mercoledì 19 giugno 2013

Che fare? Di una breve discussione

Sulla virtù


La virtù è più perseguitata dai tristi che amata dai buoni. 
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605/15
Le virtù si perdono nell'interesse come i fiumi nel mare.
François de La Rochefoucauld, Massime, 1678 


La luce del sole del tramonto sembra adagiarsi al suolo, mentre filtra dalle grandi finestre dello studio: cade sulle tende bianche e leggere,  cade sul tavolo di ciliegio fra i due uomini intenti a parlare, e rende visibile la trasparenza del sigaro il cui fumo nutre d'un aroma dolceamaro quella stanza.

«Così tu non credi alle buone intenzioni della gente»fa Arthur mentre spegna il sigaro nel portacenere di marmo.

«Non saprei. Dico che la mente umana è troppo profonda  e troppo poco conosciuta per essere sicuri delle nostre azioni in qualunque caso.»

«Ma prima dicevi che se un uomo è fedele, per esempio, lo è solo perché non ha la possibilità di nutrire la propria infedeltà…. Magari non è abbastanza bello, magari non ha l'occasione di conoscere molte donne...
E che, magari, uno rispetta la povera gente solo perché povero, ma se fosse ricco sarebbe peggio di quelli di cui parla sempre male.. .» guardò per qualche istante fuori dalla finestra, come se il tramonto potesse aiutare quella discussione, così meno astratta di quanto il cielo stesso potrebbe pensare.
«Quindi non credi alle buone intenzioni della gente: seguono principi morali per la scarsezza dei mezzi e non per la ricchezza dei fini» concluse Arthur, come a voler mettere un punto fermo nella sua analisi dei pensieri dell'altro uomo.

«Non lo dico con certezza. Dico che è probabile che le convinzioni vacillino quando si cambiano i contorni: tutto può sfumare fino ad un grado indefinito. Quello che mi interessa è provare, non teorizzare. Sono esperimenti: io concedo loro possibilità, ed osservo come vengono sfruttate.»

«E di solito ne abusano?»  chiede, interessato, Arthur.

L'altro sorride – «Fino al midollo...»

Per una donna la bruttezza è già metà della strada verso la virtù.
Heinrich Heine, Letzte Gedichte und Gedanken, 1869 (postumo)

Altre "Puntate":

http://cavastorie.blogspot.it/2013/04/che-fare-in-vino-veritas.html

http://cavastorie.blogspot.it/2013/06/che-fare-unaccusa.html


giovedì 13 giugno 2013

La pozzanghera


La pozzanghera

 




Era appena finito il temporale, quando l'arcobaleno comparse nel cielo di quella grigia cittadina. Era ancora presto, ed il primo ad accorgersi della pozzanghera vicino al condominio fu il gatto-unicorno. Non era davvero un gatto-unicorno, ma sembrava: era completamente bianco, ma aveva un cornino nero sulla fronte, proprio in corrispondenza di un ciuffetto folto di pelo, come un corno scuro su un foglio bianco.
Il gatto-unicorno guardò dentro la pozzanghera, ma non vedeva né il suo riflesso, né quello dell'arcobaleno: l'acqua era troppo grigia, troppo scura, per riflettere il mondo: tratteneva troppo sporcizia. Non la si poteva neanche bere: si rischiava di venire contagiati da qualche malattia. Così, il gatto-unicorno pianse. Non si limitò a miagolare più forte e più acuto, come fanno i gatti normali che piangono. Ok, non era davvero un gatto-unicorno, ma qualcosa di singolare e speciale lo aveva davvero: piangeva proprio con lacrime umide e salate, come potrebbe piangere un bambino.
Così si allontanò, non di molto in verità: si nascose in un cespuglio vicino, e fisso là pozzanghera, per vedere cosa sarebbe successo, perché succede sempre qualcosa.

