mercoledì 31 marzo 2021

Più o meno una borraccia

 


Un alto cilindro di plastica viola che scivola nell'azzurro

e poi nel verde.

In cima, ha un tappo nero provvisto di chiusura ermetica.

C'è anche una sicura: basta alzare la levetta di plastica per evitare perdite improvvise.

Appena sotto il tappo, una coroncina di stoffa verde forma un piccolo nastro per poter prendere la borraccia anche da quel cordino.

Lungo la costa laterale, una scritta sottile, quasi fusa con la trasparenza colorata del rivestimento plastico indica la marca: "New Water" e quasi sembra volersi confondere con l'acqua che contiene.

Sempre presso la superficie, di lato, vi sono delle tacchette che segnano sia la quantità volumetrica del liquido sia il tempo, in ore. Antimeridiane e postmeridiane.

Il quantitativo in acqua è segnato in once (OZ), unità di misura a me misteriosa ma che, lo dice wikipedia, dovrebbe essere pari a circa 30 ml.

Più interessante è l'orario: serve a mettere in relazione il livello dell'acqua e il tempo della giornata.

Io mi fido della borraccia e del suo tappo ermetico, ma lei non si fida di me. Mi ricorda, infatti, quanto devo bere e a che ora. Ma non basta: sul fondo mi ordina di riempirla quando l'acqua raggiunge quel livello.

A pensarci, non mi sembra un rapporto paritario: in fondo, anche tu, cara e fedele borraccia, nonostante il nastrino, il tappo ermetico e la leva di sicurezza, hai avuto le tue incertezze.

Ti ricordi quella volta che bagnato la sua giacca nuova, sul sedile posteriore della macchina, quando eravamo in gita ed io non sapevo come scusarmi?

In fondo, quello era il tempo in cui io e lei stavamo imparando a conoscerci e, saltando le tappe, guardandoci negli occhi stavamo imparando ad amarci.

Per fortuna, quella giornata fu così bella che nessuno ebbe davvero il coraggio di lamentarsi di un po' d'acqua rovesciata sulla giacca nuova: ecco, quando la vita è bella, è più facile perdonare.

Anzi, la memoria e il buon umore riesce perfino - con il tempo che diventa ricordo - a trasformare un fastidio in un sorriso piacevole. Alle volte, perfino una tragedia può far sorridere, e non per forza bisogna vergognarsene.

Quasi, cara borraccia, mi viene da ringraziarti, per quell'errore.

E tu? Lo so, sono un tipo disordinato e scostante; spesso mi dimentico le cose e mi perdo facilmente ma, forse, un giorno anche tu saprai ridere dei miei difetti e delle mie numerose mancanze...

Tornando al tuo errore: non era un'occasione da poco; eppure, non me la sono presa con te al punto da ricordarti ogni santo giorno cosa devi fare (o non devi) e a che ora!

In fin dei conti, insieme stiamo capendo che il mondo lo puoi vedere come qualcosa da provare, qualcosa da riempire tappa per tappa, ogni cosa al suo giusto momento, senza mai sgarrare; oppure, puoi bere tutto di un fiato e scombinare i tempi; scoprire - perfino - che se anche qualcosa non va come dovrebbe, anche se qualcosa si rovescia... be', in fondo, poco male: è solo un po' d'acqua; è solo una borraccia.  


mercoledì 17 marzo 2021

Prima di ripartire




Prima di ripartire

Finito il lavoro mi siedo in macchina.

Aspetto ad accenderla: guardo solo davanti a me.

Non ho la forza di ripartire

così sto fermo e, tra le luci dell'orologio

e del contachilometri

cerco di trovare un senso alle ore spese lì dentro.

Alcune macchine di alcuni colleghi partono,

si allontanano dal parcheggio.

Non ci riesco.

Rimango a contare i respiri e trattenere le lacrime.

Stringo il volante e mi chiedo: "Che ci faccio qui?"

Chiudo gli occhi per dieci secondi e accendo la macchina.

Prendo il telefono dalla giacca e, non so perché,

ascolto la tua voce registrata.

Alzo gli occhi oltre al parabrezza e lo vedo.

Nel prato del parcheggio,

un grosso uccello di cui non saprei dire il nome.

Ha un piumaggio grigio e blu, e un bel becco arancione.

