mercoledì 19 giugno 2013

Che fare? Di una breve discussione

Sulla virtù


La virtù è più perseguitata dai tristi che amata dai buoni. 
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605/15
Le virtù si perdono nell'interesse come i fiumi nel mare.
François de La Rochefoucauld, Massime, 1678 


La luce del sole del tramonto sembra adagiarsi al suolo, mentre filtra dalle grandi finestre dello studio: cade sulle tende bianche e leggere,  cade sul tavolo di ciliegio fra i due uomini intenti a parlare, e rende visibile la trasparenza del sigaro il cui fumo nutre d'un aroma dolceamaro quella stanza.

«Così tu non credi alle buone intenzioni della gente»fa Arthur mentre spegna il sigaro nel portacenere di marmo.

«Non saprei. Dico che la mente umana è troppo profonda  e troppo poco conosciuta per essere sicuri delle nostre azioni in qualunque caso.»

«Ma prima dicevi che se un uomo è fedele, per esempio, lo è solo perché non ha la possibilità di nutrire la propria infedeltà…. Magari non è abbastanza bello, magari non ha l'occasione di conoscere molte donne...
E che, magari, uno rispetta la povera gente solo perché povero, ma se fosse ricco sarebbe peggio di quelli di cui parla sempre male.. .» guardò per qualche istante fuori dalla finestra, come se il tramonto potesse aiutare quella discussione, così meno astratta di quanto il cielo stesso potrebbe pensare.
«Quindi non credi alle buone intenzioni della gente: seguono principi morali per la scarsezza dei mezzi e non per la ricchezza dei fini» concluse Arthur, come a voler mettere un punto fermo nella sua analisi dei pensieri dell'altro uomo.

«Non lo dico con certezza. Dico che è probabile che le convinzioni vacillino quando si cambiano i contorni: tutto può sfumare fino ad un grado indefinito. Quello che mi interessa è provare, non teorizzare. Sono esperimenti: io concedo loro possibilità, ed osservo come vengono sfruttate.»

«E di solito ne abusano?»  chiede, interessato, Arthur.

L'altro sorride – «Fino al midollo...»

Per una donna la bruttezza è già metà della strada verso la virtù.
Heinrich Heine, Letzte Gedichte und Gedanken, 1869 (postumo)

Altre "Puntate":

http://cavastorie.blogspot.it/2013/04/che-fare-in-vino-veritas.html

http://cavastorie.blogspot.it/2013/06/che-fare-unaccusa.html


giovedì 13 giugno 2013

La pozzanghera


La pozzanghera

 




Era appena finito il temporale, quando l'arcobaleno comparse nel cielo di quella grigia cittadina. Era ancora presto, ed il primo ad accorgersi della pozzanghera vicino al condominio fu il gatto-unicorno. Non era davvero un gatto-unicorno, ma sembrava: era completamente bianco, ma aveva un cornino nero sulla fronte, proprio in corrispondenza di un ciuffetto folto di pelo, come un corno scuro su un foglio bianco.
Il gatto-unicorno guardò dentro la pozzanghera, ma non vedeva né il suo riflesso, né quello dell'arcobaleno: l'acqua era troppo grigia, troppo scura, per riflettere il mondo: tratteneva troppo sporcizia. Non la si poteva neanche bere: si rischiava di venire contagiati da qualche malattia. Così, il gatto-unicorno pianse. Non si limitò a miagolare più forte e più acuto, come fanno i gatti normali che piangono. Ok, non era davvero un gatto-unicorno, ma qualcosa di singolare e speciale lo aveva davvero: piangeva proprio con lacrime umide e salate, come potrebbe piangere un bambino.
Così si allontanò, non di molto in verità: si nascose in un cespuglio vicino, e fisso là pozzanghera, per vedere cosa sarebbe successo, perché succede sempre qualcosa.

Infatti, il gatto-unicorno si accorse proprio di una piccola processione raggiungere la pozzanghera.
Il primo ad arrivare fu un uomo d'affari, appena uscito dal condominio. Lo si riconosceva subito: aveva un giacchettino a maniche lunghe, nonostante fosse estate e, dopo il temporale, non facesse freddo. Nella destra portava una valigetta scura, di pelle, di quelle che certi adulti chiamano “ventiquattrore” : perché ci mettono dentro quello che proprio non riescono a lasciare a casa, anche se stanno via molto meno di ventiquattro ore, che poi è un giorno intero. Peraltro, dimenticano sempre qualcosa, forse perché di quel qualcosa non si sono ancora liberati. Per quello se ne dimenticano.
Ad ogni modo, l'uomo d'affari camminò vispo, rapido, con tanta fretta di arrivare al lavoro: uno di quei lavori che tutto sommato non si sanno mai ben definire, ma dove – certamente – il tempo è denaro.
Si fermò alla pozzanghera, e rischiò quasi di finirci dentro con i suoi bei mocassini di pelle nera. Fissò l'acqua sporca, e cominciò ad agitare la ventiquattrore con dentro le sue belle cose. Era arrabbiato, furente, urlò qualcosa del genere (ma dovreste chiedere al gatto-unicorno per i dettagli) «Non si può davvero andare avanti così! Ma che razza di mondo è mai diventato questo! Qualcuno dovrebbe intervenire! Il sindaco, gli spazzini, possibile che vada tutto in malora? Non c'è più rispetto!» e cose di questo genere. Sbraitò per parecchi minuti, sventolando la sua preziosa ventiquattrore, poi se ne andò. Forse al lavoro, che il tempo è denaro.

La seconda ad accorgersi della pozzanghera, fu una donna dai capelli rossi rossi rossi e ricci ricci ricci: indossava un gonnone di quelli lunghi e colorati (che il gatto-unicorno definirebbe Hippie, ma chiedete a lui o a un altro adulto cosa intenda, io non saprei). Non era una donna giovane, ma era bella: anche perché aveva un bambino piccolo piccolo piccolo in braccio, che dormiva e sorrideva. Ora immagino che avrete le vostre contestazioni da fare: ma allora anche lui si accorse della pozzanghera? No, lui dormiva, quindi non la vide. Al massimo, la sognò. Ma c'è di meglio che sognare di una pozzanghera. E come faceva il bambino a sorridere e dormire insieme? Be', molto spesso accade: si sogna qualcosa, e si sorride. E no, non c'è bisogno di svegliarsi per sorridere. Anzi, a volte bisogna sognare per riuscire ancora a farlo.
Sia come sia, la donna, che possiamo chiamare ormai anche mamma, saltò semplicemente la pozzanghera, senza curarsene più di tanto. No, non si bagnò la gonna, né il bambino si svegliò. Fu un salto agile, bello.

Il terzo che si accorse (o incrociò) la pozzanghera fu un bambino biondo. Aveva pantaloncini corti e rossi, ed una maglia tutta colorata (non so esattamente i colori, chiedete in caso al gatto-unicorno, se proprio vi interessa, ma non è tanto importante, non credo). Appena si accorse della pozzanghera, ci saltò dentro a piedi uniti, bagnandosi e sporcandosi tutti. Ci mise dentro anche le mani, schizzò qualche passante, e poi corse via, per non rischiare di prenderle o venire sgridato.
Si può dire che neppure si accorse di quanto fosse sporca la pozzanghera. Del resto quello non è un lavoro per tutti.

Poco dopo, arrivò una bambina: aveva una gonna azzurra, ed una camiciola bianca. Boccoli scuri, e degli occhialetti verdi sul nasino. Dapprima guardò la pozzanghera con fare curioso, perplesso, forse: stette ferma ferma, a controllarla. Poi se ne andò, e tornò con ben due secchi di plastica (uno bianco, ed uno rosso, se siete degli appassionati dei dettagli): uno dei due secchi era vuoto, l'altro era pieno d'acqua pulita e brillante.
E, come avrete oramai intuito da soli (vero?) la bambina svuotò l'acqua sporca della pozzanghera con l'aiuto del secchio vuoto, poi la riempì con l'acqua pulita e brillante del secondo secchio.
Insomma, aveva cambiato l'acqua e pulito la pozzanghera! Annuì soddisfatta, e se ne andò.

