giovedì 19 luglio 2018

Monologo su felicità e lavoro, parte 2

Sì ma… non voglio intristirvi. Non è che debba andare sempre così, nella vita. Ci sono spesso degli impedimenti, degli ostacoli, dei ritardi. Ma si può anche scegliere eh! Scegliere. Per esempio… per esempio, quanti di voi hanno scelto il proprio lavoro? Vedete.. . vedete… va beh, come non detto. Però alla fine sì, si può scegliere la propria attività. E figuriamoci. Altrimenti saremmo schiavi, no?
Mi ricordo di una mattina… ero all’ospedale, per una visita. Una cosa semplice, non allarmatevi. Aspettavo in sala d’attesa. Ovviamente. E c’era tanta altra gente, ad aspettare. Così, non mi ricordo come, facemmo quattro chiacchere. Qualcuno ruppe il ghiaccio e cominciammo a parlare delle nostre occupazioni. Di cosa facevamo. Praticamente manco ci presentammo, ma in tempo zero avevamo organizzato una sorta di gara nell’elencare i lavori più inutili del creato! Che strana coincidenza…
C’era per esempio, quello che si definiva uno “scaldaletto”. Io l’avrei chiamato “tester di materassi”, ma era una cosa diversa. Lui non dormiva nei materassi, no. Lui lavorava per alcune persone famose, di stile… e… queste persone famose e di stile… odiavano andare a dormire sui materassi freschi. Avete presente la sensazione no? Quando sei appena entrato nel letto, e senti quel freddino su tutta la schiena, e così anche per le lenzuola. Ecco, per evitare quel fastidioso brivido alle persone famose e di stile, lui s’intrufolava nelle coperte per un poco, giusto il tempo di scaldarle, poi sgusciava via, e lasciava il posto ai padroni del letto.

Coincidenze

L’ago è inutilmente disinfettato, il dito teso. Il microscopio pronto per guardarmi dentro. Deposito quella goccia di me e osservo con cura quelle cellule che, nella loro semplice complessità, io sono. Finita l’osservazione chiudo il primo vetrino con un secondo, chiudo il quanto con della parraffina; infilo tutto in una busta: invio.

13 settembre 2007

Jeans neri, un maglioncino bianco aderente, capelli castani ben curati, e Claudia supera le prime dieci tavole della redazione per sedersi, come sempre, vicino a Marco: capelli neri corti, un completo marroncino e il sorrisetto imbarazzato di sempre.

«Come va?»

«Bene… ho ricevuto una strana lettera.»

I pensieri di Spada

I pensieri di Spada

Spada è un ragazzo di circa 17 anni. Non è né magro, né grasso. Anzi, a ben guardare, ha anche qualche muscolo nervoso; capelli biondo cenere un po’ lunghetti, con un ciuffo tagliente e voluminoso; corredo di maglie scure e di norma di qualche gruppo punk o metal, qualche anello, jeans, spesso anfibi. E una brutta cicatrice vicino alla fronte che potrebbe vagamente sembrare una lama.
Mal sopporta il cinismo di Spina e considera Goccia uno sfigato, seppure qualche volta gli chieda consiglio per avere un’opinione diversa dal coro.
La sua, invece, è questa:

Guardatelo mentre si indica la tempia come un forsennato, colpendola più volte, poi si arrotola un ciuffo o tre sul dito, e sbuffa nervoso.

Guardatelo mentre arriva al bancone di ingresso di un pronto soccorso, lasciando una lettera in busta chiusa all’impiegata o infermiera di turno, insistendo e brontolandole contro, poi salutarla con un mezzo sorriso e la mano aperta, e andare via tutto nervoso ed emozionato.


Fantasia

  • Questa è la storia di Stefano, un nonno, uno di quelli col gilè sul petto e la pipa in mano, e di Arianna, una ragazza priva di fantasia.
    Stefano aveva avuto una vita modesta: aveva lavorato come impiegato di banca, e non si era mai mosso da casa, ma era riconosciuto da tutti come una persona gentile e accogliente. Da quando era andato in pensione, aveva iniziato un’attività singolare: radunava dei bambini disadattati in un salone, e li stimolava a raccontare storie. Una sorta di centro di recupero adolescenziale basato sulla scrittura creativa.
Lo scopo non era tanto quello di trasformare i ragazzi in scrittori professionisti, o di rendere famose le loro storie, ma quello di rendere piacevole una singola storia: la loro. Fu per quella sua passione che Stefano finì per essere chiamato ‘Cavastorie’: una sorta di versione buona del dentista.
Con una certa ispirazione (non quella della pipa, che non va inspirata) aveva chiamato questa sua idea “Samar”: la parola con cui gli arabi chiamano il parlare nella notte, arte di cui Sherazade è maestra. Il tempo di maggior attività per Stefano erano le feste di Natale: i bambini erano a casa da scuola e i loro genitori li portavano volentieri da quell’eccentrico vecchietto.

