mercoledì 24 aprile 2013

Il Gioco della Guerra



Hybris convinse i suoi amici a giocare a questo nuovo gioco. Tranne Pietas. Non era per lui.
Per prima cosa, i bambini si radunarono in una piazza.
Ogni bambino aveva una torcia, ed era corazzato di tutto punto. Stivali di papà, un coperchio di pentola come scudo, un cucchiaio di legno e qualche coltello da cucina come arma. Qualcuno in testa aveva un elmo: uno scolapasta, o un casco del fratello più grande.C’era anche qualche cane, per rendere il gioco più divertente.
Che bello! Oggi si gioca alla guerra!
Hybris urlò sopra i suoi amici, in piedi, vigoroso e forte sopra un albero, sovrastava tutti gli altri. Era il più forte, senza dubbio. Era il loro capitano, senza dubbio. Spiegò loro la strategia militare. Si trattava di conquistare il forte nemico: superare il recinto del parco giochi, dove stava in difesa l’altra squadra. Loro dovevano attaccare.
La strategia di Hybris era semplice. Dividersi in due gruppi d’attacco. Il primo sarebbe andato allo scoperto contro i difensori, distraendoli, e seminando più paura possibile. Il secondo sarebbe passato per il boschetto che porta al parco, entrando da un foro della rete che una spia gli aveva illustrato. Entrati, avrebbero approfittato della confusione fornita dal primo gruppo, e avrebbero fatto un massacro.
Certo, il piano di Hybris era dispendioso, ma efficace. Il primo gruppo era concepito come un diversivo, e aveva più o meno la funzione del verme attaccato all’amo: un’esca, carne da macello. Il secondo avrebbe sfruttato il sacrificio, e non avrebbe fatto prigionieri.
Altrimenti dove sarebbe stato il gusto?  l’ebbrezza?  Si doveva finire. Questo era chiaro a tutti.
Il capo sapeva come infiammare i soldati. Gridò che il nemico non avrebbe avuto speranze, che la rete del parco giochi non era così dura. Che si sarebbero conquistati l’onore sul campo, e avrebbero portato a casa la vittoria in un baleno. Chi non fu convinto dalle parole, lo fu da quel buon vino che Hybris aveva preso dal padre. I bimbi si sentivano una persona sola. Alla prima ora della battaglia festeggiarono la vittoria dell’ultimo giorno. Per inebriarsi prima dello scontro, presero una ragazza per sfogarsi un po’.
Al tramonto, tutto era pronto. I bastoni levati, i sassi pronti, le lame scintillanti.
Il primo gruppo caricò contro la difesa appena fuori dal parco. I primi caddero per le pietre nemiche. La difesa li aspettava, e aveva mandato i cani a sbranarli. Poi caddero trafitti dai coltelli di mamma e dall’attizzatoio di papà. C’erano piccole teste rotte, dita che correvano. Gli occhi lacrimavano per i cuori che esplodevano. Solo pochi riuscirono ad entrare nel parco, con la sola forza della disperazione. La difesa, presa dall’ansia della vittoria, si scatenò contro quelli a terra. Il loro capo aveva ormai la vittoria in pugno, quando il giavellotto di Hybris lo trafisse alla gola, spezzandogli il collo ed esultanza all’unisono.
La difesa non s’era accorta del secondo gruppo, troppo presa nello scontro frontale.
Mentre i suoi bambini tranciavano arti e insanguinavano il parco. Hybris, il più forte, sfidò il campione della difesa, davanti ai suoi uomini. L’altro sapeva che avrebbe perso, che gli toccava morire, ma non aveva scelta. Erano le regole del gioco. Fece in tempo ad estrarre l’arma, che il martello di Hybris gli spaccò il cranio. Breve fu la sua gioia, che un nemico alle spalle gli tranciò un ginocchio, buttandolo a terra. Hibrys implorò il suo avversario. Pregò che gli salvasse la vita, piangendo; ma Pietas non fece parte di quel gioco. Non era per lui.
Gli adulti trovarono all’indomani i resti dei propri figli nel parco. Solo dall’esterno, si può capire quanto poco la guerra sia un gioco.

