sabato 8 giugno 2013

Che fare? Un'accusa





Una Jeep Wrangler verde metallizzato corre a media velocità su una di quelle lunghe strade che esistono solo in America: troppo estese perché ci sia fila, troppo lunghe per vederne la fine, anche solo in forma di curva. Come fossero una retta: grigia e infinita, calpestata dall'asfalto e dai copertoni.
Oggi James Bradley la percorre senza fretta, godendosi la solitudine e l'umore del viaggio. Per qualche ora è come se non avesse meta, e stesse correndo semplicemente verso il tramonto che, dopo una breve pioggia, sta risalendo oltre quella retta d'asfalto, come nascesse dalla strada.
Di fianco a lui solo dei prati, qualche rado albero, quasi a non disturbare quella linea perfetta, quel viaggio calmo. Nella Jeep, cantano i Queen: Bohemian Rhapsody. Di tanto in tanto James batte la mano sul volante scuro del fuoristrada, ma il suo ritmo è ben più lento di quella melodia.
Vengono macinati ancora pochi kilometri, e il silenzio si spezza improvvisamente, come si spezza la solitudine: in lontananza delle luci azzurre sfarfallano e vorticano, accompagnate dal classico suono delle sirene spiegate: sono due macchine della polizia.
James guarda lo specchietto retrovisore e presto rallenta, quindi si accosta a lato della strada. La sua mente si domanda se abbia superato i limiti di velocità ma, no, era un viaggio calmo, senza fretta. Se la stava godendo. Forse le luci posteriori, o qualche problema con le gomme. Il tempo di spegnere il lettore CD, e le due macchine lo raggiungono: una sterza di colpo, fermandosi davanti alla Jeep di James perpendicolarmente, proprio davanti, come ad impedirgli una possibile fuga. L'altra si blocca col muso dietro al culo del Wrangler, a bloccarlo. Circondarlo.
Sembra non passare neanche un secondo, e dalle macchine escono quattro uomini della polizia: uno punta un fucile contro al parabrezza, due sembrano accucciarsi dietro le loro macchine, forse armati. L'ultimo si avvicina alla porta del guidatore.
James non capisce, si allarma, il cuore batte a mille.
«Esci dall'auto, mani sopra la testa!»
L'ordine è secco, perentorio: James obbedisce. Zoppica fuori confuso. È un uomo sulla quarantina, con una zazzera folta ma curata di barba e capelli castani, fisico medio. Indosso Jeans e camicia cachi.
«Sei in Arresto, voltati e mani dietro, niente scherzi.» Urla l'agente più vicino, mentre l'altro gli punta ancora il fucile contro. James non capisce, sgrana gli occhi e domanda «Ma che... ci deve essere un errore, che diavolo avrei fatto?» Nessuna risposta. Nessun capo d'accusa. Un attimo di esitazione e l'agente più vicino gli tira un pugno violento in faccia. James geme e sente il sapore ferroso del sangue in bocca. Quello basta per farlo voltare, petto contro la carrozzeria: viene subito perquisito e gli vengono messe le manette. Un secondo ancora in cui il dolore al viso e il verde della Jeep diventano una cosa sola, poi qualcosa scende sulle guance: tutto è buio. Si ritrova seduto su qualcosa che parte, rapido: senza un perché, senza una meta, ma qui non c'è nulla da godere.

James si ritrova in una piccola stanza, umida e sciapa. Non ci sono finestre, solo la luce fioca di una piccola lampada pendente dal centro del soffitto. Fissa la porta di ferro che ha davanti a sé. Non ha la minima idea di dove sia né perché. Urla, ma nessuno gli risponde. Sbatte del colpi contro le pareti, ma vanamente. Non sa da quanto tempo sia lì.
Continua a urlare, solo, fino a quando non gli si secca la gola e dentro non ha che una domanda ininterrotta, e ininterrottamente senza risposta. Il tempo sembra scorrere infinito in quello spazio così ristretto: sembra come rimpicciolirsi in ogni momento. La sua voce cerca risposte che non trova, mentre la sua mente pone solo continue domande. Stanco e spaventato, si poggia alla parete, e guarda in alto come potesse trovare una soluzione divina ai suoi dubbi – forse – terreni.
E solo allora che s'accorge dell'altoparlante in un angolo del soffitto.
Il tempo di assottigliare gli occhi, e ne esce una voce vagamente metallica: «James Bradley, sai perché sei qui?»
James si alza, tocca le pareti, scuote il capo «No!»
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
James tira qualche calcio, bestemmia. «Fatemi uscire! Che cazzo ci faccio qui?»
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
Bradley si mette le mani nei capelli, si lascia cadere sul pavimento, non risponde.
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
«Fanculo! Io non ho fatto niente, niente, niente. Cosa volete?»
Dall'altoparlante esce un rumore acutissimo e terribile, risuona per quella stanza e s'insinua pesante nelle orecchie, i timpani sembrano squagliarsi: James è costretto a rintanarsi a terra con le mani sulle tempie.