Subito dopo, il gatto-unicorno tornò sui suoi passi: uscì dal suo nascondiglio (dal cespuglio) e raggiunse la pozzanghera: aveva smesso di piangere. Ora sorrideva felice (sì, il gatto-unicorno sorride come un bambino, più o meno). Si guardò dentro la pozzanghera, che ora rifletteva sia lui sia l'arcobaleno che ancora balenava (del resto cosa può fare un arcobaleno?) nel cielo.
Quindi bevve un po' d'acqua, quanto bastò per dissetarsi, e se ne andò.

sabato 8 giugno 2013

Che fare? Un'accusa





Una Jeep Wrangler verde metallizzato corre a media velocità su una di quelle lunghe strade che esistono solo in America: troppo estese perché ci sia fila, troppo lunghe per vederne la fine, anche solo in forma di curva. Come fossero una retta: grigia e infinita, calpestata dall'asfalto e dai copertoni.
Oggi James Bradley la percorre senza fretta, godendosi la solitudine e l'umore del viaggio. Per qualche ora è come se non avesse meta, e stesse correndo semplicemente verso il tramonto che, dopo una breve pioggia, sta risalendo oltre quella retta d'asfalto, come nascesse dalla strada.
Di fianco a lui solo dei prati, qualche rado albero, quasi a non disturbare quella linea perfetta, quel viaggio calmo. Nella Jeep, cantano i Queen: Bohemian Rhapsody. Di tanto in tanto James batte la mano sul volante scuro del fuoristrada, ma il suo ritmo è ben più lento di quella melodia.
Vengono macinati ancora pochi kilometri, e il silenzio si spezza improvvisamente, come si spezza la solitudine: in lontananza delle luci azzurre sfarfallano e vorticano, accompagnate dal classico suono delle sirene spiegate: sono due macchine della polizia.
James guarda lo specchietto retrovisore e presto rallenta, quindi si accosta a lato della strada. La sua mente si domanda se abbia superato i limiti di velocità ma, no, era un viaggio calmo, senza fretta. Se la stava godendo. Forse le luci posteriori, o qualche problema con le gomme. Il tempo di spegnere il lettore CD, e le due macchine lo raggiungono: una sterza di colpo, fermandosi davanti alla Jeep di James perpendicolarmente, proprio davanti, come ad impedirgli una possibile fuga. L'altra si blocca col muso dietro al culo del Wrangler, a bloccarlo. Circondarlo.
Sembra non passare neanche un secondo, e dalle macchine escono quattro uomini della polizia: uno punta un fucile contro al parabrezza, due sembrano accucciarsi dietro le loro macchine, forse armati. L'ultimo si avvicina alla porta del guidatore.
James non capisce, si allarma, il cuore batte a mille.
«Esci dall'auto, mani sopra la testa!»
L'ordine è secco, perentorio: James obbedisce. Zoppica fuori confuso. È un uomo sulla quarantina, con una zazzera folta ma curata di barba e capelli castani, fisico medio. Indosso Jeans e camicia cachi.
«Sei in Arresto, voltati e mani dietro, niente scherzi.» Urla l'agente più vicino, mentre l'altro gli punta ancora il fucile contro. James non capisce, sgrana gli occhi e domanda «Ma che... ci deve essere un errore, che diavolo avrei fatto?» Nessuna risposta. Nessun capo d'accusa. Un attimo di esitazione e l'agente più vicino gli tira un pugno violento in faccia. James geme e sente il sapore ferroso del sangue in bocca. Quello basta per farlo voltare, petto contro la carrozzeria: viene subito perquisito e gli vengono messe le manette. Un secondo ancora in cui il dolore al viso e il verde della Jeep diventano una cosa sola, poi qualcosa scende sulle guance: tutto è buio. Si ritrova seduto su qualcosa che parte, rapido: senza un perché, senza una meta, ma qui non c'è nulla da godere.

James si ritrova in una piccola stanza, umida e sciapa. Non ci sono finestre, solo la luce fioca di una piccola lampada pendente dal centro del soffitto. Fissa la porta di ferro che ha davanti a sé. Non ha la minima idea di dove sia né perché. Urla, ma nessuno gli risponde. Sbatte del colpi contro le pareti, ma vanamente. Non sa da quanto tempo sia lì.
Continua a urlare, solo, fino a quando non gli si secca la gola e dentro non ha che una domanda ininterrotta, e ininterrottamente senza risposta. Il tempo sembra scorrere infinito in quello spazio così ristretto: sembra come rimpicciolirsi in ogni momento. La sua voce cerca risposte che non trova, mentre la sua mente pone solo continue domande. Stanco e spaventato, si poggia alla parete, e guarda in alto come potesse trovare una soluzione divina ai suoi dubbi – forse – terreni.
E solo allora che s'accorge dell'altoparlante in un angolo del soffitto.
Il tempo di assottigliare gli occhi, e ne esce una voce vagamente metallica: «James Bradley, sai perché sei qui?»
James si alza, tocca le pareti, scuote il capo «No!»
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
James tira qualche calcio, bestemmia. «Fatemi uscire! Che cazzo ci faccio qui?»
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
Bradley si mette le mani nei capelli, si lascia cadere sul pavimento, non risponde.
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
«Fanculo! Io non ho fatto niente, niente, niente. Cosa volete?»
Dall'altoparlante esce un rumore acutissimo e terribile, risuona per quella stanza e s'insinua pesante nelle orecchie, i timpani sembrano squagliarsi: James è costretto a rintanarsi a terra con le mani sulle tempie.

Quattro uomini abbandonano quelle macchine esagerate e pompose davanti al cartongesso di un gran magazzino rivestito a garage. Scendono e si complimentano tra loro, qualche risata, quando uno di loro tira fuori il cellulare dai pantaloni: risponde e sembra stupito. Fissa gli altri «Ehi, ci vogliono per un lavoro. Pagano da Dio.»

James è ora a gattoni sul pavimento di quella stanza umida e buia. Non sa quanto tempo sia passato, lì dentro. Ne ha perso ogni conto, forse ha perso i sensi: nella cella ora ha una bottiglietta d'acqua senza etichetta, e un panino semplice: prosciutto e formaggio.
Ma non cerca nutrimento, cerca risposte. Resta parecchio in silenzio, il tempo non è che una distensione dell'anima, e in quel momento la sua suona come una corta di violino scordato.
Dal nulla, l'altoparlante risuona nuovamente: «Lo sai cosa hai fatto James?»
Non risponde, è seduto, ora, le mani sulla testa, scuote il capo.
«Tu lo sai. Tu lo sai.»


I quattro uomini si ritrovano davanti ad una scrivania in ciliegio di uno studio lussuoso. Uno di loro chiede a chi c'è dinanzi loro «È uno scherzo, vero?».
«No, sono soldi» del fumo circola sui quattro uomini. Fumo di sigaro.

James piange, ora steso per terra, quasi rantolante, rannicchiato su se stesso come cercasse conforto nel ritrovarsi stretto al suo proprio corpo. Probabile che stia davvero cercando una colpa. Una giustificazione a tutto questo. Una colpa è comunque una causa: senza una causa, senza nessun perché, sarebbe insostenibile. Una voce senza labbra, un'onda senza mare, una punizione senza delitto.

Altoparlante: «Ti dichiari colpevole?»
Silenzio.
Silenzio.
Silenzio.