Salvo per un pelo



Era un bambino come tanti altri, ma gli mancava proprio un pelo per essere proprio come tutti gli altri.
O meglio, aveva un pelo di troppo per essere normale.
Infatti Andrea era un bel bambino di nove anni, dai capelli neri e gli occhi allegri, abbastanza alto e felice per la sua età.
Aveva però questo problema: dalla parte superiore della schiena – tanto che mi è difficile dire con precisione se devo parlar di schiena oppure di collo – gli partiva un pelo enorme, sì, ma mica per dire: infatti era un pelo alto quanto lui e largo circa tre o quattro centimetri, tanto che quasi ti chiedevi come facesse Andrea a stare in piedi con quel popò di pelo sulla schiena (o sul collo, fate voi).
Comunque lui riusciva a camminare, a correre, a dormire, a far tutto; solo, di certo non era un bel vedere.
Potete immaginare quanto lo prendessero in giro i suoi amici per quel suo affare. Lui non poteva farci niente, ma i compagni di scuola e quelli di merenda non facevano altro che prenderlo in giro.
Eppure non era colpa sua! Però, so che lo sapete: la colpa non c’entra proprio nulla con le prese in giro degli amici. Loro scherzano e basta, non ci pensano su.
Andrea però, a dirla tutta si era ormai abituato a quelle prese in giro e, nonostante a volte piangesse di nascosto, se ne fece una ragione (che è un modo dei grandi per dire che sì, piangeva, ma alla fine piangeva per poco e poi tornava allegro come sempre. Allegro come i suoi occhi allegri).
So quel che state pensando: ma come, Andrea aveva questo affare abnorme sulla schiena e i genitori
non facevano nulla?
Facevano. E tentarono infatti più volte di tagliare il problema alla radice. Letteralmente.
Una volta presero un forbicione immenso – quello che si usa di solito per tagliare la siepe – e, con una certa fatica, il papà riusci a tagliare via il pelo.
E per un po’ di tempo Andrea fu effettivamente come tutti gli altri bambini. Per quanto? Be’, ventiquattro ore circa. Minuto più, minuto meno. Potrei dirvi che per alcune persone essere normale come tutti gli altri per ventiquattro ore potrebbe essere una conquista di un certo peso, ma non ve lo dico. Cioè, ormai l’ho detto ma, insomma, fate finta di nulla.
Il fatto è che quell’enorme pelo il giorno dopo ricomparì magicamente. Non era semplicemente cresciuto molto velocemente: era proprio spuntato. Era venuto fuori dalla pelle di Andrea come i funghi vengono fuori dalla terra. Sì, perché anche i funghi spuntano dalla terra d’improvviso, proprio come il pelo di Andrea.
Capisco che possa sembrare una spiegazione un po’ circolare, ma mi affido alla vostra fiducia.
Non solo una volta i genitori di Andrea litigarono col suo enorme pelo: il secondo tentativo fu più brutale e tentarono di strapparlo a mani nude. Per farlo chiamarono perfino Gianni, un amico del papà che fa il carrozziere (e quindi era molto, molto forte). Gianni tenne infatti da dietro il povero Andrea, mentre la mamma e il papà tiravano come pazzi il pelo. Spingi che spingi, riuscirono a strapparglielo e quasi dal volo che fanno (con il pelo in mano) finiscono a ruzzolare giù dalle scale.
Immagino però abbiate già inteso per quanto Andrea rimase un bimbo normale. Dite per un giorno?
Esatto. Un giorno esatto. Minuto più, minuto meno.
Il terzo tentativo di sbarazzarsi del pelo superfluo (se avete un dubbio su cosa voglia dire “superfluo”, provate a chiedere a vostra mamma o a vostra sorella maggiore: – Ehi, come butta con i peli superflui? – e vi risponderanno a dovere. Dovere più, dovere meno) fu il più curioso: tentarono di bruciarlo, e quasi rischiarono di bruciare anche Andrea nel tentativo (prendere una nota da ricordare alla mamma: non bruciare peli superflui).
Così, dopo il terzo tentativo i genitori di Andrea si arresero. So che state pensando. Che non dovrebbero smettere, ma provare e riprovare fino a riuscire ad aiutarlo e a eliminare quel pelo per cui i compagni lo prendevano in giro ma, dopo quello che vi racconterò ora, cambierete idea.
Un giorno, mentre Andrea stava andando a scuola, preoccupato per le solite prese in giro dei compagni, quel pelo si rivelò molto meno superfluo del previsto. Andrea infatti, quando si accorse di essere in ritardo per la lezione, divenne distratto e accelerò il passo, per poi attraversare la strada senza guardare se arrivassero macchine: fu una cosa incredibile. A metà della strada Andrea venne investito e travolto da un enorme camion. Ci fu un gran botto, confusione, polvere e grida di alcuni passanti spaventati dalla scena. Andrea, però, non si era fatto nulla: il camion lo aveva colpito proprio sul pelo che rallentò prima l’impatto, poi gli fece da cuscino al momento della caduta: insomma, Andrea non si fece nulla di nulla e quasi non si accorse dell’incidente.
Quando arrivò a scuola i compagni non potevano più prenderlo in giro per quella sua anormalità: pensavano anzi che quel pelo rendesse Andrea come un eroe dei fumetti.