Sembra sereno.

Forse cerca qualche briciola in quel granello di prato,

nel parcheggio, tra i posti auto.

La radio si accende sull'ultima traccia.

Abbina uno sfondo perfetto alla tua voce

mentre quell'uccello blu e grigio zampetta,

tranquillo, intorno alla mia macchina.

Sorrido e aspetto ancora...

Qualche altro secondo...

Prima di togliere il freno a mano e mettere in prima.

Posso andare.

Ora posso andare.  


martedì 9 marzo 2021

Quale mondo vuoi?




 Un piccolo frammento di vita (più o meno immaginaria) che mi è arrivato da questa canzone di Laura Shigihara (e relativo gioco - Rakuen): 

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[Parco della betulla, Esterno Giorno, Sole. ]

Nel parco c'erano tanti alberi, ed anche laghetti, piccoli ponticelli, qualche giostra e più di un'altalena, ma soprattutto alberi. E uno di questi, era decisamente particolare: più particolare di tutti. Stava vicino alla grande villa neoclassica a poche centinaia di metri dall'ingresso principale del parco, ed era un'enorme betulla piangente. No, non un salice, proprio una betulla, con tanti di quei rami che scendevano fino a toccare terra... tanto da creare una specie di tenda, anzi, un vero e proprio salone naturale. Ci si poteva entrare e nascondere, senza neanche bisogno di stare rannicchiati o abbassare la testa. Per la verità, era talmente grande, lì sotto, che ci poteva stare una dozzina di persone, e c'erano perfino due panchine. Belle e bianche: come il tronco della betulla.


A volte la gente entrava sotto quei folti rami come si entra aprendo le tende, o in quei vecchi negozi dove molteplici fili di perline fanno da porta: bisogna stringere le mani per infilarle in una piccola sezione (tra un filo di perline e l'altro, o tra un ramo piangente e l'altro) e poi aprire le braccia, per allargare il varco ed entrare dentro in quella sorta di salone da ballo naturale, che era anche una specie di grande rifugio. Basta quindi fare un singolo passo e la cascata di perline (o di rami) si chiude dentro di te, facendoti quasi entrare in un altro mondo. Da fuori, non riuscivi davvero a vedere quello che c'era dentro.


A volte, non c'era niente di davvero interessante da vedere, ma un pomeriggio, quel pomeriggio, qualcosa di importante successe davvero. Ecco cosa.


Due ragazzini erano seduti per terra, vicino ad una panchina, bianca e bella, come la betulla dentro la quale erano nascosti. Uno aveva i capelli biondissimi, l'altro, rossicci. Uno era un poco più alto e magro, l'altro portava gli occhiali, ma si assomigliavano proprio tanto. Del resto, entrambi assomigliavano proprio tanto alla donna dai capelli chiari ed i grandi occhiali circolari seduta sulla panchina. Questa di tanto in tanto guardava i due ragazzi, ma perlopiù sembrava fissare il vuoto. O meglio, quella specie di muro naturale che i rami della betulla costruivano.


Ai piedi dei due ragazzi c'era un po' di tutto: ghiande, castagne, sassolini colorate e qualche foglia dalla forma interessante. Forse anche qualche cartaccia ed altro che avevano trovato e recuperato passeggiando per il parco.


I due bambini pescavano tra quelle cianfrusaglie, ne prendevano una e la mostravano all'altro, poi creavano una storia, o un mondo.


Per esempio, il rosso prendeva un sassolino bianco con al centro una sfumatura di blu e diceva: «Questo è un mondo fatto quasi interamente di sabbia bianchissima. Al centro c'è un enorme lago azzurrissimo e, almeno una volta nella vita, tutti gli abitanti delle sabbie bianche vanno a vedere il lago azzurro: un lago bellissimo e anche magico, perché ci si può respirare dentro e, forse anche per questo, non è abitato da pesci, ma da gatti, scoiattoli e cagnolini che ci nuotano dentro, fin nelle sue profondità».


Allora l'altro ragazzino prendeva una foglia verde verde e molto piatta e diceva qualcosa come: «Questo mondo è una nave gigantesca che vola nel vuoto. Una nave verdissima e fatta interamente di piante e liane, con alberi da frutta, orti e caramelle che crescono dal terreno. Ci si organizzano feste danzanti e canti lunghissimi. Continuamente, mentre la nave - quel mondo verdissimo - se ne va a spasso per il vuoto, quasi fosse un mare tutto nero, senza dentro niente».