Poi la fragilità si fa umana, la corda si spezza, e l'uomo balbetta e singhiozza «Sì, sì... sì» .
Silenzio. Forse un minuto, forse solo qualche secondo: un'eternità incolmabile.
L'altoparlante risuona ancora, meno meccanico, più lento: «Bene. Bravo, James. Ora che lo sai, puoi andare» .
Silenzio.
James si guarda attorno stralunato. La porta di ferro della stanza che lo rinchiudeva si apre in uno stridulo opaco. Aspetta senza sapere cosa aspettarsi, poi esce. Cammina debolmente, insicuro di ogni suo passo, di ogni sua scelta, se mai ne ha avuta una. Rivede infiniti frammenti caotici della sua vita passata mentre segue un lungo corridoio illuminato da luci al neon, fino a raggiungere una porta che, aperta, lo conduce all'esterno: la luce del giorno gli ferisce gli occhi, ma è solo un momento. Quando la vista riprende il suo lavoro riconosce un parcheggio che conosce di vista. O qualcosa gli ricorda. Non è molto lontano da dove è stato “preso”, chissà quando.
Si volta torcendo il collo: l'edificio in cui è stato fino ad ora sembra solo una palestra, che forse ha già visto, passando in macchina.

Fa per riavvicinarsi, dare un altro occhio all'interno, ma la porta si chiude e risuona su se stessa. Rimane immobile lì davanti qualche istante, poi si allontana; vede la sua Jeep verde metallizzata parcheggiata poco più in là; ci sale, resta fermo, respira, respira, riparte.

Nella cella, e forse in altre risonanze sconosciute, l'altoparlante parla di nuovo: «Tutti siamo colpevoli. Questo è certo. Ma di cosa?»

mercoledì 24 aprile 2013

Il Gioco della Guerra



Hybris convinse i suoi amici a giocare a questo nuovo gioco. Tranne Pietas. Non era per lui.
Per prima cosa, i bambini si radunarono in una piazza.
Ogni bambino aveva una torcia, ed era corazzato di tutto punto. Stivali di papà, un coperchio di pentola come scudo, un cucchiaio di legno e qualche coltello da cucina come arma. Qualcuno in testa aveva un elmo: uno scolapasta, o un casco del fratello più grande.C’era anche qualche cane, per rendere il gioco più divertente.
Che bello! Oggi si gioca alla guerra!
Hybris urlò sopra i suoi amici, in piedi, vigoroso e forte sopra un albero, sovrastava tutti gli altri. Era il più forte, senza dubbio. Era il loro capitano, senza dubbio. Spiegò loro la strategia militare. Si trattava di conquistare il forte nemico: superare il recinto del parco giochi, dove stava in difesa l’altra squadra. Loro dovevano attaccare.
La strategia di Hybris era semplice. Dividersi in due gruppi d’attacco. Il primo sarebbe andato allo scoperto contro i difensori, distraendoli, e seminando più paura possibile. Il secondo sarebbe passato per il boschetto che porta al parco, entrando da un foro della rete che una spia gli aveva illustrato. Entrati, avrebbero approfittato della confusione fornita dal primo gruppo, e avrebbero fatto un massacro.
Certo, il piano di Hybris era dispendioso, ma efficace. Il primo gruppo era concepito come un diversivo, e aveva più o meno la funzione del verme attaccato all’amo: un’esca, carne da macello. Il secondo avrebbe sfruttato il sacrificio, e non avrebbe fatto prigionieri.
Altrimenti dove sarebbe stato il gusto?  l’ebbrezza?  Si doveva finire. Questo era chiaro a tutti.
Il capo sapeva come infiammare i soldati. Gridò che il nemico non avrebbe avuto speranze, che la rete del parco giochi non era così dura. Che si sarebbero conquistati l’onore sul campo, e avrebbero portato a casa la vittoria in un baleno. Chi non fu convinto dalle parole, lo fu da quel buon vino che Hybris aveva preso dal padre. I bimbi si sentivano una persona sola. Alla prima ora della battaglia festeggiarono la vittoria dell’ultimo giorno. Per inebriarsi prima dello scontro, presero una ragazza per sfogarsi un po’.
Al tramonto, tutto era pronto. I bastoni levati, i sassi pronti, le lame scintillanti.
Il primo gruppo caricò contro la difesa appena fuori dal parco. I primi caddero per le pietre nemiche. La difesa li aspettava, e aveva mandato i cani a sbranarli. Poi caddero trafitti dai coltelli di mamma e dall’attizzatoio di papà. C’erano piccole teste rotte, dita che correvano. Gli occhi lacrimavano per i cuori che esplodevano. Solo pochi riuscirono ad entrare nel parco, con la sola forza della disperazione. La difesa, presa dall’ansia della vittoria, si scatenò contro quelli a terra. Il loro capo aveva ormai la vittoria in pugno, quando il giavellotto di Hybris lo trafisse alla gola, spezzandogli il collo ed esultanza all’unisono.
La difesa non s’era accorta del secondo gruppo, troppo presa nello scontro frontale.
Mentre i suoi bambini tranciavano arti e insanguinavano il parco. Hybris, il più forte, sfidò il campione della difesa, davanti ai suoi uomini. L’altro sapeva che avrebbe perso, che gli toccava morire, ma non aveva scelta. Erano le regole del gioco. Fece in tempo ad estrarre l’arma, che il martello di Hybris gli spaccò il cranio. Breve fu la sua gioia, che un nemico alle spalle gli tranciò un ginocchio, buttandolo a terra. Hibrys implorò il suo avversario. Pregò che gli salvasse la vita, piangendo; ma Pietas non fece parte di quel gioco. Non era per lui.
Gli adulti trovarono all’indomani i resti dei propri figli nel parco. Solo dall’esterno, si può capire quanto poco la guerra sia un gioco.