martedì 23 aprile 2013

Zaid



Il mondo e il buio

Sapete, un tempo il mondo era fatto solo di luce. Raggi luminosi scendevano dal cielo e accarezzavano ogni cosa,
dando ad ognuna un colore diverso. Qualcuno dice che è da questo fenomeno che nacque la parola uni-verso. Unico e diverso. E questa luce regnava senza rivali: la notte non esisteva, e neppure l'ombra. Neanche una piccola piccola, neanche di quelle che si sfilano dai bambini che volano.
Poi successe qualcosa di... misterioso e strano. Qualcosa di così misterioso che nessuno sa cosa sia. Ci studiarono sopra scienziati, professori, cervelloni, storici, ma nessuno ne venne a capo. Fatto sta che qualcosa successe e, dopo questa cosa, il mondo non fu più fatto di sola luce.
Da allora esistette anche il buio, l'ombra, la notte, e la luce ebbe una compagna.
Eppure gli uomini non erano affatto contenti di questa cosa. Volevano sfruttare il tempo ed il mondo anche di notte.  Varie menti, varie persone si ingegnarono quindi per rubare al buio la luce anche quando era notte.
Da qualche parte, un imprenditore (che qualcuno chiamava anche prenditore) inventò la dinamo: una bicicletta sulla quale si sale ma non si va da nessuna parte. Si girano i pedali, si suda come nelle normali biciclette, ma si sta fermi. Però faticando, sudando e facendo girare i pedali, si tenevano accese le lampadine, creando appunto la luce. Era una sorta di scambio, se volete: non ci si sposta, ma si fa luce. Il movimento in cambio delle lampadine accese.
Di questa invenzione, fu molto contento l'imprenditore, che poteva leggere il suo giornale anche di notte. Invece non fu per niente contento l'operaio che l'imprenditore mise sulla bicicletta (sempre quella che non si muove ma produce luce - la dinamo). Lui preferiva viaggiare, magari anche al buio. Tanto più che quando finiva di pedalare per far luce all'imprenditore, era talmente stanco che non si spostava più neanche di giorno.
Altrove, un gruppo di uomini, molto scontento dell'alternarsi della luce e del buio, decise di organizzare delle riunioni per trovare una soluzione, o almeno così pensavano. Avevano infatti organizzato delle importanti sedute dove, seduti su grossi tavoli di legno, parlavano tutto il giorno e tutta la notte di questa situazione. A dire il vero, non ne parlavano: se ne lamentavano. Erano veramente furibondi del fatto che il sole non ci fosse di notte.  Se ne lamentavano sempre, con una costanza incredibile: così tanto che non solo non riuscivano a trovare una soluzione, ma non riuscirono più a fare altro nemmeno quando la luce illuminava la terra.
In un altro posto ancora, un gruppo di donne reagì inizialmente nello stesso modo: organizzando delle riunioni per parlare del problema. Poco dopo però non ne vennero ad una, ed allora decisero che avrebbero usato il tempo "luminoso", detto anche giorno, per parlare, giocare, muoversi e così via. Di notte, invece, avrebbero semplicemente dormito. Inoltre, molte di loro tennero ancora delle riunioni, spesso organizzate da una donna di nome Samar: ma non cercavano più una soluzione a quella situazione, si raccontavano invece delle storie.
Nel nord del paese più a nord, invece si dice che un inventore, un cervellone, inventò una sorta di particolarissima pellicola, una plastichina trasparente che al buio si illuminava come per magia. Sarebbe stata una bella scoperta, ed una soluzione per molti, ma in realtà l'inventore ne era molto geloso, per cui la nascose in un posto segreto: non voleva che altri potessero scoprirla, utilizzarla o copiarla. Peccato che il posto fosse così segreto che neanche lui poteva usarla per illuminare la notte.
Infine, nel sud del paese più a sud, un bambino di nome Zaid si fece amico delle api, a loro chiese della cera e con quella ci costruì delle candele. Di notte, ancora adesso si diverte ad andare per il villaggio e condividere la sua fiamma con i suoi amici. Dovreste vedere la scena: uno spettacolo bellissimo. Quando viene il buio, si ritrovano tutti insieme, ognuno con il suo pezzettino di cera, poi Zaid accende la sua candela, ed avvicina la fiamma alla candela successiva. Il bambino o la persona di fianco, accende quella del suo vicino, e così via fino a che tutti non hanno la loro candela accesa.  Quando tutte le fiammelle danzano, allora si crea una specie di sole, fatto solo di cera e di luce, che brilla anche nel buio più profondo. Allora, quando vogliono, la notte è ancora giorno, come se ci fosse il sole.
Insomma, in tutta la natura fisica si verifica quello stesso volgarissimo fatto che se uno ha dieci soldi e ne spende cinque gliene restano solamente cinque e niente di più e di meno. Invece, se uno ha un'idea la può comunicare ad un milione di persone senza perderci nulla, e l'idea più si propaga più acquista forza ed efficienza.