L'uomo di sapone

C’era un uomo fatto di sapone. Tu sai come funziona il sapone vero? Il sapone porta via lo sporco, sì, ma sai come funziona? Ci si lava con l’acqua, fa la schiuma e porta via lo sporco. Bene. E’ così, non è che dica di no, ma per farti capire la storia dell’uomo di sapone, devo essere un po’ noioso. Sì ne vale la pena. E’ un po’ come quando sei lì lì per finire il secondo e poi arriva il dolce, quello che preferisci. Quello che muovi prima il cucchiaio su e giù per anticiparne l’arrivo in tavola, mentre schiocchi la lingua e in bocca hai un sapore d’impazienza. Allora, il sapone è fatto di due parti. Davvero. Una è, per così dire, amica dell’acqua. L’altra, invece; be’, l’altra invece no. Una parte si abbraccia all’acqua, l’altra, invece, scappa via.  Ecco, la parte che non scappa via dall’acqua, si abbraccia allo sporco, per così dire, e lo porta via, perchè, intanto, la parte amica dell’acqua si è abbracciata a lei e guida tutto il resto.Come dici? Sì, è un po’ come quando porto via la mamma dalla zia Rita. La allontano dallo sporco.

Vedi, quest’uomo di sapone, era anche lui di doppia natura. Una parte era dolce, schiumosa, amante dell’acqua. L’altra, era vischiosa, scivolosa, a volte sinistra, frequentava cattive compagnie. Sì, un po’ come zia Rita. Ma anche peggio.

Tutto questo, faceva sì che l’uomo di sapone fosse davvero una strana persona. Come dici? Be’, è vero, già il fatto che fosse di sapone è abbastanza strano. Ma ti giuro che ci sono cose anche più strane. Comunque, all’uomo di sapone capitava quindi di frequentare i bassifondi delle città. Una sua parte si trovava magnificamente nei sobborghi, tra gente insomma poco per bene di quella che tipo la mamma ti direbbe di non accettare da loro le caramelle. Ma… una parte di lui rimaneva distaccata. Non riusciva ad ambientarsi. Un po’ come me alle feste di zia Rita o tu ai compleanni di Claudio. Dove insomma ci devi andare per forza ma non conosci nessuno e ti senti nel posto sbagliato e poi ti dicono quella frase davvero fastidiosa. “Ma dai…divertiti!” come se avessimo un tastino dietro la schiena che lo schiacci e pam, sprizzi gioia da ogni poro. Pessimo.

Intrusa

Mi sveglio, e la prima cosa che vedo è una donna nel mio letto. Intendiamoci, nulla di spiacevole, né di stravagante, se non fosse che non ho la minima idea di chi sia.

Non la sveglio, ancora. La osservo con cura, in cerca di qualsivoglia particolare che mi sia familiare, ma dalla forma delle labbra, alla punta del naso, alla posizione in cui dorme… tutto mi è estraneo. Mi alzo ancora perplesso, vado in bagno e mi getto dell’acqua gelata in faccia, nel tentativo di svegliarmi. E’ sicuramente un sogno. Sospiro, poi torno indietro. Niente. È ancora lì.

Vado sul balcone a fumare, tentando di ricordare che diavolo ho combinato la notte precedente. La cena, la discoteca… Niente eccessi, niente follie, niente donne.

E’ una bella donna, avrà più o meno la mia età, non russa neanche – non ho nulla contro di lei – non la conosco neppure, però, insomma; che cazzo ci fa nel mio letto?

Torno ancora alla stanza, pensando di prendere le cose alle spalle. Se è davvero successo qualcosa, dimenticarsene e chiederle chi è sarebbe poco carino. Farò finta di nulla e vedrò cosa succ… aspetta.

D’improvviso, vengo calamitato dalla fotografia di mia moglie, quella sul tavolo in sala, la prendo tra le mani e la studio. E’ indubbiamente mia moglie. Dieci anni di matrimonio non si scordano facilmente. Foto in mano, torno in camera da letto. Guardo la donna sconosciuta e capisco. Capisco che mia moglie mi è divenuta completamente estranea. Estranea quanto un’intrusa nel mio letto.

Utilità

Alcuni gesti nervosi dei tecnici dello studio lo informarono del tempo limite. Fabio socchiuse gli occhi, non per fastidio, ma per noia; col plettro accarezzò le ultime note della sua canzone, nella sala di registrazione. La sentì risuonare ancora un po’, poi fece un cenno verso i fonici di là del fumoso vetro, e uscì.
Sul portico esterno, Marco, il bassista, lo raggiunse – Che hai?
Fabio si accese stancamente una sigaretta – Non mi piace, Marco, non solo non sfonderemo mai, ma non trovo più senso in quello che faccio, nelle nostre canzoni.
– È difficile, ci vuole tempo.
– Sì, ma non sempre c’è, e sto perdendo il gusto: nessuno apprezza il nostro lavoro – e avrebbe volentieri continuato così, come da tempo, ma il telefono lo interruppe. Era l’ospedale.
Marco vide il suo viso dapprima tirarsi in una maschera di terrore «è per suo figlio, ha avuto in incidente… in motorino» per poi rilassarsi lentamente «no, non si preoccupi, é solo una distorsione… al braccio. Solo per accertamenti sarebbe meglio…»
– Devo andare…
Marco annui – sì, ne parliamo poi.
Salì sulla Guzzi, e andò all’ospedale. Veloce passaggio al centralino, poi nella 404.
– Allora, che hai combinato?
Il ragazzo stava steso sul letto, una fasciatura al braccio destro – Eh…ho frenato sulla ghiaia e ho perso l’equilibrio.
– Bravo – infierì ironicamente il padre.
– Hanno detto che non hai nulla di che, ma per sicurezza preferiscono tenerti qui sta notte, d’altra parte saresti costretto a tornare con me in moto, oggi: non è il caso, anche se almeno non rischieresti di cadere – sorrise
– Ah! ah! –  fece la smorfia del figlio – Piuttosto, come va il lavoro, sei ancora in crisi?
– …Vago nell’inutilità.. – non trovò altre parole, ma solo un sorrisetto amaro – Ma…vedremo, e… a domani.
– Sì…buonanotte.
Fabio gli passò la mano fra i capelli, gesto che sapeva quanto il figlio odiasse, prima di uscire dalla stanza.

