venerdì 17 agosto 2018

Dizionario filosofico di un emerito D: il lavoro.



"Me matan si no trabajo, y si trabajo me matan",
Daniel Viglietti, cantautore uruguaiano.


Lavoro.

Il termine deriva etimologicamente da "laborare", che significa all'incirca "vacillare sotto un peso gravoso". Aggiungiamo anche "labor": fatica.
Stesso significato troviamo nel tedesco "arbeit". Che indica oltre alla "fatica", il "compito", il "turno" e il "travaglio".
Travaglio che ci porta direttamente allo spagnolo "trabajo", che denota il "lavoro" come la "corvé", "l'occupazione", la "sgobbata" e il "travaglio" appunto. Questa espressione (assieme al portoghese "trabalho" e al catalano "treball" - il quale ha un suo senso anche nel dialetto comasco...) a sua volta deriva dal latino "tripalium": una tortura medievale e forse anche romana alla quale venivano sottoposti gli schiavi. Consisteva nel legarli a tre pali, probabilmente due a croce ed uno posto in verticale, e dare fuoco alla struttura.
Nel linguaggio moderno i tedeschi precisano poi l'ambito dal quale il lavoro deriva. Meglio, distinguono chi lo compie e chi lo offre: "Arbeitgeber"denota il datore di lavoro (non più "padrone", per carità...) laddove "Arbeitnehmer" indica il "prenditore del lavoro". Insomma, colui che non solo si prende il salario, ma anche il lavoro: che scroccone!
Evidentemente la lingua deve adattarsi alla nuova retorica dominante.




«In fondo, (...) si sente oggi che il lavoro come tale costituisce, la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio di indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità di energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, sognare, al preoccuparsi, all'amare, all'odiare».
Friedrich Nietzsche, "Aurora" 1881




Etimologie e dizionari a parte, è interessante notare come il termine "lavoro" si stia incredibilmente allargando, astraendosi da qualsiasi contesto concreto. Al mattino si dice "vado al lavoro", non certo vado a rispondere alle telefonate di quelli che chiameranno al call center, o a tingere i nuovi filati di quella ditta di cui non ricordo il nome... Forse perché, in fondo, non è importante quel che faccio. E' importante che sia occupato. Che scacci efficacemente l'ozio, la pigrizia, il tempo libero....
Tempo libero. Non è un'espressione stupenda? Non assomiglia tanto all'ora d'aria del carcerato? Libero da che? Non certo dal consumismo obbligato che rivela la seconda faccia del lavoro. La sua premessa e la sua conclusione. Del resto, se ci fate caso, il termine "lavoro" sta entrando anche in ambiti che con la sfera specifica del lavoro non hanno niente a che fare. Mi è capitato di sentire di gente che va da qualche analista per fare un "lavoro sui sogni", o mi è capitato di "lavorare ad un racconto", qualcuno va perfino in palestra sostenendo di "lavorare sul proprio benessere".
Spesso anche quando si fa qualche attività d'interesse, ma non redditizia e non legata ad un salario concreto (dal fare un corso di teatro, al curare un blog, al gestire un sito personale o ludico... ) si parla di lavoro. Sembra che ci sia una sorta di tacita vergogna nel fare qualcosa che non cada sotto al "nobile" appellativo di "lavoro". Prima o poi anche le passeggiate con gli amici diventeranno un lavoro nei confronti della propria salute: una sorta di antistress per ricaricare le pile per il lavoro "vero". Ehi cara, oggi ti va? Perché ho proprio voglia di lavorarti per benino!

Dio mio...

Credo sia un movimento che vada ben oltre al fatto linguistico. Spesso rendiamo meccanici anche i vizi: basti pensare a come il fumar sigarette spesso diventi un atto automatico per spezzare di tanto in tanto il lavoro, o un puro bisogno privo di piacere; o a quando per "risparmiare" il tempo, ci si abbuffa davanti alla TV. Del resto, si sa, il tempo è denaro. Per cui, semplice materia prima da scambiare con moneta sonante, il tempo non ha più l'ambizione di essere vissuto, ma quella assai più proficua di essere venduto.
Laddove il termine "lavoro" si sta del tutto astraendo da un'attività concreta ad esso connessa, per divenire una definizione universale ed onnicomprensiva, ormai spersonalizzata e resa insipida, il termine "uomo" ha quasi perso il suo fascino ed il suo valore.
Questa terra è così piena di ragioniere\i, operaie\i, insegnanti, poliziotti da rendere difficile trovare un uomo o una donna. Ci interessa solo il cosa e non il chi della persona. Quando si conosce qualcuno, appena dopo essersi dimenticati il suo nome, le si chiede : "Cosa fai nella vita?". Forse abbiamo bisogno di collocare la nuova conoscenza in un determinato settore: abbiamo timore dell'impossibilità della sua definizione. O forse, abituati dai benpensanti, già disprezziamo chi non ha un'occupazione e, allo stesso modo, ci vergogniamo di rivelare di non averne.
Avete in mente quella trasmissione serale di Fabrizio Frizzi? I soliti ignoti, sì. Come funziona? La concorrente di turno deve indovinare il mestiere, il lavoro di vari Miss e Mr X in base a come sono vestiti, dall'aspetto, e a volte da alcuni indizi piuttosto creativi. Questi ignoti diventano "noti" una volta che si riesce ad indovinare (spesso dai segni o dalle convenzioni che il lavoro lascia su di loro) che mestiere fanno. È un programma molto realistico, e molto noioso.


"Quanti figli hai avuto?"
"Undici".
"E sono tutti vivi?"
"Tre sì, gli altri lavorano".
Caja negra, un film di Luis Ortega, del 2002.





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