Salvo per un pelo



Era un bambino come tanti altri, ma gli mancava proprio un pelo per essere proprio come tutti gli altri.
O meglio, aveva un pelo di troppo per essere normale.
Infatti Andrea era un bel bambino di nove anni, dai capelli neri e gli occhi allegri, abbastanza alto e felice per la sua età.
Aveva però questo problema: dalla parte superiore della schiena – tanto che mi è difficile dire con precisione se devo parlar di schiena oppure di collo – gli partiva un pelo enorme, sì, ma mica per dire: infatti era un pelo alto quanto lui e largo circa tre o quattro centimetri, tanto che quasi ti chiedevi come facesse Andrea a stare in piedi con quel popò di pelo sulla schiena (o sul collo, fate voi).
Comunque lui riusciva a camminare, a correre, a dormire, a far tutto; solo, di certo non era un bel vedere.
Potete immaginare quanto lo prendessero in giro i suoi amici per quel suo affare. Lui non poteva farci niente, ma i compagni di scuola e quelli di merenda non facevano altro che prenderlo in giro.
Eppure non era colpa sua! Però, so che lo sapete: la colpa non c’entra proprio nulla con le prese in giro degli amici. Loro scherzano e basta, non ci pensano su.
Andrea però, a dirla tutta si era ormai abituato a quelle prese in giro e, nonostante a volte piangesse di nascosto, se ne fece una ragione (che è un modo dei grandi per dire che sì, piangeva, ma alla fine piangeva per poco e poi tornava allegro come sempre. Allegro come i suoi occhi allegri).
So quel che state pensando: ma come, Andrea aveva questo affare abnorme sulla schiena e i genitori
non facevano nulla?
Facevano. E tentarono infatti più volte di tagliare il problema alla radice. Letteralmente.
Una volta presero un forbicione immenso – quello che si usa di solito per tagliare la siepe – e, con una certa fatica, il papà riusci a tagliare via il pelo.
E per un po’ di tempo Andrea fu effettivamente come tutti gli altri bambini. Per quanto? Be’, ventiquattro ore circa. Minuto più, minuto meno. Potrei dirvi che per alcune persone essere normale come tutti gli altri per ventiquattro ore potrebbe essere una conquista di un certo peso, ma non ve lo dico. Cioè, ormai l’ho detto ma, insomma, fate finta di nulla.
Il fatto è che quell’enorme pelo il giorno dopo ricomparì magicamente. Non era semplicemente cresciuto molto velocemente: era proprio spuntato. Era venuto fuori dalla pelle di Andrea come i funghi vengono fuori dalla terra. Sì, perché anche i funghi spuntano dalla terra d’improvviso, proprio come il pelo di Andrea.
Capisco che possa sembrare una spiegazione un po’ circolare, ma mi affido alla vostra fiducia.
Non solo una volta i genitori di Andrea litigarono col suo enorme pelo: il secondo tentativo fu più brutale e tentarono di strapparlo a mani nude. Per farlo chiamarono perfino Gianni, un amico del papà che fa il carrozziere (e quindi era molto, molto forte). Gianni tenne infatti da dietro il povero Andrea, mentre la mamma e il papà tiravano come pazzi il pelo. Spingi che spingi, riuscirono a strapparglielo e quasi dal volo che fanno (con il pelo in mano) finiscono a ruzzolare giù dalle scale.
Immagino però abbiate già inteso per quanto Andrea rimase un bimbo normale. Dite per un giorno?
Esatto. Un giorno esatto. Minuto più, minuto meno.
Il terzo tentativo di sbarazzarsi del pelo superfluo (se avete un dubbio su cosa voglia dire “superfluo”, provate a chiedere a vostra mamma o a vostra sorella maggiore: – Ehi, come butta con i peli superflui? – e vi risponderanno a dovere. Dovere più, dovere meno) fu il più curioso: tentarono di bruciarlo, e quasi rischiarono di bruciare anche Andrea nel tentativo (prendere una nota da ricordare alla mamma: non bruciare peli superflui).
Così, dopo il terzo tentativo i genitori di Andrea si arresero. So che state pensando. Che non dovrebbero smettere, ma provare e riprovare fino a riuscire ad aiutarlo e a eliminare quel pelo per cui i compagni lo prendevano in giro ma, dopo quello che vi racconterò ora, cambierete idea.
Un giorno, mentre Andrea stava andando a scuola, preoccupato per le solite prese in giro dei compagni, quel pelo si rivelò molto meno superfluo del previsto. Andrea infatti, quando si accorse di essere in ritardo per la lezione, divenne distratto e accelerò il passo, per poi attraversare la strada senza guardare se arrivassero macchine: fu una cosa incredibile. A metà della strada Andrea venne investito e travolto da un enorme camion. Ci fu un gran botto, confusione, polvere e grida di alcuni passanti spaventati dalla scena. Andrea, però, non si era fatto nulla: il camion lo aveva colpito proprio sul pelo che rallentò prima l’impatto, poi gli fece da cuscino al momento della caduta: insomma, Andrea non si fece nulla di nulla e quasi non si accorse dell’incidente.
Quando arrivò a scuola i compagni non potevano più prenderlo in giro per quella sua anormalità: pensavano anzi che quel pelo rendesse Andrea come un eroe dei fumetti.

martedì 23 aprile 2013

Zaid



Il mondo e il buio

Sapete, un tempo il mondo era fatto solo di luce. Raggi luminosi scendevano dal cielo e accarezzavano ogni cosa,
dando ad ognuna un colore diverso. Qualcuno dice che è da questo fenomeno che nacque la parola uni-verso. Unico e diverso. E questa luce regnava senza rivali: la notte non esisteva, e neppure l'ombra. Neanche una piccola piccola, neanche di quelle che si sfilano dai bambini che volano.
Poi successe qualcosa di... misterioso e strano. Qualcosa di così misterioso che nessuno sa cosa sia. Ci studiarono sopra scienziati, professori, cervelloni, storici, ma nessuno ne venne a capo. Fatto sta che qualcosa successe e, dopo questa cosa, il mondo non fu più fatto di sola luce.
Da allora esistette anche il buio, l'ombra, la notte, e la luce ebbe una compagna.
Eppure gli uomini non erano affatto contenti di questa cosa. Volevano sfruttare il tempo ed il mondo anche di notte.  Varie menti, varie persone si ingegnarono quindi per rubare al buio la luce anche quando era notte.
Da qualche parte, un imprenditore (che qualcuno chiamava anche prenditore) inventò la dinamo: una bicicletta sulla quale si sale ma non si va da nessuna parte. Si girano i pedali, si suda come nelle normali biciclette, ma si sta fermi. Però faticando, sudando e facendo girare i pedali, si tenevano accese le lampadine, creando appunto la luce. Era una sorta di scambio, se volete: non ci si sposta, ma si fa luce. Il movimento in cambio delle lampadine accese.
Di questa invenzione, fu molto contento l'imprenditore, che poteva leggere il suo giornale anche di notte. Invece non fu per niente contento l'operaio che l'imprenditore mise sulla bicicletta (sempre quella che non si muove ma produce luce - la dinamo). Lui preferiva viaggiare, magari anche al buio. Tanto più che quando finiva di pedalare per far luce all'imprenditore, era talmente stanco che non si spostava più neanche di giorno.
Altrove, un gruppo di uomini, molto scontento dell'alternarsi della luce e del buio, decise di organizzare delle riunioni per trovare una soluzione, o almeno così pensavano. Avevano infatti organizzato delle importanti sedute dove, seduti su grossi tavoli di legno, parlavano tutto il giorno e tutta la notte di questa situazione. A dire il vero, non ne parlavano: se ne lamentavano. Erano veramente furibondi del fatto che il sole non ci fosse di notte.  Se ne lamentavano sempre, con una costanza incredibile: così tanto che non solo non riuscivano a trovare una soluzione, ma non riuscirono più a fare altro nemmeno quando la luce illuminava la terra.
In un altro posto ancora, un gruppo di donne reagì inizialmente nello stesso modo: organizzando delle riunioni per parlare del problema. Poco dopo però non ne vennero ad una, ed allora decisero che avrebbero usato il tempo "luminoso", detto anche giorno, per parlare, giocare, muoversi e così via. Di notte, invece, avrebbero semplicemente dormito. Inoltre, molte di loro tennero ancora delle riunioni, spesso organizzate da una donna di nome Samar: ma non cercavano più una soluzione a quella situazione, si raccontavano invece delle storie.
Nel nord del paese più a nord, invece si dice che un inventore, un cervellone, inventò una sorta di particolarissima pellicola, una plastichina trasparente che al buio si illuminava come per magia. Sarebbe stata una bella scoperta, ed una soluzione per molti, ma in realtà l'inventore ne era molto geloso, per cui la nascose in un posto segreto: non voleva che altri potessero scoprirla, utilizzarla o copiarla. Peccato che il posto fosse così segreto che neanche lui poteva usarla per illuminare la notte.
Infine, nel sud del paese più a sud, un bambino di nome Zaid si fece amico delle api, a loro chiese della cera e con quella ci costruì delle candele. Di notte, ancora adesso si diverte ad andare per il villaggio e condividere la sua fiamma con i suoi amici. Dovreste vedere la scena: uno spettacolo bellissimo. Quando viene il buio, si ritrovano tutti insieme, ognuno con il suo pezzettino di cera, poi Zaid accende la sua candela, ed avvicina la fiamma alla candela successiva. Il bambino o la persona di fianco, accende quella del suo vicino, e così via fino a che tutti non hanno la loro candela accesa.  Quando tutte le fiammelle danzano, allora si crea una specie di sole, fatto solo di cera e di luce, che brilla anche nel buio più profondo. Allora, quando vogliono, la notte è ancora giorno, come se ci fosse il sole.
Insomma, in tutta la natura fisica si verifica quello stesso volgarissimo fatto che se uno ha dieci soldi e ne spende cinque gliene restano solamente cinque e niente di più e di meno. Invece, se uno ha un'idea la può comunicare ad un milione di persone senza perderci nulla, e l'idea più si propaga più acquista forza ed efficienza.



