasma in cui si era andata a cacciare scappando di casa), quando ancora era intatta, con il prato ben tagliato, nessuna ortica, i vetri a posto. Le pareti senza edera, e le tapparelle ancora pulite. Qualche albero da frutto nel giardino, e delle nuvole grigie in cielo. In quel momento si chiese se fossero grigie per il mal tempo di quel giorno in cui il disegno era stato fatto, o semplicemente per la natura del carboncino. Era un disegno ben fatto, e chissà quanto tempo doveva avere. Però era strano: raccoglieva in sé una certa malinconia nei tratti grigi o neri. Disegnava come di una notte che sperava di essere nata giorno. La bambina sospirò per un attimo, poi voltò pagina.

In un secondo disegno, si rappresentava l'interno della casa: i giornali erano raccolti in un portariviste, i libri erano dentro una bella libreria, il pavimento era pulito e senza ragnatele, il camino era senza crepe, e con il fuoco acceso, l'edera non stava ancora banchettando contro le sue pareti salde. Però, anche qui, c'era un certo languore indefinito. Le ombre troppo lunghe, e forse – a seguire teorie della luce di cui la bambina era giustamente ignorante – non dovevano neppure esserci. Il fuoco era grigio, perché disegnato sempre con il carboncino, seppure con molteplici sfumature accurate e curate. Era però come un fuoco sì ben attivo e danzante, ma tetro.

La ragazza girò un'altra pagina, e questa volta singhiozzò di colpo. Non era più disegnata la casa come era un tempo, ma come era ora. Vetri rotti, riviste per terra, ragni impiccati alle loro stesse dense ragnatele, stralci di edera che si facevano, affamati, strada dentro le pareti interne. Esattamente come lei l'aveva vista pochi attimi prima. C'era perfino, vicino ai fornelli usurati e vecchio stile della cucina, un gingillo ingegneristico bello ma particolare: rosso, serviva per trattenere un accendino nero dentro una morsa, bastava pigiare una leva per far muovere la rotellina del gas, ad occhio. Poteva quasi immaginarsi la fiammella che si accendeva: l'aveva usato lei fino a poco fa, e l'aveva preso esattamente da quel tavolo.

Ma fu la pagina dopo a farle sgranare gli occhi e saltare in piedi di colpo, facendo danzare la polvere dentro quello stanzino. Dovette correre fuori dalla stanza lasciando cadere a terra l'album da disegno. Si guardò intorno spaventata, una mano sul cuore e la schiena appiattita contro la parete. Il respiro le si fece veloce veloce, e chiuse gli occhi per qualche secondo. Sperava che, quando li avesse riaperti, si ritrovasse a casa, sul letto, o magari vicino alla gonna di mamma. Ora l'essere scappata di casa, nella sua testa, stava diventando una terribile idea. Un rimorso ansioso. Ora, l'essere qui, il fascino che aveva creato, stava diventando solo un dolore al petto, un raschiare nella gola ed uno stringersi di pareti invisibili intorno a lei ed un tirare forte di un cappio intorno al proprio fiato: paura. Riaprì gli occhi, ma non c'era la gonna di mamma, non c'era il miagolare confortevole del suo gatto, non c'era la sicurezza del proprio letto. Si trovava ancora lì: in un corridoio sporco e polveroso, pieno di vetri rotti, con poca luce, ed una porta aperta su una stanza piena di nulla. C'era ancora quella lingua di pelo appesa sulla parete, e per un attimo le venne in mente che, forse, stava dentro la bocca di uno stranissimo mostro. Quel che però le fece più paura, era che l'album era ancora lì, per terra. Aperto sull'ultima immagine che aveva visto. Deglutì con forza, e gli diede un'occhiata veloce, come schiava di quella particolarissima e doppia sensazione per cui tentiamo di sfuggire a quello che ci spaventa, sì, ma, d'altra parte, ne siamo sinistramente ed oscuramente attratti. Come falene dalla luce calda di una candela accesa. Quel che l'aveva terrorizzata era ancora lì, impresso su carta giallognola nei tratti sicuri di un carboncino scuro: c'era lei. Una ragazzina sui tredici, quattordici anni, dagli occhi verdi, con sguardo aperto da bimba, vestita di un'ampia maglia azzurra, e con lunghissimi capelli rossi. Stava seduta su una poltrona consunta e polverosa, a guardare un album rigido, una via di mezzo tra un diario ed un A4, dentro una stanzina piccola e alta, contenente solo quella poltrona, un tappetto rosso come una lingua arrampicata sulla parete, ed una bambina, lei, seduta sulla sedia.


