"Me matan si no trabajo, y si
trabajo me matan",
Daniel Viglietti, cantautore
uruguaiano.
Lavoro.
Il termine deriva etimologicamente da
"laborare", che significa all'incirca "vacillare sotto
un peso gravoso". Aggiungiamo anche "labor": fatica.
Stesso significato troviamo nel tedesco
"arbeit". Che indica oltre alla "fatica", il
"compito", il "turno" e il "travaglio".
Travaglio che ci porta direttamente
allo spagnolo "trabajo", che denota il "lavoro"
come la "corvé", "l'occupazione", la "sgobbata"
e il "travaglio" appunto. Questa espressione (assieme al
portoghese "trabalho" e al catalano "treball" -
il quale ha un suo senso anche nel dialetto comasco...) a sua volta
deriva dal latino "tripalium": una tortura medievale e
forse anche romana alla quale venivano sottoposti gli schiavi.
Consisteva nel legarli a tre pali, probabilmente due a croce ed uno
posto in verticale, e dare fuoco alla struttura.
Nel linguaggio moderno i tedeschi
precisano poi l'ambito dal quale il lavoro deriva. Meglio,
distinguono chi lo compie e chi lo offre: "Arbeitgeber"denota
il datore di lavoro (non più "padrone", per carità...)
laddove "Arbeitnehmer" indica il "prenditore del
lavoro". Insomma, colui che non solo si prende il salario, ma
anche il lavoro: che scroccone!
Evidentemente la lingua deve adattarsi
alla nuova retorica dominante.
«In
fondo, (...) si sente oggi che il lavoro come tale costituisce, la
migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire
validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del
desiderio di indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran
quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo
scervellarsi, sognare, al preoccuparsi, all'amare, all'odiare».
Friedrich
Nietzsche, "Aurora" 1881
Etimologie e dizionari a parte, è
interessante notare come il termine "lavoro" si stia
incredibilmente allargando, astraendosi da qualsiasi contesto
concreto. Al mattino si dice "vado al lavoro", non certo
vado a rispondere alle telefonate di quelli che chiameranno al call
center, o a tingere i nuovi filati di quella ditta di cui non ricordo
il nome... Forse perché, in fondo, non è importante quel che
faccio. E' importante che sia occupato. Che scacci efficacemente
l'ozio, la pigrizia, il tempo libero....
Tempo libero. Non è un'espressione
stupenda? Non assomiglia tanto all'ora d'aria del carcerato? Libero
da che? Non certo dal consumismo obbligato che rivela la seconda
faccia del lavoro. La sua premessa e la sua conclusione. Del resto,
se ci fate caso, il termine "lavoro" sta entrando anche in
ambiti che con la sfera specifica del lavoro non hanno niente a che
fare. Mi è capitato di sentire di gente che va da qualche analista
per fare un "lavoro sui sogni", o mi è capitato di
"lavorare ad un racconto", qualcuno va perfino in palestra
sostenendo di "lavorare sul proprio benessere".
Spesso anche quando si fa qualche
attività d'interesse, ma non redditizia e non legata ad un salario
concreto (dal fare un corso di teatro, al curare un blog, al gestire
un sito personale o ludico... ) si parla di lavoro. Sembra che ci sia
una sorta di tacita vergogna nel fare qualcosa che non cada sotto al
"nobile" appellativo di "lavoro". Prima o poi
anche le passeggiate con gli amici diventeranno un lavoro nei
confronti della propria salute: una sorta di antistress per ricaricare
le pile per il lavoro "vero". Ehi cara, oggi ti va? Perché
ho proprio voglia di lavorarti per benino!
Dio mio...
Credo sia un movimento che vada ben
oltre al fatto linguistico. Spesso rendiamo meccanici anche i vizi:
basti pensare a come il fumar sigarette spesso diventi un atto
automatico per spezzare di tanto in tanto il lavoro, o un puro
bisogno privo di piacere; o a quando per "risparmiare" il
tempo, ci si abbuffa davanti alla TV. Del resto, si sa, il tempo è
denaro. Per cui, semplice materia prima da scambiare con moneta
sonante, il tempo non ha più l'ambizione di essere vissuto, ma
quella assai più proficua di essere venduto.
Laddove il termine "lavoro"
si sta del tutto astraendo da un'attività concreta ad esso connessa,
per divenire una definizione universale ed onnicomprensiva, ormai
spersonalizzata e resa insipida, il termine "uomo" ha quasi
perso il suo fascino ed il suo valore.
Questa terra è così piena di
ragioniere\i, operaie\i, insegnanti, poliziotti da rendere difficile
trovare un uomo o una donna. Ci interessa solo il cosa e non il chi
della persona. Quando si conosce qualcuno, appena dopo essersi
dimenticati il suo nome, le si chiede : "Cosa fai nella vita?".
Forse abbiamo bisogno di collocare la nuova conoscenza in un
determinato settore: abbiamo timore dell'impossibilità della sua
definizione. O forse, abituati dai benpensanti, già disprezziamo chi
non ha un'occupazione e, allo stesso modo, ci vergogniamo di rivelare
di non averne.
Avete in mente quella trasmissione
serale di Fabrizio Frizzi? I soliti ignoti, sì. Come funziona? La
concorrente di turno deve indovinare il mestiere, il lavoro di vari
Miss e Mr X in base a come sono vestiti, dall'aspetto, e a volte da
alcuni indizi piuttosto creativi. Questi ignoti diventano "noti"
una volta che si riesce ad indovinare (spesso dai segni o dalle
convenzioni che il lavoro lascia su di loro) che mestiere fanno. È
un programma molto realistico, e molto noioso.
"Quanti figli hai avuto?"
"Undici".
"E sono tutti vivi?"
"Tre sì, gli altri lavorano".
Caja negra, un film di Luis Ortega, del
2002.
Fonti:
- A. Tognola, Lavoro? No grazie! La Baronata, 2010
- Friedrich Nietzsche, "Aurora" 1881
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