In other way, in all the phisical nature, happening the same vulgar fact that if one have ten coins and spends five of them, he remained with just five. Nothing more, nothing less. Instead, if one have an idea, he can sharing it with milion of people without loss one cent, rather, the more is spreaded, the more it reinforces and improves.
Errico Malatesta, Pensiero e Volontà, 1 Luglio 1925.


You know, one time the world was made just of light. Beams of light got down from the sky stroking everything and giving to each one a different color. Someone says from this phenomenon was born the word "universe": Unique and different. Anyway, this light ruled without rivals: there was not night, and there was not shadow. Not even a very tiny, like those that run away from children who can fly.
After something happened. Something very strange and misterious. Something so enigmatic that no one could explains. Scientists, teachers, historians, brains, misfits but no one could understood. Anyway, after this... thing the word not was made just of light.
From that time, there was the dark too. And with it, night and shadow.
In one place one businnessman (that one can be called "borrower") invented a dynamo: a bike that goes nowhere. You turn the pedals, but you cannot move. In exchange, the dynamo makes light. Sweat for turn on the bulb light. The businnessman was very happy for this invention: he can read his newspaper in the night; not so happy was the worker, wich worked and sweated hard for the light, without move anywhere. How much as, in the day, when there was thelight he can not moves either, because he was too tired.
In other place, a group of men very sad for this situation (the dark) decided to organize some meetings for talk aboutt hat. But, to be honest, they didn't talk, they just complained and cannot reach an outcome. They lamented about their complaints. Anyway, I must say that they are very good in complaints: they took those meetings very seriously, as much that, neither in the day they stopped to talking and wasting their times, so in their minds were not sun either in day-long.
In one other place again, a group of women took the situation in the same way: organization of meetings, talking
searching a solution. But, after few days, they did not found a solution so took it easy: they speaks, plays and do
things in the day-long, and sleep in the night.
In the north of the northern country, there was a brilliant inventor that invented (pretty obvious) a magic and
special membrane that lights in the dark. But for pity this guy is very selfish, and very jealous about his idea, so
he hid the magic membrane and never sharing it to another.
At last, in the south of the southern country there was a children named Zaid that became friend of bees and, after asked them some wax, made many candle. In the night, he brings the candles in his village and sharing these to all his friends.
 Oh, that is really a very beautifull experience, you should see... In fact, in the night all the Zaid's
village mets, and formes a circle and the children lights his candle, then, he puts the flame on the wick of his
nearest friend's candle and this guy do the same thing... after few minutes, all the circle is bright and brilliant
and it stoles the light from the night, as like there was the sun at midnight.






lunedì 22 aprile 2013

Le giubbe degli spettri


Le giubbe degli spettri


1870


Era poco più che un ragazzo, poco più che un profeta. Un Paiute, di nome Tavibo. La prima volta che ebbe il sogno aveva le guance arrossate e le mani tremanti. Sorrideva con le lacrime agli occhi. Riempiva di colori le sue parole, di forme i suoi gesti.
Ed era così bello credergli: la terra si sarebbe arrotolata su se stessa come un tappeto, spazzando via gli ultimi tempi, gli ultimi anni. Il sangue e le sofferenze sarebbero stati cancellati, e così i visi pallidi. Le ultime ingiustizie sarebbero semplicemente scomparse.
Poi il tappeto si sarebbe nuovamente disteso: i nostri compagni indiani morti sarebbero tornati in vita e, con loro, i bisonti massacrati inutilmente. Saremmo rimasti sulla terra noi e loro, e avremmo ripreso a confrontarci, a vivere.
E non potevamo che crederci, dopo Little Bighorne e l'addio di Custer, massacratore di indiani. Ma poi vennero le sconfitte, e vennero le riserve.
Seguivamo le sue parole, ma non sapevamo ancora danzarle.

1890

Wowoka, il nostro nuovo profeta, un Lakota, riuscì a coniugare la danza del sole con il sogno, la profezia di Tavibo. Toro Basso e Orso Scalciante andarono a trovarlo, per vedere cosa stava succedendo. La sua danza stava diffondendosi ovunque, nelle riserve. Ancora, una speranza stava nascendo, e questa volta non annegava nell'alcol.  Galleggiava nel sudore della danza. Una danza che sapeva durare per quattro giorni e per quattro notti.
Ci prendevamo per mano, e pregavamo, danzando. E vedevamo i nostri morti tornare. I nostri bisonti correre  nuovamente nelle praterie. Il Messia ridarci la nostra terra. La chiamammo Wanagi Wachipi. La chiamarono danza degli spettri, ghost dance.
In quella danza, in quel cerchio, sentivamo che non tutto era finito. Che le invisibili mura delle riserve stavano per essere abbattute, che l'uomo pallido non era più il nostro dio.
Vestivamo tuniche leggere: delle giubbe adornate di stelle, di soli e di bisonti, ma spesso ognuno ci aggiungeva qualcosa di particolare, qualcosa di suo, per renderle uniche e speciali. Danzavamo con le nostre giubbe e le consacrammo alla profezia. Con quelle eravamo immortali. Wowoka diceva che quelle giubbe erano anti proiettile.

Ci credettero anche i visi palidi, e reagirono. Si spaventarono, per quanto solo uno stupido si spaventa per una danza. Per un bisogno di rinascere, di ritrovare un senso antico perduto tra ordini ed abitudini moderne, estranee, straniere. Eppure fu proprio questo a spaventarli: in quella danza, che portava il nome dei morti, trovammo un nuovo motivo per vivere. Ed è più difficile sottomettere chi vive.
A Standing Rock Toro Seduto fu interrogato su quella danza, quel movimento. Spiegava cos'era: una speranza. Un'altra forma della danza del sole. Ma non gli credettero, tentarono di arrestarlo, e ci lasciò la pelle. Se solo l'avesse indossata...
Ci arrivarono le voci della sua morte, e Piede Grosso volle partire, intuì che i militari ci avrebbero braccati, limitato ancora di più le nostre riserve, o forse ci avrebbero ammazzato con la scusa di un arresto.  Da Cheyenne River ci spostammo verso Pine Ridge. Piede Grosso voleva incontrarsi con Nuvola Rossa.
Faceva freddo e il fiume Porcupine era una lama di ghiaccio.  Uno di noi ricordò ad alta voce la profezia: in qualche luogo segreto  del torrente dormiva lo spirito inquieto di Cavallo Pazzo.  Era ancora inverno, ma con l'arrivo della primavera si sarebbe destato, guidando la rinascita dei nostri compagni. Sarebbero rinati come rinasce l'erba verde di primavera: emergendo da un velo di bianca sofferenza.
Lungo la strada fummo bloccati. Era il Settimo cavalleria, ma non avevamo paura, ci stavamo solo spostando all'interno delle riserve.  L'inquietudine cominciò a salire quando il Maggiore Samuel Whitside ci volle radunare tutti quanti. Eravamo al centro di una collina, controllati dai soldati, che stavano intorno e sopra di noi.
C'erano dei cannoni, degli Hotchkiss, a guardarci, ma Whitside non era un uomo feroce. Fece trasportare Piede Grosso in una carozza medica, perché durante il percorso aveva preso la polmonite. Al mattino seguente, venne il Colonello James W. Forsyth, e le cose cambiarono.

Era il mattino del 19 dicembre 1890. 