Deglutì con forza, cercò di guardare altrove, ma senza davvero riuscirci. Si chiese, invece, cosa sarebbe potuto esserci dopo, perché quell'album non era affatto finito lì. Le avrebbe indicato il proprio futuro? Avrebbe visto qualche altra scena del passato di quella casa? Poi cambiò genere di domande: come era possibile? Qualcuno la stava spiando? Chi era l'autore di quello stranissimo album? Non riusciva più neppure a seguire il filo dei propri pensieri, interrogativi, emozioni. Era un groviglio unico di dubbi e fantasie. La duplice sensazione perdurava: coraggio e curiosità. Paura e ansia. Alla fine decise di avvicinarsi lentamente e silenziosamente all'album come se fosse una bestiolina munita di zanne aguzze. Qualcosa che pareva tranquillo ma poteva anche farti davvero male. Ginocchia un poco piegate, schiena inarcata verso il basso, occhi ben aperti sulla bestia di carta ed entrambe le braccia tese, con la muscolatura rigida come pronta, in caso, a scappare. Trattenne perfino il respiro, mentre si avvicinava, ed ogni piccolo passetto, no, ogni centimetro superato sembrava un chilometro. Il tempo si stava enormemente dilatando. Però, alla fine raggiunse l'album: allungò il braccio e lo aprì di scatto, sfogliandolo verso la pagina successiva. Fece uno scatto indietro per istinto, ma poi sospirò. Il disegno ora visibile era misterioso ma diverso da tutti gli altri, e meno inquietante del precedente. Riprese a respirare e lo guardò meglio, senza prenderlo, ma sbirciando dall'alto: c'era un'altra stanza, più ampia, quadrata. Parecchio usurata, ed abbandonata anche in questo caso. Mobili rotti, sporchi e consunti, ma tutti spostati agli angoli. In mezzo, sul pavimento, non c'era nessuna piastrella, nessuna moquette o parquet: ma solo fiori. Ed era questa la cosa diversa da tutti gli altri disegni a carboncino: i fiori erano colorati. Erano d'un giallo intenso, che sembrava dar luce anche al grigio carboncino con cui era disegnato tutto il resto. Tutto il contorno. Guardò meglio, la ragazza, e vide che sullo sfondo, in un angolo, c'era una porta aperta, nel disegno. Capì che era la porta per lo stanzino con la poltrona ed il tappeto sulla parete. Inspirò, e prese un'altra abbondante dose di coraggio. Prese l'album da terra, lo mise sotto il braccio, e si incamminò cautamente, lentamente, verso la direzione opposta: seguì il corridoio, e, nonostante ciò che aveva visto, sgranò gli occhi e sospirò una calda meraviglia dal petto quanto vide quanto l'aspettava: una stanza quadrata, con vecchi mobili spinti contro gli angoli e le pareti e, in mezzo, su tutto il pavimento, quella coltura di fiori gialli, belli vivi. Sembrava che qualcuno avesse coltivato il pavimento. Era bellissimo.


Si ritrovò a poggiare la spalla allo stipite della porta, a guardare quei tantissimi fiori in mezzo alla stanza. Erano vita che spezzava con forza tutto quel grigiore. Sorrise tra sé e sé quando sentì un rumore dietro di sé. Si girò di scatto, ma non vide nulla. Ebbe solo una vaghissima impressione di vedere un'ombra entrare in una stanza, con movimenti furtivi e delicati. Ma, assurdamente, non ebbe paura in quel momento. Spostando di poco la testa, riuscì a guardar fuori dalla finestra, notando che stava per tramontare. Era passato un sacco di tempo. Serrò un attimo le labbra, poi annuì tra sé: prese a camminare verso casa, con l'album sotto il braccio. Era tempo di tornare da mamma, e magari di cenare e giocare con il gatto. Ma in cuor suo, sapeva che nulla sarebbe rimasto come prima, da ora in poi.