Ancora, il rosso prese in mano un piccolo ombrello da cocktail, tutto rosso, e spiegò che quello era un mondo sempre all'ombra: perché stava sempre sotto un enorme ombrello, più grande di tutti i paesi del mondo. Era un bel mondo perché lì potevi rifugiarti quando il sole picchiava troppo, ma anche quando avevi bisogno di nasconderti: l'ombra ti dava, in qualche modo, la sensazione di protezione che cercavi.


Oppure, ancora, l'altro ragazzino prendeva in mano una ghianda con un buco dentro, e parlava di un mondo dove quasi tutto era dentro un'enorme caverna, con stalagmiti e stalagtiti fosforescenti e coloratissime. Questa caverna era talmente grande da contenere laghi, oceani, e perfino mondi con dentro grandi parchi dove si potevano trovare betulle piangenti abbastanza grandi da celare, sotto i suoi rami, delle sale da ballo, o almeno da pranzo.


La fantasia di questi ragazzi, che si scambiavano i loro mondi, come altri si scambiano le figurine, destò quel pomeriggio l'attenzione di due singolari personaggi.


Uno era un tipo molto alto, con un bel cappello rossiccio che lo faceva sembrare ancora più alto. Aveva degli strani braccialetti fosforescenti ed elettronici sul polso e se ne stava con un album da disegno appeso ad un leggio ed una tavolozza di colori davanti, e un pennello in mano. Era, ovviamente, un pittore, e stava disegnando qualcosa che quei due giovani avevano evocato. Non tanto lontano da lui, seduto sull'altra panchina sotto la grande betulla piangente, c'era un tizio con un bel pizzetto nero e gli occhiali da sole. Leggeva un enorme giornale ingiallito, ma spesso alzava lo sguardo castano verso i ragazzi, o verso l'artista, specie quando sentì quest'ultimo parlare.


Il pittore, infatti, dopo aver sentito il bizzarro gioco dei ragazzi, fece loro i complimenti e gli mostrò quanto aveva disegnato: una versione dei bambini da adulti, molto caratterizzata. Il biondo era dipinto come un esploratore. Lo si capiva dalle mappe che aveva in mano, il cannocchiale al collo, e la bussola nel taschino. Il ragazzino coi capelli rossi era rappresentato - sicuramente - come uno scrittore. Nel disegno aveva degli occhiali con la montatura a tartaruga e le dita sottili su una vecchia macchina da scrivere.


Il pittore, con un gran sorriso, incitava i ragazzi quando li vide curiosi e stupiti dalla sua opera. «Vedete, ragazzi, mi avete dato ispirazione per creare questo disegno. Per ringraziarvi, voglio ricordarvi che, se ci metterete tanto impegno, potrete diventare qualsiasi cosa! Nella vita, non importa cosa vi dicano gli altri, potete realizzare qualsiasi sogno, basta...» stava per andare avanti con ardore, quando il signore, alzando lo sguardo da sopra il giornale ingiallito, lo interruppe. «Non dovrebbe illuderli a quel modo».


«Prego?»


«Questo mondo è difficile e complesso, ed ovviamente la maggior parte della gente finirà a fare lavori umili e che non ha scelto. Solo pochissimi potranno davvero realizzare i propri sogni, e in un certo senso è giusto così: abbiamo bisogno di chi fa il pane, chi sta alla cassa e chi raccoglie pomodori molto di più di chi dipinge o esplora nuovi territori».


Il pittore rimase stupito da tanto cinismo. «Eppure, io credo che non bisogna mai arrendersi. Se si sa quello che si vuole, si può raggiungere, con impegno e dedizione, qualsiasi obiettivo. La vita non è solo quello che ci accade».


«Mi sembra piuttosto crudele come concezione».


«Ma come! Sono io quello che sta alimentando i loro sogni. Sono io quello che crede nella speranza e nell'impegno, lei sta dicendo a questi poveri ragazzi che il mondo è impietoso ed ingiusto».