Il silenzio




Vivevo sulle strade di Mosca. Da qualche tempo avevo perso mia mamma e, quasi di conseguenza, la nostra casa. Ne avevo trovate altre di case, però: la sorte si rimise in piedi, in un regalo di quella solidarietà unica dei momenti tragici.
Quel punto e a capo da cui ricominciare. Del resto ero giovane e forte: non c’erano motivi per lasciarmi andare. Forse l’avrei fatto, se fossi stata sola: sarei andata vicino al fiume, e mi sarei lasciata trascinare dalla corrente.
Avevo però molte case e molte famiglie: il sabato e la domenica li passavo al ristorante di zio Serjei. I camerieri lasciavano sempre per me un buon piatto e perfino il proprietario mi donava un sorriso, una parola buona. Il lunedì mi apriva le porte il professor Romanòv e trovavo anche il piccolo Ivan a corrermi incontro e, in un certo senso, mi prendevo cura di lui.
Quando lo facevo, stavo meglio anche io. Pensai che forse era per questo che mi volevano bene: voler bene a qualcun altro è un modo per prendersi cura di sé. Il martedì e il mercoledì mi faceva compagnia il prete di quella piccola chiesa di periferia. Aveva una barba buffa, una voce calda e regali semplici. Infine, il giovedì e il venerdì li passavo alla scuola elementare: stare tra i bambini era bellissimo. In ogni riso e in ogni grido vedevi il futuro della città, la sua vera vita.
Godevo della ripetizione delle circostanze, del calore della routine: non l’ho mai trovata noiosa. Ogni giorno ti dava qualcosa di diverso, eppure seguiva una coerenza familiare che ti teneva come tra calde coperte: ti coccolava. Un giorno, poi, vennero dei signori strani: mi trovarono tra il ristorante e la casa del professore e mi portarono su un camioncino poco lontano, non so bene dove. In qualche modo sapevo che ero costretta, ma anche queste nuove persone erano gentili.


Versioni

Di ogni storia ci sono almeno due versioni: quella ufficiale e quella ufficiosa.
La prima è quella che si diffonde tra la gente, quella che il protagonista accetta pubblicamente e, di norma, è un discreto tessuto di stronzate ricamate intorno ad una piccola pezza di verità.
E’ alla storia ufficiale che spetta il gravoso viaggio dalle bocche alle orecchie della gente – con qualsivoglia intermediario uno preferisca – è questa versione della storia che ingrassa a non finire ad ogni passaggio, esplodendo parole unte di grasso e infinite interpretazioni per il mondo.
La versione ufficiosa è più intima: odora di lenzuola nuove e caffè a letto. La si racconta a chi, si spera, non ha la tendenza a diffondere i tuoi segreti come fossero volantini per l’inaugurazione del nuovo locale in centro.
Se il protagonista della storia, poi, è giovane e i genitori non sono ancora stanchi di preoccuparsi per lui, allora esistono almeno tre versioni del suo racconto: la terza esiste solo per mamma e papà.

Una lunga strada asfaltata si allunga tra due corridoi di case popolari, si estende pigramente e mal trattata fino a frantumarsi in piazza del Popolo in una serie di vie minori. Un sole grigio da cui dipartono molteplici raggi della stessa tonalità, ma diversa intensità. Un nucleo atomico che spara i suoi elettroni verso l’esterno: ionizzazione urbana.
Noi seguiamo una scheggia che si muove direttamente verso il centro storico. Una strada che perde l’asfalto improvvisamente, appena si passa sotto un arco di torri romane: porta Torre. L’asfalto si sgretola e si ricompone in un tappeto di ciottoli grigio bianchi; le ruote delle macchine lasciano il posto alle scarpe e ai sandali delle persone. Le case popolari si dileguano per far spazio ai negozi per turisti: trappole per topi che si credono uomini. Con loro, ai fianchi delle strade, gli uffici legali, qualche piccola banca, i dentisti. Superiamo la piazza, lasciamo la diffusione del libro al suo destino e andiamo a farci una birra. Anzi, siamo già lì.


Sole rosso



Sole rosso, rosso di sangue tagliato dalle sbarre della cella. Odore di polvere e di vita spezzata. La puzza di un criminale inglese lascia il posto a quella di un ribelle scozzese: la mia.

Mi rallegra il fatto di valere più di un frocetto in rosso. Mi rode d’avergli salvato le terga.

Così ha deciso quel grand’uomo di Cumberland. Macellaio di sogni e di scozzesi, figlio d’un bastardo inglese.

C’eravamo quasi. Edimburgo è stata nostra: Auld Reekie, vecchia sporca città. Liberata dai lealisti: nostra.

Signoreiddio, roba da storia. Loch nan Uamh, radura di Arisaig lo vide per primo: Bonnie Prince Charles, il giovane pretendente, figlio di Giacomo. Sbarcò in Caledonia e radunò i Clan Cameron e MacDonald a Glenfinnan sotto lo stendardo Stuart. Da lì a poco, il ‘45. La nostra riscossa.