In other way, in all the phisical nature, happening the same vulgar fact that if one have ten coins and spends five of them, he remained with just five. Nothing more, nothing less. Instead, if one have an idea, he can sharing it with milion of people without loss one cent, rather, the more is spreaded, the more it reinforces and improves.
Errico Malatesta, Pensiero e Volontà, 1 Luglio 1925.


You know, one time the world was made just of light. Beams of light got down from the sky stroking everything and giving to each one a different color. Someone says from this phenomenon was born the word "universe": Unique and different. Anyway, this light ruled without rivals: there was not night, and there was not shadow. Not even a very tiny, like those that run away from children who can fly.
After something happened. Something very strange and misterious. Something so enigmatic that no one could explains. Scientists, teachers, historians, brains, misfits but no one could understood. Anyway, after this... thing the word not was made just of light.
From that time, there was the dark too. And with it, night and shadow.
In one place one businnessman (that one can be called "borrower") invented a dynamo: a bike that goes nowhere. You turn the pedals, but you cannot move. In exchange, the dynamo makes light. Sweat for turn on the bulb light. The businnessman was very happy for this invention: he can read his newspaper in the night; not so happy was the worker, wich worked and sweated hard for the light, without move anywhere. How much as, in the day, when there was thelight he can not moves either, because he was too tired.
In other place, a group of men very sad for this situation (the dark) decided to organize some meetings for talk aboutt hat. But, to be honest, they didn't talk, they just complained and cannot reach an outcome. They lamented about their complaints. Anyway, I must say that they are very good in complaints: they took those meetings very seriously, as much that, neither in the day they stopped to talking and wasting their times, so in their minds were not sun either in day-long.
In one other place again, a group of women took the situation in the same way: organization of meetings, talking
searching a solution. But, after few days, they did not found a solution so took it easy: they speaks, plays and do
things in the day-long, and sleep in the night.
In the north of the northern country, there was a brilliant inventor that invented (pretty obvious) a magic and
special membrane that lights in the dark. But for pity this guy is very selfish, and very jealous about his idea, so
he hid the magic membrane and never sharing it to another.
At last, in the south of the southern country there was a children named Zaid that became friend of bees and, after asked them some wax, made many candle. In the night, he brings the candles in his village and sharing these to all his friends.
 Oh, that is really a very beautifull experience, you should see... In fact, in the night all the Zaid's
village mets, and formes a circle and the children lights his candle, then, he puts the flame on the wick of his
nearest friend's candle and this guy do the same thing... after few minutes, all the circle is bright and brilliant
and it stoles the light from the night, as like there was the sun at midnight.






