lunedì 28 giugno 2021

Cos'è l'estetica?

Cos'è l'estetica? (Da Kant a "Sto pensando di finirla qui", passando per Arthur Danto).
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo farci altre domande, come
- Cos'è la bellezza?
- Cos'è l'arte?
Come cambiano, se cambiano? Come le percepiamo?
L'estetica è un'onda (enorme) del mare della Filosofia. Qui proviamo ad esplorare un possibile frammento della sua affascinante complessità.




martedì 22 giugno 2021

Solo un pastello

 



Una striscia di legno.

L'interno è color noce o,

forse, compensato. 

L'esterno è verde chiaro. 

No, non è un cilindro vero,

ha più... forma esagonale. 


Dietro, sul fondo, un punto verde

immerso nel legno più scuro, 

forse usurato.

La punta è leggermente più chiara,

quando lo usi, hai un'impressione diversa,

per esempio,

quando sottolinei una frase, 

sulla pagina d'un libro, color crema,

come: "Anche la cosa più insignificante

contiene un po' di mistero", il colore

sembra più chiaro, 

quasi fosforescente.

Credo ci stia bene.


Mi fermo meglio a guardare,

vedo dei piccoli segni sul fondo e,

più leggeri e irregolari, sulla superficie, 

per il lungo. 

Segni minuti e disordinati. 

Nessun altro pastello Holland li ha. 

Solo questo. 

E allora mi dico: questo è speciale. 

Questa è una bella storia. 

Un tempo anche a me, capitava di avere

quei segni: minuti e irregolari, sulla pelle

color crema. 

Ci stava bene, il segno dei tuoi denti. 

Però, ora, sono come un pastello qualsiasi. 


lunedì 14 giugno 2021

Un viaggio in treno

 


Al mattino il papà la trovò tra i colori, e con la sua parrucca bionda sopra i capelli nerissimi. Come avesse un nido giallo in testa.


Le sorrise: «Dai, andiamo!»

Delia aveva visto tanti treni, ma non ci era mai salita. Questo era così grande, ma così grigio! I treni lasciano la stazione come le navi lasciano il porto.


Lo percorsero da fuori, lungo la banchina: sembrava infinito, e loro erano all'ultima carrozza. Stavano per salire ma...


Il papà bisticciava con i biglietti: «Ho dimenticato di obliterare, incomincia a salire: arrivo!».


Delia salì sul treno, e vide il papà che prima correva verso la macchinetta in fondo, poi la stazione si allontanava: sembrò andarsene via, e così il suo papà.


Il cuore le batté forte: nel suo vagone sembravano tutti grandi, e tutti tristi. E quando è triste o ha paura, Delia disegna.


Ora, sui vetri del vagone: fiori e piante crescevano tra sedili e giornali, gli uccelli cantavano sui portaborse.


Nei sorrisi dei passeggeri Delia nascose la paura. Se avesse potuto, avrebbe colorato ogni vagone. In ogni vagone ci sarebbe stato un mondo, e in ognuno di questi ognuno avrebbe trovato il suo posto e non sarebbe più stato triste.


Dei rumori la distrassero: un uomo enorme vestito di blu si avvicinò a passi pesanti. Controllava che tutti avessero il biglietto e fossero abbastanza seri e composti.


 Delia mancava entrambe le cose: il cuore batteva, gli uccelli urlavano e i fiori tremavano.


Quando fu troppo vicino Delia corse sotto le gambe del controllore. «Fermati, bimba con quel nido biondo in testa!» ma lei correva per i vagoni, e il controllore la inseguiva.


Tra i vagoni i due corsero come corrono le nuvole, ma Delia inciampò e il controllore arrivò. «Dove sono mamma e papà e dov'è il biglietto? Perché hai sporcato tutto il vagone?! E che diamine hai in testa?».


«P-papà non è salito, ho solo fatto le cose più allegre e questa è per mio fratello» disse Delia, disegnando baffi viola al controllore, che la guardò serio, e sorrise, ma solo per un attimo, sotto quei baffi.


Il treno si fermò. Delia fu portata nella sala d'attesa della stazione: era fredda e buia. «Ora aspetti qui!» gridò il controllore. Fece per andarsene, ma allungò la mano. Delia, mogia, gli passò i pennarelli.


Ora era troppo sola e quella stanza troppo grigia. Delia non piangeva mai, ma quella volta lo fece.


Delia stava ancora aspettando e, quando stava per allagare tutta la stanza, il controllore tornò. «C'è qualcuno per te» disse sotto i baffi viola. La porta si aprì...


ed entrarono papà, mamma ed il fratello Mirco. Bianco in volto, senza capelli, ma sereno.

Delia gli saltò in braccio, si tolse la parrucca che aveva fatto per lui e gliela mise in testa.


Poi tutta la famiglia e il controllore colorano la stanza: alberi, soli, sogni e farfalle.