Le truppe inglesi di Highbridge non ci videro neanche, che già gli avevamo schiaffeggiato le chiappe. Il reverendo John Cope, esimia testa di fango, capo delle guardie di Edimburgo pensò bene di anticiparci ad Inverness. Perfetto: lo lasciammo pascolare per occupare comodamente la città e Holyrood Palace.

Bonnie Prince Charlie: Re di Scozia. Dovevamo solo farlo sapere. E con lui, l’indipendenza.

John Cope pensò di riprendersi la città, ma dovette ricredersi quando un branco di gonnellini, mazze, asce, cornamuse e quanto Dio lasciava nelle mani dei nostri lo stesero. In dieci minuti.

Dieci minuti e quelli si ritrovarono più in mutande di noi. E il Bel Charlie, padrone di Scozia.

Non gli bastò. Esaltati dalle vittorie, entrammo in Inghilterra; destinazione: Londra. Alzare la parrucca di Giorgio ed abbellirgli il cranio di una sciabola celtica.

Cadde Carlisle, poi Manchester, poi Derby. Un’orda di Tartan incazzati. Alla parola “Claymore”, segnale d’attacco, rivoltavamo gli Inglesi con cariche, urla e mazzate. Un gioco semplice, finché riesci a convincerti che è un gioco.

Dio solo sa quanto avremmo potuto prendere perfino Londra. Centoventisette miglia, e Giorgio sarebbe stato nostro.

Se quei dannati francesi non si fossero persi in mare.

Se Bonnie avesse dato retta a Murray il soldato, e non a O’Sullivan lo scribacchino.

Se Dio avesse puntato un po’ di più su questi bizzarri giacobiti.

Allora Londra sarebbe in Scozia, e la Scozia sarebbe Libera.

Risalimmo nell’inverno verso Glasgow, poi ancora ad Inverness. “Per ritrovare le forze, per risollevare il morale”. Avevamo morale sufficiente per farlo piombare sul Re!

Vincemmo a Falkirk, ma non era lì che dovevamo vincere. Cumberland ci stava sempre dietro. Come una mamma diffidente, come un gratta borse, come un cane bastardo.

Prima o poi avremmo dovuto incontrarlo, il cane. Straziati dalle battaglie, esaltati ed ammaccati dalle vittorie, delusi dall’allontanarsi dalla meta. Quattrocento uomini ci arrivarono direttamente dal fronte lealista, traditori mandati da una donna infedele al marito, ma fedele alla Scozia. Lady Mackintosh. Grazie, colonnello Anne.

Il giorno fu Il 17 Aprile del ‘46.

Il luogo fu Culloden. Blàr Chùil Lodair.

Il quindici, avremmo dovuto assaltarli il quindici. Il compleanno del duca: acquavite doppia per i soldati. Avremmo dovuto prenderli mentre ancora si scaldavano la gola. Il tempo di qualche rutto e avrebbero vomitato anche il cuore.

Ma le contese interne, le decisioni sul modo di agire non ci permisero di farlo in fretta, di sfruttare il tempo propizio, l’attimo fatale, bagnato di festa e vapori alcolici.

Gesù santo, fu un disastro. Al nostro “Claymore!” ci infangammo nella radura di Culloden. Fango che rallentava, ginocchia che crollavano su quel terreno che di cariche scozzesi non ne voleva sapere. E quelli sparavano che Dio la mandava.

Spade contro moschetti. Scudi contro baionette. Per non parlare dei Cannoni. Solo gli Hannover, alleati del Duca, erano pari a noi di numero. In più avevano i dragoni e traditori dei Clan.

Ci scontrammo nella nebbia, cadendo prima di arrivare. Le cornamuse si spensero nel sangue e tra il rombo dei fucili.

Cumberland ordinò di finire i feriti, di inseguire i fuggitivi. Lord Kerr ed il generale Hawley li stanarono sulle colline.

Quasi novemila patrioti scozzesi caddero a contemplare quell’ «azione così grande; quella vittoria così completa».

Io la contemplo nella solitudine di una cella. Serrando gli occhi per non vedere il sole. Per non vedere il sangue. Quello che non vedrò più sono i tartan strappati dalla tradizione scozzese. Quello che non sentirò più sono le nostre cornamuse.

Cumberland ha sbattuto fuori i criminali inglesi dalle prigioni per fare posto a noi. I pochi rimasti dall’orrore di Culloden. Mi chiedo perché lo faccia: ci resteremo poco.

Ecco, non posso sfuggire al sole: mi buttano fuori in catene, nel piazzale aperto. Vedo qualche compagno, la folla d’insulti, i ricordi degli spettri.

Ringhio al boia: un attimo di paura sul suo viso, prima che mi ammazzi.

A forza mi sbattono sul patibolo. La corda al collo, e negli occhi il fiore di Scozia.

Poi il sole rosso.

Rosso del mio sangue.

La Corrente




Il mare ferito dalla barca piangeva una spuma candida. Presto sarebbero arrivati presso Tropea, là si sarebbero immersi in acqua per l’esercitazione subacquea. Era un corso per già praticanti, per cui avevano tutti una certa indipendenza: tanto che non si conoscevano neppure; la maggior parte di loro non si era nemmeno mai vista. Questo vale soprattutto per Anna che, come spesso le capitava di fare, arrivò in ritardo. Cosicché saltò al volo sulla barca, tra gli altri che avevano già indossato la tuta e la maschera da sub. Trovò ridicola la scena di trovarsi tra tanti sconosciuti mascherati, tanto da poterli differenziare solo per la marca della tuta o il colore delle bombole d’ossigeno.
Solo questo sapeva di loro. Fu per quello che, non ancora saltata sulla barca, si mise subito la maschera sul volto: se lei non poteva vedere loro, decise che la cosa più equa fosse non concedergli maggiore consapevolezza nei suoi confronti.

