Una Jeep Wrangler verde metallizzato
corre a media velocità su una di quelle lunghe strade che esistono
solo in America: troppo estese perché ci sia fila, troppo lunghe per
vederne la fine, anche solo in forma di curva. Come fossero una
retta: grigia e infinita, calpestata dall'asfalto e dai copertoni.
Oggi James Bradley la percorre senza
fretta, godendosi la solitudine e l'umore del viaggio. Per qualche
ora è come se non avesse meta, e stesse correndo semplicemente verso
il tramonto che, dopo una breve pioggia, sta risalendo oltre quella
retta d'asfalto, come nascesse dalla strada.
Di fianco a lui solo dei prati, qualche
rado albero, quasi a non disturbare quella linea perfetta, quel
viaggio calmo. Nella Jeep, cantano i Queen:
Bohemian Rhapsody. Di tanto in tanto James batte la mano sul volante
scuro del fuoristrada, ma il suo ritmo è ben più lento di quella
melodia.
Vengono macinati
ancora pochi kilometri, e il silenzio si spezza improvvisamente, come
si spezza la solitudine: in lontananza delle luci azzurre sfarfallano
e vorticano, accompagnate dal classico suono delle sirene spiegate:
sono due macchine della polizia.
James guarda lo
specchietto retrovisore e presto rallenta, quindi si accosta a lato
della strada. La sua mente si domanda se abbia superato i limiti di
velocità ma, no, era un viaggio calmo, senza fretta. Se la stava
godendo. Forse le luci posteriori, o qualche problema con le gomme.
Il tempo di spegnere il lettore CD, e le due macchine lo raggiungono:
una sterza di colpo, fermandosi davanti alla Jeep di James
perpendicolarmente, proprio davanti, come ad impedirgli una possibile
fuga. L'altra si blocca col muso dietro al culo del Wrangler, a
bloccarlo. Circondarlo.
Sembra non passare
neanche un secondo, e dalle macchine escono quattro uomini della
polizia: uno punta un fucile contro al parabrezza, due sembrano
accucciarsi dietro le loro macchine, forse armati. L'ultimo si
avvicina alla porta del guidatore.
James non capisce,
si allarma, il cuore batte a mille.
«Esci dall'auto,
mani sopra la testa!»
L'ordine è secco,
perentorio: James obbedisce. Zoppica fuori confuso. È un uomo sulla
quarantina, con una zazzera folta ma curata di barba e capelli
castani, fisico medio. Indosso Jeans e camicia cachi.
«Sei in Arresto,
voltati e mani dietro, niente scherzi.» Urla l'agente più vicino,
mentre l'altro gli punta ancora il fucile contro. James non capisce,
sgrana gli occhi e domanda «Ma che... ci deve essere un errore, che
diavolo avrei fatto?» Nessuna risposta. Nessun capo d'accusa. Un
attimo di esitazione e l'agente più vicino gli tira un pugno
violento in faccia. James geme e sente il sapore ferroso del sangue
in bocca. Quello basta per farlo voltare, petto contro la
carrozzeria: viene subito perquisito e gli vengono messe le manette.
Un secondo ancora in cui il dolore al viso e il verde della Jeep
diventano una cosa sola, poi qualcosa scende sulle guance: tutto è
buio. Si ritrova seduto su qualcosa che parte, rapido: senza un
perché, senza una meta, ma qui non c'è nulla da godere.
James si ritrova in una piccola stanza,
umida e sciapa. Non ci sono finestre, solo la luce fioca di una
piccola lampada pendente dal centro del soffitto. Fissa la porta di
ferro che ha davanti a sé. Non ha la minima idea di dove sia né
perché. Urla, ma nessuno gli risponde. Sbatte del colpi contro le
pareti, ma vanamente. Non sa da quanto tempo sia lì.
Continua a urlare, solo, fino a quando
non gli si secca la gola e dentro non ha che una domanda
ininterrotta, e ininterrottamente senza risposta. Il tempo sembra
scorrere infinito in quello spazio così ristretto: sembra come
rimpicciolirsi in ogni momento. La sua voce cerca risposte che non
trova, mentre la sua mente pone solo continue domande. Stanco e
spaventato, si poggia alla parete, e guarda in alto come potesse
trovare una soluzione divina ai suoi dubbi – forse – terreni.
E solo allora che s'accorge
dell'altoparlante in un angolo del soffitto.