«Veramente ho solo detto che non mi sembra il caso di alimentare false speranze. Inoltre, non c'è niente di male nello svolgere un lavoro semplice o meccanico... ed... ecco, nel suo discorso io vedo una grande cattiveria: parla di impegno e dedizione, di come bastino questi due elementi ad ottenere qualsiasi cosa. Alla fine il rischio è che chi per sfortuna o caso non riuscisse a realizzare i propri scopi non solo dovrebbe sentirsi frustrato per il mancato successo, ma dovrebbe perfino sentirsi in colpa: perché sarebbe solo di peso da loro, e non dalle circostanze avverse. Non sta facendo davvero un favore a questi due simpatici marmocchi».


Il pittore sembrava scandalizzato. «E quindi non dovrebero neanche tentare? O dovrebbero già credere che sia tutto una questione di fortuna o sfortuna? A volte questa è solo una scusa per non tentare! Se non si crede davvero in se stessi, si dà sempre la colpa a qualcosa di esterno. Si crede che se non si è riusciti in qualcosa è solo perché non si è stati capiti, e le circostanze sono state avverse: si rischia di essere dei falliti credendo di essere dei giganti, ma senza mai provarlo. É questo quello che vorrebbe, per questi due figlioli?»


«Io veramente dicevo solo che dovrebbero abbassare le aspettative: si vive molto meglio, se non ci si aspetta mai granché dalla vita. Si rischia meno di vivere di illusioni o di farsi fregare».


«Credo davvero che questo sia un terribile insegnamento da dare!»


Il signore con il giornale alzò le spalle, poi guardò verso la signora con i grandi occhiali rotondi dietro ai ragazzi, che sembrava aver ascoltato tutto il loro discorso, pur senza dire una parola. Era ovvio che fosse la loro madre. «E lei, signora, che cosa ne pensa?»


La mamma dei bambini - lo era effettivamente - guardò alternativamente i due signori, il pittore e l'uomo con il giornale. Se ne stette in silenzio per un bel po', come pensandoci sopra. Quindi sorrise, di un sorriso largo e aperto, ma strano, ad occhi più larghi degli occhiali grandi. Sorrise senza pensieri, senza futuro e senza passato. Poi, senza dire una parola, cercò qualcosa nella tasca, fino a trovarlo: un vivacissimo naso rosso. Se lo mise sul suo vero naso, coprendolo interamente. Poi, dalla borsa che aveva accanto, tirò fuori una sciarpa lunghissima e colorata, con la quale si avvolse il collo e le spalle e, infine, sempre dalla borsa, tirò fuori una banana. Se la portò all'orecchio e, alzandosi, cominciò a parlare, come fosse al telefono, ma in una lingua incomprensibile: «Aaaaaah, gherisbei, poten-damoi nucaratan, socheleman, dossemas, nipirmas doche!» e continuava, continuava come un fiume in piena, con parole che né il pittore né l'uomo con il giornale potevano afferrare: si limitarono a guardare la scena della signora con il naso rosso e la banana come telefono che se ne andava fuori dalla betulla piangente, mentre i due ragazzini, ridacchiando, la seguivano. Lasciarono i due uomini stralunati e confusi, per una volta senza parole. Tutti e tre teatralmente marciando, non come avanzano i soldati, non come strisciano i paurosi, ma come inciampano i clown.

mercoledì 3 marzo 2021

Basta abituarsi




 Non pensavo di arrivare a scriverti una lettera, ma credo che ormai sia necessario. Non sono del resto un amante della tecnologia e della sua velocità, sebbene di tanto in tanto, come tutti, e come sai, la ritenga utile. Non c'è però paragone con l'utilizzo della carta e dell'inchiostro: il vecchio gesto manuale ha tutto un altro fascino, tutto un altro tempo. Quello che ci passa per la testa si colora delle nostre emozioni, e quelle vibrazioni si trasmettono attraverso l'atto della scrittura manuale. Neanche la dimensione è secondaria: c'è un motivo per cui in un momento la nostra grafia tende ad essere più piccola, ed a volte più grande. C'è più di un motivo per cui la nostra mano diviene più tremula o più salda. Come ci sono delle cause nella fluidità della nostra scrittura, o negli errori che commettiamo. I font e le sottili differenziazioni preimpostate del computer non riescono davvero a riprodurre tutti questi intrecci tra la mente, la mano ed il cuore.