Li radunammo in quella collina. Non avevamo l'ordine di combattere. Solo di trasportarli a Pine Ridge, e capire quali fossero i loro sentimenti, dopo la morte di Toro Seduto. In quel periodo praticavano una strana danza. Ballavano ininterrottamente per giorni, ebbri del loro fumo e dei loro deliri. Quando finivano si riconoscevano a fatica, dopo tanto girare, e parlavano di tappeti, di ritorni, di bisonti. 
Il Colonello li chiamò a sé, uomini, donne e bambini. Li osservò attentamente, prima di ordinare loro di posare ogni arma. Ci fu della tensione, ma molti di loro obbedirono prima di fare un fiato. Qualche lamentela, ma tutto procedeva a dovere. Poi qualcosa accadde. 
Un uomo parlò di quella danza, di un fiume gelato e della primavera, e si tastò un lembo della giubba che indossava. Era semplice, di pelli e di cuoio. Adornata di stelle, soli e bisonti. 
Urlò che erano salvi. Che non avremmo potuto fargli nulla, che erano protetti. Levò un braccio, ed il fucile al cielo, quasi lo stesse chiamando, e scoppiò l'inferno. Forsyth ordinò il fuoco, e gli Hotchkiss risposero. Quel giorno morirono 120 uomini e 230 tra donne e bambini.

Si poteva leggere la sorpresa sulle loro facce gelate, quando il giorno dopo li contammo. 
Come se ad ucciderli fosse stata una speranza. Come se a sparare fosse stata una delusione.
Era d'inverno.
Era wounded knee.





martedì 2 aprile 2013

Che fare? In Vino Veritas...


Una vecchia amicizia...


Troppi amici, non abbastanza amicizia. Alphonse Karr

È una fredda notte d'inverno quando due amici di mezza età escono dal bar. I due amici si chiamano Jack e Alfred; il bar si chiama "In Vino Veritas", con tutte le lettere maiuscole. Anche oggi hanno bevuto parecchio. In fin dei conti, è un modo come un altro di vivere la loro vecchia amicizia. Per utilizzare una frase d'altri tempi, si può dire che si conoscevano da una vita.
Il nome del bar gli venne in mente quasi quindici anni prima, così, chiaccherando e bevendo aperitivi in un pub del centro. Sembrò loro assurdo che nessun locale avesse ancora utilizzato un nome del genere. Classico, divertente, ironico.
Era un periodo in cui i due - questione di mesi l'uno dall'altro - furono licenziati.
 Una congiura, disse Jack. Sfiga, disse Alfred.
Qualcuno direbbe una fortuna per entrambi: uno lavorava come operaio in una delle poche ditte in piena catena di montaggio ancora esistenti in zona, l'altro come impiegato in un ufficio di marketing generalista. Un posto dove la gente chiede di fare pubblicità ad un prodotto che fino al giorno prima non conosce nessuno.
Jack aveva le mani segnate, e la mente quasi del tutto corrotta al ritmo di quella catena. Dodici secondi per pezzo. Pausa ogni due ore per riposare le mani.
Ogni tre per andare a pisciare, e la mente focalizzata su tutto tranne che sul lavoro, troppo stupido per doverci pensare davvero.
Alfred aveva un capo di merda, si credeva il più grande creativo di questo mondo, generando slogan banali e terribilmente noiosi, di quelli che appena li senti non puoi fare a meno di cambiare pagina, o canale, o sito.
Così, quasi in sincronia, uno venne licenziato per scarso e basso senso del ritmo, l'altro probabilmente per arroganza. Entrambi si dichiaravano inadatti per sottostare a quelle vecchie regole, volevano essere indipendenti, avere qualcosa di loro; volevano aprire un'attività, e lo fecero.

All'inizio fu dura, dovettero fare orari assurdi, litigare con le fidanzate, fare dei debiti. Ma poi le cose migliorarono. Riuscirono a dare un certo stile al locale, e riuscirono a mantenerlo. I clienti a cui piaceva quello stile - un po' sobrio, amichevole, con un buon servizio e happy hour abbondante - ci tornavano con piacere.
«L'idea non deve essere di riempire il locale, ma di far tornare la gente che ti piacerebbe tornasse», era un po' lo slogan di Alfred. A suo modo aveva fatto tornare utile la sua esperienza di marketer.
Per Jack era la loro amicizia ad essere un bonus per i clienti. Inoltre, lui era molto veloce nel servizio, e nella preparazione dei cocktail, fin troppo. Ogni tanto Alfred doveva ricordargli che non era più in una catena di montaggio.
È davvero singolare come il passato sappia ripresentarsi nelle nostre vite in forme diverse. Anche quello di cui pensavamo esserci liberati.

Più tardi, anni più tardi dall'apertura del loro bar, scoprirono che, in realtà, quel nome, in vino veritas, era utilizzato un casino; solo, non nella loro piccola città di confine. Ma lo tennero comunque. Era un po' come dare un senso a quell'origine. Il giorno di nascita di quell'idea, di quel lavoro. La loro rivalsa, ed una nuova fase della loro amicizia.

Anche quella fredda sera d'inverno, chiusero la serranda del bar molto tardi. Un paio di clienti affezionati si erano fermati per fare una partita a poker con i baristi. Vinsero loro. Ma diciamocelo, avevano il vantaggio di aver bevuto un po' meno.
I clienti se ne andarono, Jack e Alfred si fecero un altro paio di bicchieri, sistemarono il bancone, ripulirono velocemente i tavoli, e chiusero.
Il vento era fresco e pungente, ma dopo tante ore di lavoro nel bar lo accolsero con piacere. Oltrepassarono lentamente un paio di negozietti, chiusi da ore, per raggiungere il parcheggio vicino, dove erano soliti lasciare la macchina.
Erano immersi nel silenzio, e non c'era un'anima viva in giro, ma arrivati nel parcheggio scorsero la figura di un uomo. Vestiva un impermeabile nero, elegante, ed un cappello a tesa larga, scuro, gli nascondeva in buona parte il volto. In mano, teneva una specie di bastone.
Quando lo alzò e lo puntò dritto contro di loro, fu con un brivido di terrore che Jack ed Alfred capirono che non era un bastone. Era un fucile.
Il tizio li fissa per un po'. Zitto. I due baristi si guardano, fanno un mezzo movimento, ma quando quello allunga il braccio, le canne dell'arma puntate contro, capiscono che non possono scappare.
Poi la voce dell'uomo esce dal bavero dell'impermeabile «Buonasera. Ora faremo un gioco. Ecco le vostre regole: vi lancerò una pistola, il primo che ammazza l'altro, se ne torna a casa con il cuore che batte nel petto.» La voce maschile, neutra, par come recitare una parte.
I due si guardano nuovamente, non capiscono. L'uomo li punta ancora con il fucile, fa un passo in avanti, frugando con la mano libera nella tasca dell'impermeabile. Tira fuori una vecchia pistola revolver, a tamburo, e la lancia in mezzo ai due.
Jack ed Alfred guardano quell'arma a terra, ma non si muovono. L'uomo sospira. «Non avete capito, se non vi muovete vi ammazzo entrambi.» Gelo. Tensione che cresce, poi Jack fa un gesto col mento all'amico, si butta a terra, prende la pistola, e la punta contro l'uomo. Spara.
Nulla. Tira il grilletto più volte, ma niente. Solo vari click meccanici, vuoti. Un ritmo che non ferisce, non uccide. Soffia solo aria.
L'uomo mostra un sorriso. Ma non sembra scherzare. Non sembra un gioco. Guarda Jack e spiega con calma «Non funziona così: se ci tieni davvero a vivere, punta la pistola al tuo amico, e spara. Lo uccido io per te.»
Alfred scuote la testa, incredulo. Jack impallidisce, ancora in ginocchio, per terra. Fissa la pistola come potesse caricarla solo guardandola, poi in uno scatto, la punta su Alfred, preme il grilletto. Click. Boom.
L'uomo spara, Alfred sgrana gli occhi, viene buttato a qualche metro di distanza. Piomba per terra come un sacco pesante, inerte. Morto, e con il petto sporco di sangue.
Jack guarda il suo amico, poi l'uomo, la pistola scarica ancora tra le mani. Incapace di capire. Lo sconosciuto scuote il capo. «Che anima indifferente. Gli hai sparato davvero. Io non l'avrei mai fatto, a un vero amico no.» Si volta, e si allontana. Jack piange senza riuscire a capire quando abbia iniziato. Guarda l'impermeabile allontanarsi, perdersi nella notte, prima di ributtarsi sul cadavere dell'amico, inumidendone il corpo di lacrime.









