venerdì 17 agosto 2018

Il ponte






Una volta mio padre mi portò a vedere un vecchio paesino. Lui lo chiamava “borgo”: non so cosa voglia dire di preciso, ma in quel paese c’erano case molto antiche, strade molto strette, e mura di cinta (sono quelle che circondano il borgo, il vecchio paese, appunto) molto grandi e solide.
C’erano molte botteghe (che è un modo particolare di chiamare dei piccoli negozi, che pare, mio padre ed altre persone utilizzano quando chiamano i negozi in posti come quel borgo) che vendevano di tutto un po’: dal pane, ai francobolli, agli aquiloni. Me ne ricordo uno bellissimo, grande e colorato, sembrava avere due grandi ali che mettevano perfino in ombra una parte del negozio (o della bottega), ma quell’ombra faceva risaltare, ossia rendeva più bella, l’altra parte della bottega.

Però non voglio raccontarti delle botteghe del borgo, o degli splendidi aquiloni che vidi quel pomeriggio con mio padre. Voglio invece raccontarti del ponte. Sì, perché quel borgo era collegato ad un altro borgo da un ponte straordinario e del tutto particolare.
La cosa era più o meno così: alla fine del borgo, appena oltre il muro di cinta, c’era un prato verde e, dopo una decina di passi, iniziava un ponte molto, molto lungo. A dir la verità, di questo ponte quasi non si vedeva la fine. La si intravvedeva: ossia, la vedevi più con la fantasia e l’immaginazione che con gli occhi. Guardare verso la fine di quel lungo ponte era un po’ come immaginarsela, o progettarla. Come quando disegni una linea su un foglio: a scuola ti spiegano che la linea è infinita, ma tu puoi tracciarne solo una parte: tutto il resto non lo fa la mano, o la penna, o la matita con cui stai tracciando quella parte di riga: il resto lo fa la tua fantasia. La matita ha una fine, non la tua immaginazione.



Ad ogni modo, quel ponte sfidava davvero la mia immaginazione: partiva da quel prato verde e sembrava infinito, come la linea che ti spiegano a scuola, che non ha termine; però, partiva incredibilmente sgangherato, direi perfino bruttino.
Era insomma rovinato, un po’ sporco, e di un legno imperfetto. Non dava, a dirla tutta, grande sicurezza e, appunto, guardando in avanti, intravvedevi solo la fine e dovevi più immaginartela con la mente che vederla con gli occhi. Mio padre però mi rassicurò che, oltre l’enorme ed alto precipizio sul quale sostava il ponte, c’era un altro borgo, ancora più bello e con ancora più botteghe di quello appena visitato. Bisognava solo avere coraggio, pazienza e seguire la linea dell’immaginazione.

Però, a guardare il vuoto sotto quel ponte sgangherato, c’era davvero da farsi tremare le gambe. Mi chiesi quanto la fantasia poteva essere sicura. Per fortuna, mio padre mi prese la mano, e cominciammo ad incamminarci su quel ponte. Passo passo, un pezzo per volta, faceva sempre meno paura.

Non solo perché il difficile è sempre iniziare, o perché mio padre mi teneva la mano, ma anche per due strane caratteristiche che il ponte possedeva: prima di tutto, mano a mano che avanzava, cambiava struttura. Voglio dire che, passo passo, sembrava più solido. Ma non solo. Era via via più pulito, e più bello: dapprima il legno sgangherato e sporco si faceva lucente e rassicurante, caldo; poi addirittura cambiava materiale! Passeggiando e continuando a percorrerlo, lo vidi diventare di pietra grigia, e poi di marmo (quella bella pietra splendente, di solito bianca o rosea, che sembra così dura e stabile). Insomma, via via diventava più bello, elegante e rassicurante, e la mia paura scemava (ossia si riduceva) sempre più. Diventava piccola piccola fino a svanire.

La seconda caratteristica di questo strano ponte (non me ne ero dimenticato) era una decorazione particolare che, sul suo pavimento, si ripeteva spesso: disegnati sul legno, poi sulla pietra, poi sul marmo, c’erano degli orologi. Ed anche questi, cambiavano lungo il tragitto: la prima rappresentazione (o disegno) dell’orologio era bruttina ed approssimativa (ossia imprecisa, poco curata) ed anche l’orologio disegnato sembrava rotto, fatto male e con i contorni sbiaditi e le lancette erano così confuse che sembravano tantissime, o forse solo macchie: era come se non sapesse che tempo segnare, o come se contasse un tempo che non valesse la pena di misurare. Poi, mano a mano, o meglio passo passo, i disegni sul pavimento del ponte diventavano sempre più belli, ricchi e curati: c’erano via via orologi a cipolla (che è uno strano nome, perché di certo non si mangiano o si sbucciano, né fanno piangere, semplicemente non si tengono al polso ma in tasca), sempre più dettagliati: con i loro bei contorni, con diverse decorazioni e colori. Gli ultimi erano davvero bellissimi: dovevano più che misurare, sentire ed ascoltare un tempo bellissimo e ricco di esperienze indimenticabili.

Proseguendo quel ponte, mi accorsi come, procedendo piano, potevo acquistare sicurezza e come la mia fantasia stesse diventando solida e precisa. Alla fine, arrivammo dall’altra parte del ponte non solo sani e salvi, ma divertiti e sereni. Ma non vi racconterò dell’altro borgo, non oggi: perché più che l’arrivo, quel giorno, mi interessò il viaggio.
E, in fin dei conti, se volete sapere com’è quel borgo, vi basta tracciare una linea, ed immaginare dove va a finire.






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