lunedì 22 aprile 2013

Le giubbe degli spettri


Le giubbe degli spettri


1870


Era poco più che un ragazzo, poco più che un profeta. Un Paiute, di nome Tavibo. La prima volta che ebbe il sogno aveva le guance arrossate e le mani tremanti. Sorrideva con le lacrime agli occhi. Riempiva di colori le sue parole, di forme i suoi gesti.
Ed era così bello credergli: la terra si sarebbe arrotolata su se stessa come un tappeto, spazzando via gli ultimi tempi, gli ultimi anni. Il sangue e le sofferenze sarebbero stati cancellati, e così i visi pallidi. Le ultime ingiustizie sarebbero semplicemente scomparse.
Poi il tappeto si sarebbe nuovamente disteso: i nostri compagni indiani morti sarebbero tornati in vita e, con loro, i bisonti massacrati inutilmente. Saremmo rimasti sulla terra noi e loro, e avremmo ripreso a confrontarci, a vivere.
E non potevamo che crederci, dopo Little Bighorne e l'addio di Custer, massacratore di indiani. Ma poi vennero le sconfitte, e vennero le riserve.
Seguivamo le sue parole, ma non sapevamo ancora danzarle.

1890

Wowoka, il nostro nuovo profeta, un Lakota, riuscì a coniugare la danza del sole con il sogno, la profezia di Tavibo. Toro Basso e Orso Scalciante andarono a trovarlo, per vedere cosa stava succedendo. La sua danza stava diffondendosi ovunque, nelle riserve. Ancora, una speranza stava nascendo, e questa volta non annegava nell'alcol.  Galleggiava nel sudore della danza. Una danza che sapeva durare per quattro giorni e per quattro notti.
Ci prendevamo per mano, e pregavamo, danzando. E vedevamo i nostri morti tornare. I nostri bisonti correre  nuovamente nelle praterie. Il Messia ridarci la nostra terra. La chiamammo Wanagi Wachipi. La chiamarono danza degli spettri, ghost dance.
In quella danza, in quel cerchio, sentivamo che non tutto era finito. Che le invisibili mura delle riserve stavano per essere abbattute, che l'uomo pallido non era più il nostro dio.
Vestivamo tuniche leggere: delle giubbe adornate di stelle, di soli e di bisonti, ma spesso ognuno ci aggiungeva qualcosa di particolare, qualcosa di suo, per renderle uniche e speciali. Danzavamo con le nostre giubbe e le consacrammo alla profezia. Con quelle eravamo immortali. Wowoka diceva che quelle giubbe erano anti proiettile.

Ci credettero anche i visi palidi, e reagirono. Si spaventarono, per quanto solo uno stupido si spaventa per una danza. Per un bisogno di rinascere, di ritrovare un senso antico perduto tra ordini ed abitudini moderne, estranee, straniere. Eppure fu proprio questo a spaventarli: in quella danza, che portava il nome dei morti, trovammo un nuovo motivo per vivere. Ed è più difficile sottomettere chi vive.
A Standing Rock Toro Seduto fu interrogato su quella danza, quel movimento. Spiegava cos'era: una speranza. Un'altra forma della danza del sole. Ma non gli credettero, tentarono di arrestarlo, e ci lasciò la pelle. Se solo l'avesse indossata...
Ci arrivarono le voci della sua morte, e Piede Grosso volle partire, intuì che i militari ci avrebbero braccati, limitato ancora di più le nostre riserve, o forse ci avrebbero ammazzato con la scusa di un arresto.  Da Cheyenne River ci spostammo verso Pine Ridge. Piede Grosso voleva incontrarsi con Nuvola Rossa.
Faceva freddo e il fiume Porcupine era una lama di ghiaccio.  Uno di noi ricordò ad alta voce la profezia: in qualche luogo segreto  del torrente dormiva lo spirito inquieto di Cavallo Pazzo.  Era ancora inverno, ma con l'arrivo della primavera si sarebbe destato, guidando la rinascita dei nostri compagni. Sarebbero rinati come rinasce l'erba verde di primavera: emergendo da un velo di bianca sofferenza.
Lungo la strada fummo bloccati. Era il Settimo cavalleria, ma non avevamo paura, ci stavamo solo spostando all'interno delle riserve.  L'inquietudine cominciò a salire quando il Maggiore Samuel Whitside ci volle radunare tutti quanti. Eravamo al centro di una collina, controllati dai soldati, che stavano intorno e sopra di noi.
C'erano dei cannoni, degli Hotchkiss, a guardarci, ma Whitside non era un uomo feroce. Fece trasportare Piede Grosso in una carozza medica, perché durante il percorso aveva preso la polmonite. Al mattino seguente, venne il Colonello James W. Forsyth, e le cose cambiarono.

Era il mattino del 19 dicembre 1890. 