Quattro uomini abbandonano quelle macchine esagerate e pompose davanti al cartongesso di un gran magazzino rivestito a garage. Scendono e si complimentano tra loro, qualche risata, quando uno di loro tira fuori il cellulare dai pantaloni: risponde e sembra stupito. Fissa gli altri «Ehi, ci vogliono per un lavoro. Pagano da Dio.»

James è ora a gattoni sul pavimento di quella stanza umida e buia. Non sa quanto tempo sia passato, lì dentro. Ne ha perso ogni conto, forse ha perso i sensi: nella cella ora ha una bottiglietta d'acqua senza etichetta, e un panino semplice: prosciutto e formaggio.
Ma non cerca nutrimento, cerca risposte. Resta parecchio in silenzio, il tempo non è che una distensione dell'anima, e in quel momento la sua suona come una corta di violino scordato.
Dal nulla, l'altoparlante risuona nuovamente: «Lo sai cosa hai fatto James?»
Non risponde, è seduto, ora, le mani sulla testa, scuote il capo.
«Tu lo sai. Tu lo sai.»


I quattro uomini si ritrovano davanti ad una scrivania in ciliegio di uno studio lussuoso. Uno di loro chiede a chi c'è dinanzi loro «È uno scherzo, vero?».
«No, sono soldi» del fumo circola sui quattro uomini. Fumo di sigaro.

James piange, ora steso per terra, quasi rantolante, rannicchiato su se stesso come cercasse conforto nel ritrovarsi stretto al suo proprio corpo. Probabile che stia davvero cercando una colpa. Una giustificazione a tutto questo. Una colpa è comunque una causa: senza una causa, senza nessun perché, sarebbe insostenibile. Una voce senza labbra, un'onda senza mare, una punizione senza delitto.

Altoparlante: «Ti dichiari colpevole?»
Silenzio.
Silenzio.
Silenzio.

Poi la fragilità si fa umana, la corda si spezza, e l'uomo balbetta e singhiozza «Sì, sì... sì» .
Silenzio. Forse un minuto, forse solo qualche secondo: un'eternità incolmabile.
L'altoparlante risuona ancora, meno meccanico, più lento: «Bene. Bravo, James. Ora che lo sai, puoi andare» .
Silenzio.
James si guarda attorno stralunato. La porta di ferro della stanza che lo rinchiudeva si apre in uno stridulo opaco. Aspetta senza sapere cosa aspettarsi, poi esce. Cammina debolmente, insicuro di ogni suo passo, di ogni sua scelta, se mai ne ha avuta una. Rivede infiniti frammenti caotici della sua vita passata mentre segue un lungo corridoio illuminato da luci al neon, fino a raggiungere una porta che, aperta, lo conduce all'esterno: la luce del giorno gli ferisce gli occhi, ma è solo un momento. Quando la vista riprende il suo lavoro riconosce un parcheggio che conosce di vista. O qualcosa gli ricorda. Non è molto lontano da dove è stato “preso”, chissà quando.
Si volta torcendo il collo: l'edificio in cui è stato fino ad ora sembra solo una palestra, che forse ha già visto, passando in macchina.

Fa per riavvicinarsi, dare un altro occhio all'interno, ma la porta si chiude e risuona su se stessa. Rimane immobile lì davanti qualche istante, poi si allontana; vede la sua Jeep verde metallizzata parcheggiata poco più in là; ci sale, resta fermo, respira, respira, riparte.

Nella cella, e forse in altre risonanze sconosciute, l'altoparlante parla di nuovo: «Tutti siamo colpevoli. Questo è certo. Ma di cosa?»

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