Il viaggio fu breve e, presso un alto scoglio di roccia scura, la barca si fermò. L’equipaggio fu trasportato, per un poco, a motore spento dalle modeste onde del mare di luglio.
Pochi istanti dopo, uno per volta, si tuffarono come seguendo una scaletta già stilata, o una procedura mai decisa.

L'altruismo degli scoiattoli





Bisognerebbe fare come gli scoiattoli

No, non dico saltare sugli alberi o nutrirsi di ghiande (per quanto…)
Ma, insomma, lo sapete come fanno dispensa, no?

Lo immaginavo. E non lo sapevo neanche io fino a poco tempo fa.
È una cosa particolare… deliziosa, oserei dire. Loro fanno grosse scorte durante la stagione estiva: trovano il loro rifugio, e ci buttano dentro i loro piccoli tesori: ghiande, noci, frutta, semi, quel che trovano.
Grazie al piffero, direte voi, questo lo sapevo da Cip e Ciop. Sì, ma la cosa deliziosa è che gli scoiattoli hanno poca memoria. E prima di dire che non ci trovate niente di particolare, men che meno di delizioso in questo loro difetto, state a sentire un altro po’.

Non hanno memoria, gli scoiattoli, e per questo non si ricordano dove hanno messo i loro tesori, perché la loro abilità nel nascondere le scorte è inversamente proporzionale a quella di ritrovarle. Per cui, al momento buono (ossia al momento brutto, quello del bisogno), sono assai incasinati. Devono girovagare per il bosco in cerca del loro nascondiglio, del loro cibo.
E questo sarebbe delizioso?! Brutto sadico del cavolo!Nah, non è delizioso il fatto che nei momenti di scarsità vaghino per il bosco come delle donne d’affari isteriche in cerca delle chiavi della macchina (alle casalinghe succede molto meno, sono più organizzate e meno isteriche, o almeno recitano meglio. A volte).

Le case cambiano



Lei gli levò la mano dalla coscia, prima di passare la sua sul finestrino appannato, creando una sorta di finestrella a oblò, attraverso la quale si vedeva la panoramica di un lungo marciapiede che costeggiava un anonimo complesso residenziale. «Aspetta! Aspetta… ora arriva, sono le nove. Ora arriva.»
Federico sbuffò leggermente stizzito, accostandosi al viso di Giulia, per sbirciare a sua volta fuori dal vetro. Era una serata nebbiosa, pallida. Passava poca gente: individui soli o al massimo in coppia, nessun grido, nessun inseguimento, niente di affascinante da guardare. Solo un cancello oltre il quale si innalzava un palazzone amorfo e grigiastro, non diverso dagli altri classici formicai di periferia della grande città. «E poi mica è detto che arrivi ora, anche i più abitudinari cambiano, o sbagliano. Nessuno è… così tanto una macchina.» Giulia scosse la testa, divertita.«Lui sì. Sono quasi le nove. Sarà già andato al solito ristorante a mangiare», pulì meglio il finestrino, allargando l’oblò per ampliare la superficie di quel singolare schermo. «Poi va sempre al solito discount a fare un po’ di spesa: l’indispensabile per un giorno, non di più.»
«Sei una cazzo di stalker», le rise dietro Federico.
Lei rimase quasi offesa, poi si tuffò in una apparentemente lucida replica: «Nah. Non capisci: lui è un emblema, un simbolo. Un totem. È l’essenza stessa dell’abitudine, della ripetitività. E forse anche del non senso delle cose. Ripete le stesse cose negli stessi orari. Un po’ lo facciamo tutti, costretti o meno, ma in questo lui è l’apice, la perfezione. Seguirlo vuol dire verificare che… »
«Deve essere un filosofo, allora.»
«Cazzo c’entra?»

mercoledì 18 luglio 2018

Monologo sulla felicità ed il lavoro, parte uno: SNOOZE

Sulla felicità:

immaginate un palco, un attore sul palco, voi che guardate dal basso. Buio, poi il suono di una sveglia
[bip bip bip biiip bip]



L’attore comincia il suo monologo, inizia a parlare… a parlarvi.
Ricordate la vostra sveglia? Sì, quel marchingegno infernale che ogni mattina vi ricorda che dovete alzarvi per correre al lavoro. Non so, forse vi sveglia con delicatezza, come una compagna premurosa che, con suono soave, vi scosta appena le coperte, baciandovi dolcemente la guancia ancora intorpidita e portandovi l’odore del caffé, fatto apposta per voi, naturalmente. Una sveglia così, potrebbe anche farti credere che questo mondo è un bel posto dove svegliarsi.
 Un mondo pieno di colori soavi, di suoni carezzevoli, e di uccellini cinguettanti… che… che non ti cagano nemmeno in testa, no. Loro la cacca, in quel mondo lì, non la fanno.
Be’, la mia si è scordata tutte queste premure; lei si esprime vomitando un suono aspro e meccanico, da cantiere edile sotto la finestra della camera da letto. Non assomiglia ad un’amorevole compagna, No. Assomiglia ad un burbero capo di lavoro che, consapevole della tua pigrizia viene direttamente a casa tua e, vedendoti ancora poltrire, ti urla addosso minacciandoti il licenziamento, mentre scaraventa te, il cuscino, il materasso ed affini giù dal letto. E il caffé neanche a pensarci, barbone.
Sì, lo so: perché diavolo non la cambio questa maledetta sveglia?
Potrei rispondere sofisticamente, dicendo che ci sono dei vantaggi inaspettati a svegliarsi in un mondo dove non sei certo di essere ben voluto. Ma non lo farò.