Non avrebbero più permesso che qualcosa la rendesse di nuovo grigia.


I due fratelli si abbracciarono e, nello specchio della stazione, Mirco vide il suo volto sorridere, poi, tutto il percorso che lo aveva condotto lì.


Mirco e i suoi genitori trovarono sulla banchina ad aspettarli un omone enorme vestito di blu, con degli strani baffi viola sotto il naso, che li accompagnò davanti alla porta della sala d'attesa.


Fu quando salirono sul treno, che il padre di Mirco ricevette la telefonata di un controllore delle ferrovie: era lungo il viaggio, e scesero a quella stazione.


Non era né premuroso né saggio, ma Mirco non volle sentire ragioni: volle partire subito per cercare Delia. Il padre credeva sarebbe arrivata all'ospedale prima di lui, ma forse era ritornata a casa per paura. 


Nella stanza, dopo lunghe ore di cura e poi di stancante riposo, Mirco e sua madre non aspettavano altro che Delia, ma arrivò, trafelato e spaventato, solo suo padre. Chiese come stava Mirco (era stanco e molto triste) ma raccontò che Delia era salita sul treno da sola, e l'aveva persa.


Quello che davvero non si aspettava, era che la sorella lo avrebbe curato con una donazione. Mirco non comprese bene: ma qualcosa che era nel corpo di Delia sarebbe entrato dentro di lui, e lui sarebbe lentamente guarito. Non era qualcosa di sicuro, ma bisognava provare. Per cui un giorno partì con la madre e andò in ospedale per l'ultima cura.


Le cure che Mirco fece erano davvero difficili. Ogni volta stava male, e si chiedeva che cavolo di cura fosse, se poi stava peggio di prima. Avrebbe rinunciato sicuramente, senza i sorrisi e i disegni di Delia.


Allora Delia decise che era il suo turno per cercare di farlo sorridere. Lo faceva in vari modi, ma quello che Mirco preferiva era quando lei disegnava di nascosto (per esempio quando Mirco era all'ospedale per le cure) sulle pareti della stanza, e creava un piccolo mondo per la sua notte.


Mirco non riusciva più a far ridere Delia. Avrebbe voluto, ma era sempre troppo stanco, troppo debole, e questo gli dispiaceva, forse, anche di più di essere così malato. 


Il bambino era sempre più stanco, sempre più pallido. Le sue mani si riempivano di puntini rossi. Sua madre lo controllava sempre, ma non riusciva a vedere nessun disegno sulla sua pelle, come non riusciva a vedere nessun senso nel suo destino.


Sembrava una serenità senza interruzioni, un vetro pulito senza crepe o aloni, la vita di Mirco e Delia e dei loro genitori. Tutti si volevano bene e filava liscio, come un sorgente lungo una collina. Ma un brutto giorno il vetro esplose senza preavviso: Mirco stette poco bene - per la prima volta perse nel gioco della zuffa con Delia, e poi peggiorò a vista d'occhio: il medico gli diagnosticò una malattia mortale.


Mirco e Delia erano due bambini sempre giocosi e vivaci. Erano fratelli, Mirco era di tre anni maggiore: litigavano di rado, e quando lo facevano Mirco trovava sempre un modo per farla tornare a ridere. Una volta le fece un brutto scherzo, allora per farle tornare il sorriso le regalò dei pennarelli bellissimi. Di quelli che puoi scriverci sui vetri e sui muri, volendo. Delia allora prese a colorare il mondo.



giovedì 10 giugno 2021

Cosa vuol dire giocare?

 



Cos'è per "me" il gioco?
Definire significa mettere qualcosa dentro a un insieme, e lasciare fuori qualcos'altro.
Non so definire il gioco.
Però... sai quando ribalti un divano per infilarti sotto una tenda indiana o una grotta misteriosa?
O quando lasci che la pioggia ti bagni senza preoccuparti dei vestiti sporchi?
Quando ti ricordi che conservi ancora l'armadio rotto di tua nonna e, quando ne parli con uno sconosciuto, ti ricordi ancora il suo sorriso di dolce rimprovero?
Quella volta che ti prendi una pausa tra le mille cose che non hai scelto, per vedere come la luce cade sulle foglie?
Quando in quel marasma di cose che il mondo manda avanti con il pilota automatico, trovi spazio per qualcosa che non ha senso per nessuno, tranne chi sta dentro a quel cerchio, sotto a quel tetto?
Quando infili un discorso dentro un altro discorso e tiri notte senza ben capire di che avete parlato, ma state tutti meglio di quando avete iniziato?
Quando torni a casa stanco e un po' depresso, ma alzi lo sguardo e - d'improvviso - ti ritrovi circondato, in quel prato di periferia, da tante lucciole come non accadeva da chissà quanti anni?
Come quando ti appiccichi le dita di colla e colori, prendi il tempo e ne fai un pastrocchio, ma sai che non è perso...

Ecco... credo che giocare sia una cosa così.