Anche la fatica ed il dolore al polso hanno il loro significato: lo sforzo ci costringe a considerare il sacrificio e l'importanza dei nostri gesti. Un diverso quantitativo di impegno ci costringe a selezionare: decidere quale filtro adoperare per riordinare il caos del mondo. Scegliere cosa fare entrare, decidere cosa far uscire.

La lentezza ci costringe a pensare, e scegliere.

Io scelgo te.

Ci conosciamo da un po', e credo tu abbia ormai capito…

E' tanto difficile ammetterlo, vero?

Mi chiedo quale sia stata la prima volta in cui ci sei davvero arrivato. E' stato quando ci siamo visti al parco? Ricordi quanto abbiamo corso per inseguire quel tuo cane: non pensavi si sarebbe mai più fermato…

Oppure quando, così sorpreso, mi hai incontrato fuori dall'ospedale. Ci sono poche cose che possono allontanare i problemi e riscaldare i cuori come una cioccolata calda quando fuori piove. O come quando la solitudine si spezza improvvisamente, quando il deserto ormai sembrava infinito.

O, ancora, è successo quando abbiamo bevuto quell'orribile liquore all'uovo al rifugio di montagna? Oppure quando eri ancora un ragazzino e ti chiedevi cosa poteva essere reale, e cosa frutto della tua fervida immaginazione?

La verità è che io so perfettamente quando è successo. Quando hai realizzato quello che non vuoi ammettere. Non hai bisogno di dirlo a parole: non hai neppure bisogno di rispondere a questa mia lettera. Rileggila ancora, e quando finisce l'inchiostro, ripetilo solo nella tua mente: è proprio così. È proprio così.


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Me lo ricordo come se fosse oggi. Ero solo un ragazzino e mi ero rotto una gamba per una caduta in moto. La frattura era multipla e dovetti fare un'operazione per rimetterla in sesto. All'ospedale ero in stanza con un signore sulla quarantina che pensavo fosse muto: quando ero entrato dopo l'operazione non mi aveva neppure salutato, ma continuava a star seduto e leggere la Bibbia. Aveva capelli nerissimi ed un pizzetto a punta, molto preciso. Sulla mano sinistra aveva un tatuaggio che emulava un anello completamente nero.

Durante tutto il giorno non disse una sola parola, e pensai che fosse meglio così, almeno potevo riposare e non sbattermi per impegnarmi ad intavolare una discussione di circostanza con un tizio sconosciuto. Tanto più che in ospedale si finisce sempre per parlare delle solite cose: tipo quanto stai male e che medicine prendi, o come ci diavolo sei finito in quel letto.

Di notte però, mi svegliarono i suoi singhiozzi, o quelli che credevo tali. Mi voltai verso il suo letto, e vidi le sue coperte tremare, così come la sua nuca corvina. Dopo un certo imbarazzo, gli chiesi se stava bene, e lui mi disse di no, ma senza specificare. Tornò a dissentire quando gli chiesi se aveva bisogno di un dottore.

Siccome i singhiozzi continuavano, mi tirai su sulla gamba sana, stampelle alla mano, e mi avvicinai al suo letto. Gli chiesi se potevo fare qualcosa: solo allora si girò, e solo allora mi accorsi che non stava piangendo. Non aveva gli occhi rossi né segni in faccia, l'espressione era tranquilla, e sulle labbra aveva la piega sinistra di un sorriso malsano. Ricordo perfettamente cosa mi disse.

«A volte le persone ci lasciano. Decidono di lasciarci e ci lasciano sole, dobbiamo abituarci.»

Lo disse con un'enfasi strana, e qualcosa dentro di me si mosse. Dovetti fare appello a tutte le mie forze per rispondergli: «Non è che lo scelgono. Magari sono costrette, non lo decid...»

«C'è sempre un'altra possibilità, Luca. Anche tuo padre aveva scelta. Solo che ha deciso di occuparsi di altri, invece che di te. Questione di priorità. Questione di scelte.»

Mi irrigidii di colpo: poteva sapere il mio nome perché forse un medico o un'infermiera l'aveva pronunciato, anche se non mi sembrava; ma come sapeva di mio padre?