Il tempo di assottigliare gli occhi, e
ne esce una voce vagamente metallica: «James Bradley, sai perché
sei qui?»
James si alza, tocca le pareti, scuote
il capo «No!»
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
James tira qualche calcio, bestemmia.
«Fatemi uscire! Che cazzo ci faccio qui?»
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
Bradley si mette le mani nei capelli,
si lascia cadere sul pavimento, non risponde.
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
«Fanculo! Io non ho fatto niente,
niente, niente. Cosa volete?»
Dall'altoparlante
esce un rumore acutissimo e terribile, risuona per quella stanza e
s'insinua pesante nelle orecchie, i timpani sembrano squagliarsi:
James è costretto a rintanarsi a terra con le mani sulle tempie.
Quattro uomini abbandonano quelle
macchine esagerate e pompose davanti al cartongesso di un gran
magazzino rivestito a garage. Scendono e si complimentano tra loro,
qualche risata, quando uno di loro tira fuori il cellulare dai
pantaloni: risponde e sembra stupito. Fissa gli altri «Ehi, ci
vogliono per un lavoro. Pagano da Dio.»
James è ora a gattoni sul pavimento
di quella stanza umida e buia. Non sa quanto tempo sia passato, lì
dentro. Ne ha perso ogni conto, forse ha perso i sensi: nella cella
ora ha una bottiglietta d'acqua senza etichetta, e un panino
semplice: prosciutto e formaggio.
Ma non cerca nutrimento, cerca
risposte. Resta parecchio in silenzio, il tempo non è che una
distensione dell'anima, e in quel momento la sua suona come una corta
di violino scordato.
Dal nulla, l'altoparlante risuona
nuovamente: «Lo sai cosa hai fatto James?»
Non risponde, è seduto, ora, le mani
sulla testa, scuote il capo.
«Tu lo sai. Tu lo sai.»
I quattro uomini si ritrovano
davanti ad una scrivania in ciliegio di uno studio lussuoso. Uno di
loro chiede a chi c'è dinanzi loro «È uno scherzo, vero?».
«No, sono soldi» del fumo circola
sui quattro uomini. Fumo di sigaro.
James piange, ora steso per terra,
quasi rantolante, rannicchiato su se stesso come cercasse conforto
nel ritrovarsi stretto al suo proprio corpo. Probabile che stia
davvero cercando una colpa. Una giustificazione a tutto questo. Una
colpa è comunque una causa: senza una causa, senza nessun perché,
sarebbe insostenibile. Una voce senza labbra, un'onda senza mare, una
punizione senza delitto.
Altoparlante: «Ti dichiari colpevole?»
Silenzio.
Silenzio.
Silenzio.
Poi la fragilità si fa umana, la corda
si spezza, e l'uomo balbetta e singhiozza «Sì, sì... sì» .
Silenzio. Forse un minuto, forse solo
qualche secondo: un'eternità incolmabile.
L'altoparlante risuona ancora, meno
meccanico, più lento: «Bene. Bravo, James. Ora che lo sai, puoi
andare» .
Silenzio.
James si guarda attorno stralunato. La
porta di ferro della stanza che lo rinchiudeva si apre in uno
stridulo opaco. Aspetta senza sapere cosa aspettarsi, poi esce.
Cammina debolmente, insicuro di ogni suo passo, di ogni sua scelta,
se mai ne ha avuta una. Rivede infiniti frammenti caotici della sua
vita passata mentre segue un lungo corridoio illuminato da luci al
neon, fino a raggiungere una porta che, aperta, lo conduce
all'esterno: la luce del giorno gli ferisce gli occhi, ma è solo un
momento. Quando la vista riprende il suo lavoro riconosce un
parcheggio che conosce di vista. O qualcosa gli ricorda. Non è molto
lontano da dove è stato “preso”, chissà quando.
Si volta torcendo il collo: l'edificio
in cui è stato fino ad ora sembra solo una palestra, che forse ha
già visto, passando in macchina.
Fa per
riavvicinarsi, dare un altro occhio all'interno, ma la porta si
chiude e risuona su se stessa. Rimane immobile lì davanti qualche
istante, poi si allontana; vede la sua Jeep verde metallizzata
parcheggiata poco più in là; ci sale, resta fermo, respira,
respira, riparte.
Nella cella, e forse in altre risonanze
sconosciute, l'altoparlante parla di
nuovo: «Tutti siamo colpevoli. Questo è certo. Ma di cosa?»
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