I pensieri di Goccia



Due o tre cose su Goccia



Goccia conosce Spina. A volte uno punge l’altro. A volte uno disarma l’altro.
Goccia è un ragazzo, poco più, poco meno. Difficile dire perché lo chiamano così. Forse perché è grassottello, anzi, praticamente morbido e paffuto. Forse perché è delicato quanto una goccia: potrebbe evaporare o asciugarsi in un istante. Forse perché su una mano ha un tatuaggio, o più probabilmente una voglia che assomiglia vagamente ad una goccia.
… I tre puntini. Goccia è come i tre puntini (ma sono diversi e simili da quelli di Spina): sembra in sospensione ed in dissolvenza. Come una pausa tra le note di una musica. Più lo sciabordio di un’onda, che la sua vetta più alta.
I pensieri di Goccia


[Il messaggio di Goccia, come quasi intuibile, mi è arrivato tramite un messaggio contenuto in una bottiglia di vetro lasciata nelle acque del mare. O forse era un lago…]


Dov’è la gioia?





Tempo fa ho visto quella bella e famosa immagine che disegna gli introversi come racchiusi dentro una bolla di timidezza ed isolamento. Una sorta di sottile barriera che loro hanno per difendersi dal mondo esterno. Non è che abbiano paura di essere attaccati o colpiti da chissà quale violenza. Semplicemente, sopportano a fatica la confusione, la continua presenza o il chiasso del mondo fuori da quella bolla.


Se ti avvicini troppo bruscamente, la bolla si spezza e così la difesa dell’introverso, e allora questo va in panico; perché, in fondo, quella bolla è una parte di loro. Se la spezzi, li hai anche un po’ feriti.





Mi è sembrata una bella metafora della mia condizione. Quella barriera, quella bolla che ci racchiude, un po’ ci imprigiona, un po’ ci difende. Faccio fatica a comunicare oltre a quella bolla. Non è che non voglio: il mio denso silenzio vorrebbe alle volte essere un grido, a volte un discorso lunghissimo, a volte, ancora, una chiacchierata spontanea e infinita.


Il mio silenzio è ricco di tentativi falliti, di parole sospirate ma non dette, di comunicazioni lasciate in sospeso. Però, vi prego, fidatevi, il mio è quasi sempre un silenzio dolce, non un silenzio amaro. Un silenzio primaverile e non invernale.


Cosa vuol dire? Che differenza c’è?



Nel primo tipo di silenzio, per farvi capire, cresce l’erba, i fiori raccolgono la loro energia per poi poter crescere e offrire il loro calore. Nel primo silenzio, un artista si potrebbe racchiudere per pensare e meditare la sua storia: ancora non l’ha creata, non l’ha scritta, o disegnata, o messa in materia, no; ma le sta semplicemente… come dire… dando le condizioni d’esistenza. È un silenzio che vuole ospitare, pur non avendo la spontaneità ed il coraggio della parola. In questo silenzio la distanza si colora di un tepore affettuoso, per quanto malinconico.


Il secondo tipo di silenzio, è un silenzio che non genera né arte, né erba, né colori. A volte, invece, distrugge e, se non distrugge, si limita a lasciare tutto in stasi. In un silenzio del genere l’artista sta semplicemente racchiuso tra le ginocchia e le braccia, come una sfinge, completamente schiacciato dal peso del mondo. In questo silenzio ogni distanza diventa siderale.


Fidatevi, quando vi dico che in questa bolla si respira il primo tipo di silenzio…


Silenzio.


Vorrei toccarvi, ma posso farlo solo con la scrittura.


La scrittura è un linguaggio, un mezzo, una comunicazione particolare: mi permette – come fosse una vibrazione – di oltrepassare le pareti della bolla senza romperla. Forse è l’unica strada per mettere in azione la possibilità del silenzio.


In questo silenzio, mi chiedo e vi chiedo: dov’è la magia? dov’è la gioia?

Non affrettatevi a cercare tra le mie parole. Cercate nel vostro, di silenzio. Magari anche nel buio che trattenete, se volete, sotto le palpebre: in quel calore che potete creare, con la giusta atmosfera, dentro agli occhi e sotto la pelle.


Forse la gioia è proprio in quel primo silenzio.


Forse è nel tempo: non il tempo che scorre e che si misura. Ma quel tempo che sembra nascere nel tempo. Non è facile da spiegare…


C’è un tempo, e poi, improvvisamente, quando facciamo qualcosa di magico, ne nasce un altro, che sembra crescere in verticale su una linea orizzontale. Un tempo profondo, più che esteso.


Respirate lentamente, guardate il palmo della vostra mano, tenuto leggermente arcuato, con le dita aperta, come se ci vedeste crescere un germoglio, o un fiore stupendo.


Forse quel fiore nasce con la musica giusta nell’esatto momento in cui dovete ascoltarla.


Forse nasce quando, in un periodo di profonda noia o tristezza, una sola parola regala un’atmosfera completamente diversa non solo a quelle ore, ma anche ai vostri ricordi, alle vostre speranze.