«Smettila. È il suo lavoro, quello di aiutare le persone»

«Anche tu sei una persona. Eppure... tuo padre se n'è andato scegliendo altre persone, lasciandoti qui, solo.»

«Che cosa stai dicendo?!» urlai. «Ti diverti a prendermi in giro?»

«Sono l'unico che non ti prende in giro, Luca, verifica tu stesso. Tuo padre se n'è andato. Ora hai la tua occasione di diventare più forte, più...»

«Ti ho detto di Smetterla!» intimai. Ma lui rise. Rise così forte che non riuscì a controllarmi: lo presi per il colletto del camice da paziente, rischiando di cadere, scrollandolo con forza. Ma qualcosa nel suo sguardo, o la mia rabbia, mi portarono a lasciarlo.

Aveva smesso di ridere, ma sul suo volto era ancora appeso un sorriso indecifrabile, ma sporco. I suoi occhi nerissimi mi sembravano spilli acuminati, e per qualche secondo fui preso da una sensazione che non avevo il coraggio di confessare. Se l'avessi fatto, mi dicevo, mi sarei perduto. O forse quello strano tipo mi avrebbe ucciso, anche se per ora non mi aveva neanche sfiorato. Non con le mani.

Mi allontanai di un paio di metri saltellando, guardandomi intorno. Confuso.

Di colpo ebbi paura. Cercai il telefono nel cassetto e, riprese le stampelle, uscii dalla stanza. Chiamai mio padre, ma non rispose. Sapevo che stava aiutando a portare i soccorsi in una casa, dopo il terremoto. Non era il suo turno, ma era rimasto, per non perdere tempo prezioso. Non poteva venire alla mia operazione...

L'ansia cominciò a pomparmi nelle vene scivolando, gelida, fin dentro al cuore. Come faceva quel tipo a sapere di mio padre? Perché mi aveva detto quelle cose? E… perché mio padre non era tornato da me, sapeva che mi ero fatto male. Anche io avevo bisogno di lui…

I tentativi di chiamarlo si vanificarono. Senza sapere perché zoppicai fino alla fine del corridoio, dove era ancora accesa la TV. Strano a quell'ora. Stava andando in onda un'edizione speciale del notiziario. C'erano almeno quattro pazienti, un paio di infermieri e un dottore a guardarlo.

Durante la notte era successa una tragedia: il complesso dove lavorava mio padre per soccorrere le vittime del terremoto era crollato, sommergendo l'intera squadra sotto le macerie.

Chiamai mia madre, e quando finalmente mi rispose mi disse che aveva visto ma non sapeva nulla ancora, neanche se lui stesse ancora lavorando, o se fosse ancora vivo: bisognava confidare. Lui aveva tirato fuori da lì molte persone. Ora qualcuno tirerà fuori lui, diceva.

Volevo fidarmi di lei, ma le parole del mio compagno di stanza avevano insinuato il dubbio e lo sconforto nella mia testa.

Tornai quasi di corsa - stampelle permettendo - nella mia stanza, ma era vuota. Anche il suo comodino era vuoto e lindo, ed il letto sembrava fatto: era scappato?

Chiesi all'infermiera cosa fosse successo, e mi rispose che in realtà ero solo da tutto il giorno. Forse gli antidolorifici o l'anestesia mi avevano confuso le idee e lo avevo sognato.

Ma io sapevo di non aver sognato.

I giorni seguenti li passai ancora in ospedale, perché dopo quelle domande il dottore non si fidava a lasciarmi andare, anche se l'operazione alla gamba era andata bene.

Continuavano a dirmi che ero sempre stato da solo in stanza. In un certo senso era la stessa cosa che continuava a dirmi lui.

Il giorno dopo quello strano evento, altri uomini della protezione civile e dei vigili del fuoco cercarono nelle macerie del complesso dove mio padre stava lavorando, e poi per altri due giorni, ma nessuno sopravvisse a quel crollo.

Mio padre era morto, ed io non sapevo se essere più triste per la sua mancanza, o più arrabbiato per la sua scelta: avrebbe potuto essere ancora qui…

Ma ha deciso di andarsene. Ha deciso di non restare e di lasciarmi solo. Tutti lo fanno. Devo solo abituarmi.

Solo abituarmi.