Li radunammo in quella collina. Non avevamo l'ordine di combattere. Solo di trasportarli a Pine Ridge, e capire quali fossero i loro sentimenti, dopo la morte di Toro Seduto. In quel periodo praticavano una strana danza. Ballavano ininterrottamente per giorni, ebbri del loro fumo e dei loro deliri. Quando finivano si riconoscevano a fatica, dopo tanto girare, e parlavano di tappeti, di ritorni, di bisonti. 
Il Colonello li chiamò a sé, uomini, donne e bambini. Li osservò attentamente, prima di ordinare loro di posare ogni arma. Ci fu della tensione, ma molti di loro obbedirono prima di fare un fiato. Qualche lamentela, ma tutto procedeva a dovere. Poi qualcosa accadde. 
Un uomo parlò di quella danza, di un fiume gelato e della primavera, e si tastò un lembo della giubba che indossava. Era semplice, di pelli e di cuoio. Adornata di stelle, soli e bisonti. 
Urlò che erano salvi. Che non avremmo potuto fargli nulla, che erano protetti. Levò un braccio, ed il fucile al cielo, quasi lo stesse chiamando, e scoppiò l'inferno. Forsyth ordinò il fuoco, e gli Hotchkiss risposero. Quel giorno morirono 120 uomini e 230 tra donne e bambini.

Si poteva leggere la sorpresa sulle loro facce gelate, quando il giorno dopo li contammo. 
Come se ad ucciderli fosse stata una speranza. Come se a sparare fosse stata una delusione.
Era d'inverno.
Era wounded knee.





martedì 2 aprile 2013

Che fare? In Vino Veritas...


Una vecchia amicizia...


Troppi amici, non abbastanza amicizia. Alphonse Karr

È una fredda notte d'inverno quando due amici di mezza età escono dal bar. I due amici si chiamano Jack e Alfred; il bar si chiama "In Vino Veritas", con tutte le lettere maiuscole. Anche oggi hanno bevuto parecchio. In fin dei conti, è un modo come un altro di vivere la loro vecchia amicizia. Per utilizzare una frase d'altri tempi, si può dire che si conoscevano da una vita.
Il nome del bar gli venne in mente quasi quindici anni prima, così, chiaccherando e bevendo aperitivi in un pub del centro. Sembrò loro assurdo che nessun locale avesse ancora utilizzato un nome del genere. Classico, divertente, ironico.
Era un periodo in cui i due - questione di mesi l'uno dall'altro - furono licenziati.
 Una congiura, disse Jack. Sfiga, disse Alfred.
Qualcuno direbbe una fortuna per entrambi: uno lavorava come operaio in una delle poche ditte in piena catena di montaggio ancora esistenti in zona, l'altro come impiegato in un ufficio di marketing generalista. Un posto dove la gente chiede di fare pubblicità ad un prodotto che fino al giorno prima non conosce nessuno.
Jack aveva le mani segnate, e la mente quasi del tutto corrotta al ritmo di quella catena. Dodici secondi per pezzo. Pausa ogni due ore per riposare le mani.
Ogni tre per andare a pisciare, e la mente focalizzata su tutto tranne che sul lavoro, troppo stupido per doverci pensare davvero.
Alfred aveva un capo di merda, si credeva il più grande creativo di questo mondo, generando slogan banali e terribilmente noiosi, di quelli che appena li senti non puoi fare a meno di cambiare pagina, o canale, o sito.
Così, quasi in sincronia, uno venne licenziato per scarso e basso senso del ritmo, l'altro probabilmente per arroganza. Entrambi si dichiaravano inadatti per sottostare a quelle vecchie regole, volevano essere indipendenti, avere qualcosa di loro; volevano aprire un'attività, e lo fecero.

All'inizio fu dura, dovettero fare orari assurdi, litigare con le fidanzate, fare dei debiti. Ma poi le cose migliorarono. Riuscirono a dare un certo stile al locale, e riuscirono a mantenerlo. I clienti a cui piaceva quello stile - un po' sobrio, amichevole, con un buon servizio e happy hour abbondante - ci tornavano con piacere.
«L'idea non deve essere di riempire il locale, ma di far tornare la gente che ti piacerebbe tornasse», era un po' lo slogan di Alfred. A suo modo aveva fatto tornare utile la sua esperienza di marketer.
Per Jack era la loro amicizia ad essere un bonus per i clienti. Inoltre, lui era molto veloce nel servizio, e nella preparazione dei cocktail, fin troppo. Ogni tanto Alfred doveva ricordargli che non era più in una catena di montaggio.
È davvero singolare come il passato sappia ripresentarsi nelle nostre vite in forme diverse. Anche quello di cui pensavamo esserci liberati.