Infatti, il gatto-unicorno si accorse proprio di una piccola processione raggiungere la pozzanghera.
Il primo ad arrivare fu un uomo d'affari, appena uscito dal condominio. Lo si riconosceva subito: aveva un giacchettino a maniche lunghe, nonostante fosse estate e, dopo il temporale, non facesse freddo. Nella destra portava una valigetta scura, di pelle, di quelle che certi adulti chiamano “ventiquattrore” : perché ci mettono dentro quello che proprio non riescono a lasciare a casa, anche se stanno via molto meno di ventiquattro ore, che poi è un giorno intero. Peraltro, dimenticano sempre qualcosa, forse perché di quel qualcosa non si sono ancora liberati. Per quello se ne dimenticano.
Ad ogni modo, l'uomo d'affari camminò vispo, rapido, con tanta fretta di arrivare al lavoro: uno di quei lavori che tutto sommato non si sanno mai ben definire, ma dove – certamente – il tempo è denaro.
Si fermò alla pozzanghera, e rischiò quasi di finirci dentro con i suoi bei mocassini di pelle nera. Fissò l'acqua sporca, e cominciò ad agitare la ventiquattrore con dentro le sue belle cose. Era arrabbiato, furente, urlò qualcosa del genere (ma dovreste chiedere al gatto-unicorno per i dettagli) «Non si può davvero andare avanti così! Ma che razza di mondo è mai diventato questo! Qualcuno dovrebbe intervenire! Il sindaco, gli spazzini, possibile che vada tutto in malora? Non c'è più rispetto!» e cose di questo genere. Sbraitò per parecchi minuti, sventolando la sua preziosa ventiquattrore, poi se ne andò. Forse al lavoro, che il tempo è denaro.

La seconda ad accorgersi della pozzanghera, fu una donna dai capelli rossi rossi rossi e ricci ricci ricci: indossava un gonnone di quelli lunghi e colorati (che il gatto-unicorno definirebbe Hippie, ma chiedete a lui o a un altro adulto cosa intenda, io non saprei). Non era una donna giovane, ma era bella: anche perché aveva un bambino piccolo piccolo piccolo in braccio, che dormiva e sorrideva. Ora immagino che avrete le vostre contestazioni da fare: ma allora anche lui si accorse della pozzanghera? No, lui dormiva, quindi non la vide. Al massimo, la sognò. Ma c'è di meglio che sognare di una pozzanghera. E come faceva il bambino a sorridere e dormire insieme? Be', molto spesso accade: si sogna qualcosa, e si sorride. E no, non c'è bisogno di svegliarsi per sorridere. Anzi, a volte bisogna sognare per riuscire ancora a farlo.
Sia come sia, la donna, che possiamo chiamare ormai anche mamma, saltò semplicemente la pozzanghera, senza curarsene più di tanto. No, non si bagnò la gonna, né il bambino si svegliò. Fu un salto agile, bello.

Il terzo che si accorse (o incrociò) la pozzanghera fu un bambino biondo. Aveva pantaloncini corti e rossi, ed una maglia tutta colorata (non so esattamente i colori, chiedete in caso al gatto-unicorno, se proprio vi interessa, ma non è tanto importante, non credo). Appena si accorse della pozzanghera, ci saltò dentro a piedi uniti, bagnandosi e sporcandosi tutti. Ci mise dentro anche le mani, schizzò qualche passante, e poi corse via, per non rischiare di prenderle o venire sgridato.
Si può dire che neppure si accorse di quanto fosse sporca la pozzanghera. Del resto quello non è un lavoro per tutti.

Poco dopo, arrivò una bambina: aveva una gonna azzurra, ed una camiciola bianca. Boccoli scuri, e degli occhialetti verdi sul nasino. Dapprima guardò la pozzanghera con fare curioso, perplesso, forse: stette ferma ferma, a controllarla. Poi se ne andò, e tornò con ben due secchi di plastica (uno bianco, ed uno rosso, se siete degli appassionati dei dettagli): uno dei due secchi era vuoto, l'altro era pieno d'acqua pulita e brillante.
E, come avrete oramai intuito da soli (vero?) la bambina svuotò l'acqua sporca della pozzanghera con l'aiuto del secchio vuoto, poi la riempì con l'acqua pulita e brillante del secondo secchio.
Insomma, aveva cambiato l'acqua e pulito la pozzanghera! Annuì soddisfatta, e se ne andò.