venerdì 22 marzo 2013

Due parole sull'editoria

Letture, libri, ebook



Non voglio scrivere qualcosa di pedante, lungo o saggistico sulla questione "come cambia l'uso la produzione e la fruizione del libro con le nuove tecnologie". Vado solo per punti, per spunti. Poi a chi legge.

Resteranno i libri o addio alla carta?

  Argomento già trattato ed abusato, che lascio a saggisti, uomini e donne del marketing, e i cosiddetti apocalittici e integrati. 
Sì, quelli che prima hanno rotto le scatole sulla televisione, poi sull'oggetto libro. 

Ma per quanto mi riguarda la loro controversia (semplificando), se esisterà ancora il libro cartaceo come lo conosciamo o meno, dopo l'evoluzione di internet, del computer, dei tablet, degli ereader etc. 
La risolvo facilmente: sì, esisterà. Il libro, per dirla alla Eco, è un oggetto immortale. Come la forchetta, come il cucchiaio. Puoi inventarti una macchina che sostituisca il carro, ma il cucchiaio - design diversificato a parte - esisterà sempre. 

Passaggio dalla carta al digitale: un male o un bene?

Nessuno dei due: è un'evoluzione. E nell'evoluzione ci sono cose benigne e cose maligne. Non necessariamente il più adatto (Darwin), è il migliore. Non necessariamente il prima estinto è il più grazioso (se ne vanno sempre i migliori). 

Un po' mi sorprendono, anche in ambienti teoricamente ben predisposti ai cambiamenti, gli anatemi contro i libri elettronici: "ah! Quale orrore! Si perde il tocco sulla carta, l'odore dei libri nuovi, la sensazione tattile di tenerlo in mano!".
E, per carità, il feticismo è una forma sensuale interessante, ma io, personalmente, i libri li leggo. Ne amo il contenuto, più che la copertina o l'estetica. Sia chiaro: io.
E magari qualcuno a suo tempo avrà bestemmiato contro Gutenberg per aver rovinato la nobile arte dei Codex.
Come in ogni cosa, ci sono vari partiti. Varie perversioni, varie correnti. 

Ci sono milioni di colori...

Però, però due o tre cosine cosa bisogna pure ammetterle: sono il primo a dire che un romanzo, letto magari al sole del mare, va da dio leggerlo in forma cartacea. Però:

1) se un avvocato abbisogna di portarsi dietro tre codici da qualche KG, qualche libro e via così, magari non gli è tanto scomodo un apparecchio che gli permetta di portarsi in valigia quella trentina di volumi che gli possono servire. 

2) ora, non me ne vogliano gli accademici  però per dire... quelli che vendono libri solo perché costringono i loro studenti a comprarli, quelli che li pubblicano solo per aumentare il proprio voto ai concorsi (e che leggono solo altri ricercatori) ... insomma, non potrebbero evitare almeno di massacrare inutilmente alberi? Un bel file (vendilo pure, per carità... se te lo comprano al mercato vero) e risparmi e fai risparmiare. 
Stesso discorso, per le tesi di laurea. Sì sì, è tanto bello avere il ricordo in "microfilm" (si usa ancora, davvero!) e in cartone satinato... però non so quale studente preferisca il cartone a risparmiare un... 25 euro a copia? 

3) L'editoria tradizionale, può essere una bella cosa. SE lavora bene. SE punta alla qualità del prodotto, e non solo a vendere. Se vuole anche trasferire idee, e non solo smerciare pagine. Se non vuole fregare gli autori (esistono case editrici  che fanno pagare 3000 euro agli aspiranti scrittori, magari promettendo una tiratura assai limitata), se vuole aiutare l'autore a rifinire i suoi lavori. Ma se, invece, vuole solo far soldi, pubblicare autori già famosi per altro (ed ahimè almeno in Italia è un costume tristemente diffuso). 

Ed a questo proposito, non pensate, è un malcostume vecchio e non sono italiano:

“Ho praticamente abbandonato l’idea di vendere i miei racconti pro­fessionalmente. I continui rifiuti di asini come Wright, pasticcioni co­me Clayton e mezzemaniche senza fantasia come quel tale Shiras, della Putnam’s, mi hanno quasi paralizzato e ridotto al silenzio: un silenzio impotente e disgustato. Quindi, qualche tempo fa ho preso la decisione di voltare le spalle a questa babilonia e tornare ai sistemi in vigore pri­ma del 1923, quando scrivevo spontaneamente e senza preoccuparmi del mercato, in modo non-professionale… L’ho anche scritto a Wright, perché ero arrivato al punto in cui, se non avessi ripudiato queste degra­danti esigenze commerciali, non sarei più riuscito a scrivere nemmeno un racconto, a onta di tutti i miei sforzi. Le cose stavano nei seguenti termini: respingere i bassi standard qualitativi delle riviste e le loro re­strizioni o restare con la lingua (la penna, nel mio caso) legata, almeno per quanto concerne la narrativa.
 Lovecraft




“I miei opera mixta, dopo sei anni di lavoro giornaliero, sono finiti, ma non riesco a trovare un editore… La mia disgrazia è spiacevole, ma non umiliante: proprio ora, infatti, i giornali annunciano che Lola Montez* si propone di scrivere le sue memorie e che le sono state sùbito offerti grandi somme dagli editori inglesi. Così sappiamo in quale situazione ci troviamo. Ma io non so veramente che cosa possa ancora fare e se i miei opera mixta siano destinati a diventare un’opera postuma”.

Arthur Schopenhauer



*Attrice, ballerina e amante di Re Luigi I di Baviera (prima metà 1800). In sostanza, una velina ante litteram.


4) Insomma, non solo per la fruizione, ma anche per la produzione\distribuzione\vendita, possono esserci altre vie. Anche per non vedere sempre e comunque le stesse facce nelle librerie, quasi volessero emulare i politici italiani, con dono della Bilocazione nelle lista elettorali delle varie città e regioni. Anche per non passare sempre e comunque dalla mediazione di qualcun altro. Anche qui, non è un male, non sempre. Ma uno sarà pur libero di far le cose da solo. 

Per ora termino qui. Anche però per dare una spintarella al mercato generale degli Ebook (sì, mi piacciono le nuove evoluzioni, le nuove strade e tentativi) in Italia non proprio diffusissimo (per ora), vi lascio un Link assai utile sulla comparazione degli Ereader. 

giovedì 28 febbraio 2013

La neve e la piazza

Per un sottofondo:


La neve e la piazza


In una piazza affollata, ma confusa, un giorno si incontrarono due vecchi volponi. Stavano su una sorta di piedistallo, non poi tanto giusto, ma oramai presente. Non tanto stabile, specie per la folla di sotto in confusione, ma loro sembravano star bene lì. Consapevoli o meno della loro situazione.