Forse, ancora, nasce in un momento di creatività inaspettata, in cui quello che prima sembrava terribilmente difficile diventa facile, quasi naturale. E cresce.


Forse nasce da un contatto trattenuto e poi lasciato scorre fra due dita che si sfiorano, o quattro occhi che si guardano.


Forse nasce da una risata improvvisa e genuina, o da un gioco che non ha altro scopo che l’essere un… gioco.


Forse quel fiore nasce in una sorpresa che vi sorprende al momento giusto, e se non siete tanto distratti da capire che quello è il momento giusto (può capitare, e non dovreste giudicarvi troppo male per questo) può capitare di perderlo.


In fin dei conti, se si ritrova quel silenzio, via via diviene più facile riuscire a cogliere quei momenti giusti.


Ci vuole però un’attenzione tremenda, una capacità di rallentare quando tutto sta andando di fretta, quando tutto sembra scandito. In quei momenti lì, allora credo che il fiore riesce a trovare la forza di crescere, e la magia può spuntare.


Ma il mio è solo un messaggio in bottiglia, è una vibrazione scritta oltre la mia bolla. Il mio momento può essere diverso dal vostro, ma tutti, credo, abbiamo bisogno di domandarci qualcosa del genere, di tanto in tanto.


Dov’è la gioia?


Dov’è la magia?


Dove cresce quel fiore?





I pensieri di Spina

Il personaggio: quattro o cinque  cose su Spina



Cosa uno: Spina è tendenzialmente un essere umano. Lo è più o meno come noi: è un puntino sparso e sperso in un’infinità caotica di puntini che non sa decifrare. A dirla tutta, non sa nemmeno se si possa decifrarla: l’insieme magmatico di puntini potrebbe essere privo di senso; oppure potrebbe essere come i famosi schemini dell’enigmistica (quelli a puntini, appunto): potrebbe far parte, in quanto punto sparso fra i punti, di uno schema difficile da vedere all’inizio o dalla sua prospettiva. In questo primo caso, il suo puntino sarebbe fondamentale: in quegli schemi, ogni puntino sembra inutile ma è essenziale. Il disegno non viene correttamente delineato, se tutti i puntini non vengono collegati. Oppure potrebbe essere uno schema caotico e privo di logica: in questo caso, nessun puntino è essenziale. Tutto sta nel guardare le cose dall’alto, o nell’essere il creatore dello schema. Spina non è il creatore, né ha accesso ad una visione completa dello schema. Esattamente come noi.
Cosa due: si potrebbe obbiettare che Spina non è un puntino nel nostro stesso schema: appartiene ad uno schema più piccolo, creato o intuito da un puntino del nostro schema. Vero. Ma ciò non cambia le cose. Spina stesso forse obbietterebbe che neanche chi sta leggendo queste parole può essere assolutamente certo di non appartenere ad uno schema creato da un puntino (e non DAL PUNTONE, per dire).
Cosa tre: già che io abbia scritto “forse”, in merito ad una probabile azione di Spina, ci dice che il puntino che io sono non ha davvero controllo sul puntino che lui è. In un certo senso, in fondo, dal momento della sua nascita, potrebbe essere lui a condizionare me. (E se fossimo noi a condizionare parzialmente il PUNTONE?)
Cosa quattro: dimenticate i punti precedenti, o infilateli in un cassetto del vostro inconscio (tanto ormai lo farete comunque), oppure in una sezione del vostro schema, e tenete in mente questo: Spina è un uomo giovane (almeno, così sarebbe considerato secondo il metro di misura della nostra attuale società), chiamato così forse per la sua struttura fisica, forse per il suo temperamento.
Cosa cinque: infatti, Spina è alto, snello, diciamo pure molto magro, con il mento a punta, pallido di carnagione e con un tratto caratteristico tra i capelli corvini. L’attaccatura della fronte, infatti, ricorda una sorta di freccia, o, appunto, una Spina. Inoltre, Spina è considerato un tipo ruvido, spesso molto diretto, spesso molto cinico, ma forse è solo un’interpretazione dello schema.