Subito dopo, il gatto-unicorno tornò sui suoi passi: uscì dal suo nascondiglio (dal cespuglio) e raggiunse la pozzanghera: aveva smesso di piangere. Ora sorrideva felice (sì, il gatto-unicorno sorride come un bambino, più o meno). Si guardò dentro la pozzanghera, che ora rifletteva sia lui sia l'arcobaleno che ancora balenava (del resto cosa può fare un arcobaleno?) nel cielo.
Quindi bevve un po' d'acqua, quanto bastò per dissetarsi, e se ne andò.

sabato 8 giugno 2013

Che fare? Un'accusa





Una Jeep Wrangler verde metallizzato corre a media velocità su una di quelle lunghe strade che esistono solo in America: troppo estese perché ci sia fila, troppo lunghe per vederne la fine, anche solo in forma di curva. Come fossero una retta: grigia e infinita, calpestata dall'asfalto e dai copertoni.
Oggi James Bradley la percorre senza fretta, godendosi la solitudine e l'umore del viaggio. Per qualche ora è come se non avesse meta, e stesse correndo semplicemente verso il tramonto che, dopo una breve pioggia, sta risalendo oltre quella retta d'asfalto, come nascesse dalla strada.
Di fianco a lui solo dei prati, qualche rado albero, quasi a non disturbare quella linea perfetta, quel viaggio calmo. Nella Jeep, cantano i Queen: Bohemian Rhapsody. Di tanto in tanto James batte la mano sul volante scuro del fuoristrada, ma il suo ritmo è ben più lento di quella melodia.
Vengono macinati ancora pochi kilometri, e il silenzio si spezza improvvisamente, come si spezza la solitudine: in lontananza delle luci azzurre sfarfallano e vorticano, accompagnate dal classico suono delle sirene spiegate: sono due macchine della polizia.
James guarda lo specchietto retrovisore e presto rallenta, quindi si accosta a lato della strada. La sua mente si domanda se abbia superato i limiti di velocità ma, no, era un viaggio calmo, senza fretta. Se la stava godendo. Forse le luci posteriori, o qualche problema con le gomme. Il tempo di spegnere il lettore CD, e le due macchine lo raggiungono: una sterza di colpo, fermandosi davanti alla Jeep di James perpendicolarmente, proprio davanti, come ad impedirgli una possibile fuga. L'altra si blocca col muso dietro al culo del Wrangler, a bloccarlo. Circondarlo.
Sembra non passare neanche un secondo, e dalle macchine escono quattro uomini della polizia: uno punta un fucile contro al parabrezza, due sembrano accucciarsi dietro le loro macchine, forse armati. L'ultimo si avvicina alla porta del guidatore.
James non capisce, si allarma, il cuore batte a mille.
«Esci dall'auto, mani sopra la testa!»
L'ordine è secco, perentorio: James obbedisce. Zoppica fuori confuso. È un uomo sulla quarantina, con una zazzera folta ma curata di barba e capelli castani, fisico medio. Indosso Jeans e camicia cachi.
«Sei in Arresto, voltati e mani dietro, niente scherzi.» Urla l'agente più vicino, mentre l'altro gli punta ancora il fucile contro. James non capisce, sgrana gli occhi e domanda «Ma che... ci deve essere un errore, che diavolo avrei fatto?» Nessuna risposta. Nessun capo d'accusa. Un attimo di esitazione e l'agente più vicino gli tira un pugno violento in faccia. James geme e sente il sapore ferroso del sangue in bocca. Quello basta per farlo voltare, petto contro la carrozzeria: viene subito perquisito e gli vengono messe le manette. Un secondo ancora in cui il dolore al viso e il verde della Jeep diventano una cosa sola, poi qualcosa scende sulle guance: tutto è buio. Si ritrova seduto su qualcosa che parte, rapido: senza un perché, senza una meta, ma qui non c'è nulla da godere.

James si ritrova in una piccola stanza, umida e sciapa. Non ci sono finestre, solo la luce fioca di una piccola lampada pendente dal centro del soffitto. Fissa la porta di ferro che ha davanti a sé. Non ha la minima idea di dove sia né perché. Urla, ma nessuno gli risponde. Sbatte del colpi contro le pareti, ma vanamente. Non sa da quanto tempo sia lì.
Continua a urlare, solo, fino a quando non gli si secca la gola e dentro non ha che una domanda ininterrotta, e ininterrottamente senza risposta. Il tempo sembra scorrere infinito in quello spazio così ristretto: sembra come rimpicciolirsi in ogni momento. La sua voce cerca risposte che non trova, mentre la sua mente pone solo continue domande. Stanco e spaventato, si poggia alla parete, e guarda in alto come potesse trovare una soluzione divina ai suoi dubbi – forse – terreni.
E solo allora che s'accorge dell'altoparlante in un angolo del soffitto.
Il tempo di assottigliare gli occhi, e ne esce una voce vagamente metallica: «James Bradley, sai perché sei qui?»
James si alza, tocca le pareti, scuote il capo «No!»
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
James tira qualche calcio, bestemmia. «Fatemi uscire! Che cazzo ci faccio qui?»
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
Bradley si mette le mani nei capelli, si lascia cadere sul pavimento, non risponde.
«Ti dichiari colpevole o innocente?»
«Fanculo! Io non ho fatto niente, niente, niente. Cosa volete?»
Dall'altoparlante esce un rumore acutissimo e terribile, risuona per quella stanza e s'insinua pesante nelle orecchie, i timpani sembrano squagliarsi: James è costretto a rintanarsi a terra con le mani sulle tempie.