Entrambi avevano una bandiera. Dietro la bandiera, alcuni appunti: delle liste, cose da fare nel prossimo futuro e in quello meno prossimo.
Le bandiere erano belle, ogni volpone ci teneva tanto alla bandiera che portava.
Forse troppo.

Ma le bandiere erano anche brutte: perché, da una parte, nascondevano le parole incise dietro di loro. Dall'altra, erano così ampie che impedivano ai due volponi di vedere tutta la folla della piazza: confusa, ma ansiosa e speranzosa. Forse piena di difetti, ma sempre viva. E per chi non lo sapesse, ogni vita è irripetibile. Non è mai bello calpestarla, o ignorarla, solo perché ha fatto qualche errore. Perché è uno scrigno potenziale di cose che non torneranno più.

Quelle bandiere, non nascondevano solo le parole che avevano incise sul retro, e la folla che guardava i due volponi, ma non permettevano neppure ai due di guardarsi.

Così, i due volponi si guardavano le scarpe, senza veramente guardare la folla, né il proprio interlocutore. Avevano belle scarpe(anche se avevano qualche toppa, entrambe le paia). Ma non sapevano chi le avesse più belle. Così litigavano per quelle. Ognuno diceva che la folla si era radunata per vedere le sue scarpe. "Guarda quanta gente! Vengono per vedere le mie scarpe!" "Ma no! Vengono per vedere le mie!" "Ma allora sono stupidi, non capiscono niente, come si fa ad ammirare delle scarpe così!" "E' colpa tua, le tue sono scarpe fosforescenti e attirano gente, ma in realtà sono orribili! Sei un menzognero!""Ma sono così perché il tuo calzolaio, vent'anni fa, ha prodotto i materiali sbagliati. Troppo colorati, troppo farlocchi. Ci credo che è fallito, poi!" "Ma no, è colpa del tessitore che, 25 anni fa, ha intessuto la stoffa sbagliata, la pelle più brutta!"

E ovviamente continuarono così, per questa via.
La folla li guardava, senza sapere davvero che fare. E una folla non è mai una vera folla: è composta da tanti singoli individui. Per fortuna. Perché una persona, è irripetibile. Ma una folla, è una cosa che si ripete spesso: è così noiosa!

Qualcuno tra la folla scriveva dei piccoli bigliettini come dei post_it, di tanti colori diversi, poi li lasciava andare nel vento: fissava per un po' il suo bigliettino sperdersi nel cielo, poi non se ne curava più: per un attimo si concentravano sul piedistallo dei volponi, sul cielo stesso, poi tornava a far niente. Come se tracciare quel post-it fosse l'unica cosa che potesse mai fare.

Alcuni tra la folla urlavano che le scarpe del primo volpone erano talmente belle - come del resto la sua bella bandiera - che non era neanche il caso di fare un confronto, di discuterne. Altri si limitavano a insultare il secondo volpone perché aveva delle scarpe troppo nuove, non sapeva apprezzare le regole della moda. E certe cose, accipicchia, vanno rispettate. Altri ancora, arrivavano a dire che le scarpe del primo volpone erano brutte (o troppo piccole), per colpa delle scarpe del secondo volpone, che erano troppo appariscenti (o troppo grandi) e viceversa.
Altri ancora, quasi tremanti, puntavano il dito contro il piedistallo in mezzo alla piazza, dove stavano i due volponi, e facevano notare che se continuavano a litigare, sarebbe caduto e, per la cronaca, caduto sulla folla.
Altri ancora gridavano che quel piedistallo proprio non dovrebbe esserci.
Certi altri, ancora, urlavano che quel dannato piedistallo farebbe bene a cadere, ma possibilmente un po' più in là.


In tutto questo caos, come per aumentarlo (o forse no) arrivò una gelida bufera: era tremenda, spazzava via i pochi abiti della folla confusa, che si mise a tremare per il freddo. La neve scese a coprire i lustri e le statue della piazza, ed il vento scuoteva anche il piedistallo su cui stavano i due volponi.
Alcuni piansero, vedendo le statue nascoste nella neve: quella bellezza sprecata, perché nessuno poteva più vederla. Ma la maggior parte nemmeno se ne accorse. Pensava che l'unica cosa da guardare fosse quel piedistallo.

Allora la folla gridò ai due volponi che con quella bufera avrebbero fatto bene a decidersi, altrimenti sarebbero congelati tutti.

Alla fine, non si seppe bene come finì tutta questa strana storia.
Come sempre, in tutte le cose c'è una versione ufficiale, ed una ufficiosa. E di solito non si è mai d'accordo su quale sia quella ufficiosa, e quale sia quella ufficiale.

Qualcuno dice che alla fine la bufera divenne ancora più gelida, trasformò in statue di ghiaccio (immobili, ma ancora col pensiero del litigio nel cervello di brina) i due volponi, e sterminò gran parte della folla.
Qualcun altro dice che la bufera portò via le due bandiere. Le disperse nel vento. Ed allora, allora i due volponi furono costretti ad alzare lo sguardo dalle proprie scarpe: alzarono i visi e videro le scritte dietro alle bandiere.

Notarono che, oltre la parte anteriore, quelle bandiere portavano scritte, liste e progetti in parte simili. E allora smisero di litigare. Non son mica diventati amici, sarebbe una cosa un po' falsa. In fin dei conti erano volponi molto diversi, con bandiere diverse. Ma smisero di guardare solo la parte anteriore, di quella banidera, e cucirono, di volta in volta, le parole che si assomigliavano, a formare un racconto caldo, che potesse scaldare almeno un po', da quella tremenda bufera.

Altri ancora, dicono che invece ad un certo punto la folla se ne andò. E i due volponi rimasero a litigare e congelare sul loro piedistallo. E neanche si accorsero, di non avere più una bandiera, e che i loro piedi erano nudi.

martedì 26 febbraio 2013

Le lacrime di Montorfano



Montorfano. Perché Montorfano? Perché un tempo il monte, sì, quello che assomiglia un po'ad un brontosauro addormentato, un po' ad una tartaruga senza testa, era legato ai monti di Brunate. Un tempo. Poi litigarono. O forse fu un movimento terrestre. Una scossa. Una cosa così. E si separarono, da allora quel monte è un monte solo: un monte orfano. Tutto vero? Alle volte. Perché la verità è una cosa così. Un momento. È qualcosa che percepisci vera, essenziale, netta in un dato momento... come una crepa nel ghiaccio che poi viene ricoperta da una nuova notte di freddo. O un'increspatura nel lago che presto svanisce, per ricomporsi altrove, un poco più in là. Uguale e diversa. Tu di' una frase... ed aspetta che sia vera. Quando l'onda passa, sentirai il bisogno un'altra increspatura, e per un po' sarà più vera di prima. Per dire, Montorfano si chiama Montorfano perché è sempre stato solo. Guardava gli altri monti e si sentiva diverso, triste, malinconico. Tutti con la loro mamma, e lui abbandonato a sé stesso. Senza uno straccio di roccia per farsi compagnia, e per giocare con gli ululati del vento alla sera. Era immensamente triste. Così un giorno, quando dei bambini gli chiesero come mai era così giù, lui gli raccontò la sua verità: si sentiva terribilmente abbandonato. Inesorabilmente solo. E allora pianse, pianse, pianse. E le lacrime scesero giù come una sorgente, fino a scavare una conca nel terreno e riempirla dell'amarezza del monte. Allora i bambini cominciarono a gridare: "Basta, non piangere Monte. Guarda, guarda! Non sei più solo". Orfano guardò in basso, e vide che ai suoi piedi era sorto un altro monte. Un fratello gemello, del tutto uguale a lui. E allora monte sorrise. E in effetti, ancora oggi, se lo guardi dalla giusta prospettiva, nel momento giusto, riesci a vederne le labbra verdognole, ed una fila di denti azzurri, un po' increspati.