Più tardi, anni più tardi dall'apertura del loro bar, scoprirono che, in realtà, quel nome, in vino veritas, era utilizzato un casino; solo, non nella loro piccola città di confine. Ma lo tennero comunque. Era un po' come dare un senso a quell'origine. Il giorno di nascita di quell'idea, di quel lavoro. La loro rivalsa, ed una nuova fase della loro amicizia.

Anche quella fredda sera d'inverno, chiusero la serranda del bar molto tardi. Un paio di clienti affezionati si erano fermati per fare una partita a poker con i baristi. Vinsero loro. Ma diciamocelo, avevano il vantaggio di aver bevuto un po' meno.
I clienti se ne andarono, Jack e Alfred si fecero un altro paio di bicchieri, sistemarono il bancone, ripulirono velocemente i tavoli, e chiusero.
Il vento era fresco e pungente, ma dopo tante ore di lavoro nel bar lo accolsero con piacere. Oltrepassarono lentamente un paio di negozietti, chiusi da ore, per raggiungere il parcheggio vicino, dove erano soliti lasciare la macchina.
Erano immersi nel silenzio, e non c'era un'anima viva in giro, ma arrivati nel parcheggio scorsero la figura di un uomo. Vestiva un impermeabile nero, elegante, ed un cappello a tesa larga, scuro, gli nascondeva in buona parte il volto. In mano, teneva una specie di bastone.
Quando lo alzò e lo puntò dritto contro di loro, fu con un brivido di terrore che Jack ed Alfred capirono che non era un bastone. Era un fucile.
Il tizio li fissa per un po'. Zitto. I due baristi si guardano, fanno un mezzo movimento, ma quando quello allunga il braccio, le canne dell'arma puntate contro, capiscono che non possono scappare.
Poi la voce dell'uomo esce dal bavero dell'impermeabile «Buonasera. Ora faremo un gioco. Ecco le vostre regole: vi lancerò una pistola, il primo che ammazza l'altro, se ne torna a casa con il cuore che batte nel petto.» La voce maschile, neutra, par come recitare una parte.
I due si guardano nuovamente, non capiscono. L'uomo li punta ancora con il fucile, fa un passo in avanti, frugando con la mano libera nella tasca dell'impermeabile. Tira fuori una vecchia pistola revolver, a tamburo, e la lancia in mezzo ai due.
Jack ed Alfred guardano quell'arma a terra, ma non si muovono. L'uomo sospira. «Non avete capito, se non vi muovete vi ammazzo entrambi.» Gelo. Tensione che cresce, poi Jack fa un gesto col mento all'amico, si butta a terra, prende la pistola, e la punta contro l'uomo. Spara.
Nulla. Tira il grilletto più volte, ma niente. Solo vari click meccanici, vuoti. Un ritmo che non ferisce, non uccide. Soffia solo aria.
L'uomo mostra un sorriso. Ma non sembra scherzare. Non sembra un gioco. Guarda Jack e spiega con calma «Non funziona così: se ci tieni davvero a vivere, punta la pistola al tuo amico, e spara. Lo uccido io per te.»
Alfred scuote la testa, incredulo. Jack impallidisce, ancora in ginocchio, per terra. Fissa la pistola come potesse caricarla solo guardandola, poi in uno scatto, la punta su Alfred, preme il grilletto. Click. Boom.
L'uomo spara, Alfred sgrana gli occhi, viene buttato a qualche metro di distanza. Piomba per terra come un sacco pesante, inerte. Morto, e con il petto sporco di sangue.
Jack guarda il suo amico, poi l'uomo, la pistola scarica ancora tra le mani. Incapace di capire. Lo sconosciuto scuote il capo. «Che anima indifferente. Gli hai sparato davvero. Io non l'avrei mai fatto, a un vero amico no.» Si volta, e si allontana. Jack piange senza riuscire a capire quando abbia iniziato. Guarda l'impermeabile allontanarsi, perdersi nella notte, prima di ributtarsi sul cadavere dell'amico, inumidendone il corpo di lacrime.