Quattro uomini abbandonano quelle macchine esagerate e pompose davanti al cartongesso di un gran magazzino rivestito a garage. Scendono e si complimentano tra loro, qualche risata, quando uno di loro tira fuori il cellulare dai pantaloni: risponde e sembra stupito. Fissa gli altri «Ehi, ci vogliono per un lavoro. Pagano da Dio.»

James è ora a gattoni sul pavimento di quella stanza umida e buia. Non sa quanto tempo sia passato, lì dentro. Ne ha perso ogni conto, forse ha perso i sensi: nella cella ora ha una bottiglietta d'acqua senza etichetta, e un panino semplice: prosciutto e formaggio.
Ma non cerca nutrimento, cerca risposte. Resta parecchio in silenzio, il tempo non è che una distensione dell'anima, e in quel momento la sua suona come una corta di violino scordato.
Dal nulla, l'altoparlante risuona nuovamente: «Lo sai cosa hai fatto James?»
Non risponde, è seduto, ora, le mani sulla testa, scuote il capo.
«Tu lo sai. Tu lo sai.»


I quattro uomini si ritrovano davanti ad una scrivania in ciliegio di uno studio lussuoso. Uno di loro chiede a chi c'è dinanzi loro «È uno scherzo, vero?».
«No, sono soldi» del fumo circola sui quattro uomini. Fumo di sigaro.

James piange, ora steso per terra, quasi rantolante, rannicchiato su se stesso come cercasse conforto nel ritrovarsi stretto al suo proprio corpo. Probabile che stia davvero cercando una colpa. Una giustificazione a tutto questo. Una colpa è comunque una causa: senza una causa, senza nessun perché, sarebbe insostenibile. Una voce senza labbra, un'onda senza mare, una punizione senza delitto.

Altoparlante: «Ti dichiari colpevole?»
Silenzio.
Silenzio.
Silenzio.

Poi la fragilità si fa umana, la corda si spezza, e l'uomo balbetta e singhiozza «Sì, sì... sì» .
Silenzio. Forse un minuto, forse solo qualche secondo: un'eternità incolmabile.
L'altoparlante risuona ancora, meno meccanico, più lento: «Bene. Bravo, James. Ora che lo sai, puoi andare» .
Silenzio.
James si guarda attorno stralunato. La porta di ferro della stanza che lo rinchiudeva si apre in uno stridulo opaco. Aspetta senza sapere cosa aspettarsi, poi esce. Cammina debolmente, insicuro di ogni suo passo, di ogni sua scelta, se mai ne ha avuta una. Rivede infiniti frammenti caotici della sua vita passata mentre segue un lungo corridoio illuminato da luci al neon, fino a raggiungere una porta che, aperta, lo conduce all'esterno: la luce del giorno gli ferisce gli occhi, ma è solo un momento. Quando la vista riprende il suo lavoro riconosce un parcheggio che conosce di vista. O qualcosa gli ricorda. Non è molto lontano da dove è stato “preso”, chissà quando.
Si volta torcendo il collo: l'edificio in cui è stato fino ad ora sembra solo una palestra, che forse ha già visto, passando in macchina.

Fa per riavvicinarsi, dare un altro occhio all'interno, ma la porta si chiude e risuona su se stessa. Rimane immobile lì davanti qualche istante, poi si allontana; vede la sua Jeep verde metallizzata parcheggiata poco più in là; ci sale, resta fermo, respira, respira, riparte.

Nella cella, e forse in altre risonanze sconosciute, l'altoparlante parla di nuovo: «Tutti siamo colpevoli. Questo è certo. Ma di cosa?»