I pensieri di Spina


[ L’altro giorno, ho trovato una paginetta scritta di suo pugno fuori dalla finestra della camera. Ecco cosa c’era scritto: ]
Io vi odio.
Vi odio tutti, niente affatto indistintamente, ma non escludo nessuno. Alcuni, godono del mio odio in misura più veemente e concentrata, più pura; ma vi odio tutti. Nessuno si senta escluso. Nessuno si senta risparmiato.
Vi odio e mi fate  schifo.
Odio i vostri volti appassiti, i vostri occhi spenti, i vostri corpi stanchi.
Odio il vostro modo di camminare, di andare in macchina, di stringere la mano.
Detesto il vostro modo di chiedere “come stai” e “che lavoro fai”.
Odio i vostri completi ed i vostri jeans.
Odio le vostre serie preferite, i vostri discorsi sempre uguali, i vostri punti di incontro sempre più affollati e privi di colori.
Mi sale la bile a vedere le vostre solite parole ripetute all’infinito. Il vostro ignorare quanto il mondo sia grande e come riusciate a perdere tanto tempo sulle solite cose.
Odio i vostri bei voti, odio la vostra diligenza, odio la vostra lezioncina ben ripetuta.
Mi riempio di schifo immaginando la vostra efficienza ed il vostro buonsenso, per non parlare della maturità di cui andate tanto fieri.
Odio la vostra fretta di crescere, i vostri orari precisi e le vostre notti brevi.
Odio i vostri buoni consigli, specie se mai richiesti; odio i vostri giudizi, la vostra morale preimpostata.
Odio il vostro intelligente realismo, il vostro spirito pragmatico, il vostro sorriso saggio e la risposta pronta.
Mi fanno ribrezzo le vostre lamentele sterili, i vostri programmi acerbi, la vostra continua noncuranza.
Odio il vostro essere pezzi di un ingranaggio che nemmeno vi prendete la briga di osservare. Mi viene il rigurgito al solo vedere, anzi, al solo immaginare le vostre maschere di cortesia: quelle che continuate imperterriti ad indossare perché non cambi mai nulla.
Odio l’appiglio alla citazione, l’uso di qualsiasi fonte e qualsiasi mente a patto che non sia la propria.
Odio il vostro odio per la pagina bianca, odio la vostra enciclopedia, odio la vostra complessità.
Odio il modo perfetto con il quale avete nascosto la magia sotto la tecnica.
Odio la perfetta sequenza di gesti e di abitudini con la quale avete distrutto ogni originalità per conformarvi alla più becera mediocrità.
Odio come avete nascosto voi stessi sotto il tappeto del conformismo e dell’evitare lo scontro.
Odio il modo in cui avete nascosto la luce che avete dentro, per adeguarvi all’ingranaggio della convenzione e della ripetizione.
Odio la ripetizione costante del passato e della tradizione; l’esaltazione di ciò che è morto e la paura di ciò che è vivo o, almeno, avrebbe una vaga possibilità di esserlo.
Odio il nascondiglio quotidiano ed introvabile nel quale avete nascosto la gioia, la meraviglia e la sorpresa.
E soprattutto, soprattutto odio la vostra infinita capacità di rivestirvi di strati che non fanno che nascondere e seppellire la meraviglia con cui sareste invece fatti.
Vi odio tremendamente perché potrei amarvi inesorabilmente
E ancora, vi odio perché state vincendo e per quanto mi rassomigliate.

mercoledì 11 luglio 2018

Le tre domande, tolstoj

Le tre domande, Lev Tolstoj

Lev Tolstoj tratto da: Racconti per contadini, Associazione culturale Mimesis, pp. 267-271
Un bel modo di parlare della presenza mentale.

Un racconto Zen: Le tre domande


Un giorno, un certo imperatore pensò che se avesse avuto la risposta a tre domande, avrebbe avuto la chiave per risolvere qualunque problema:
• Qual è il momento migliore per intraprendere qualcosa?
• Quali sono le persone più importanti con cui collaborare?
• Qual è la cosa che più conta sopra tutte?
L’imperatore emanò un bando per tutto il regno annunciando che chi avesse saputo rispondere alle tre domande avrebbe ricevuto una lauta ricompensa.
Subito si presentarono a corte numerosi aspiranti, ciascuno con la propria risposta.
Riguardo alla prima domanda, un tale gli consigliò di preparare un piano di lavoro a cui attenersi rigorosamente, specificando l’ora, il giorno, il mese e l’anno da riservare a ciascuna attività. Soltanto allora avrebbe potuto sperare di fare ogni cosa al momento giusto.

Qualcuno era convinto che l’imperatore non poteva essere tanto previdente e competente da decidere da solo quando intraprendere ogni singola attività; la cosa migliore era istituire un Consiglio di esperti e rimettersi al suo parere.
Qualcun altro disse che certe questioni richiedono una decisione immediata e non lasciano tempo alle consultazioni; se però voleva conoscere in anticipo l’avvenire, avrebbe fatto bene a rivolgersi ai maghi e agli indovini.
Anche alla seconda domanda si rispose nei modi più disparati.
Uno disse che l’imperatore doveva riporre tutta la sua fiducia negli amministratori, un altro gli consigliò di affidarsi al clero e ai monaci; c’era chi gli raccomandava i medici e chi si pronunciava in favore dei soldati.
La terza domanda suscitò di nuovo una varietà di pareri.
Alcuni dissero che l’attività più importante era la scienza. Altri insistevano sulla religione. Altri ancora affermavano che la cosa più importante era l’arte militare.
L’imperatore non fu soddisfatto da nessuna delle risposte, e la ricompensa non venne assegnata.
Dopo parecchie notti di riflessione, l’imperatore decise di andare a trovare un eremita che viveva sulle montagne e che aveva fama di essere un illuminato. Voleva cercarlo per rivolgere a lui le tre domande, pur sapendo che l’eremita non lasciava mai le montagne e riceveva solo la povera gente, rifiutandosi di trattare con i ricchi e i potenti. Perciò, rivestiti i panni di un semplice contadino, ordinò alla sua scorta di attenderlo ai piedi del monte e si arrampicò da solo su per la china in cerca dell’eremita.
Giunto alla dimora del sant’uomo, l’imperatore lo trovò che vangava l’orto nei pressi della sua capanna.
Alla vista dello sconosciuto, l’eremita fece un cenno di saluto col capo senza smettere di vangare. La fatica gli si leggeva in volto. Era vecchio, e ogni volta che affondava la vanga per smuovere una zolla, gettava un lamento.
L’imperatore gli si avvicinò e disse: “Sono venuto per chiederti di rispondere a tre domande: qual è il momento migliore per intraprendere qualcosa? Quali sono le persone più importanti con cui collaborare? Qual è la cosa che più conta sopra tutte?”.
L’eremita ascoltò attentamente, ma si limitò a dargli un’amichevole pacca sulla spalla e riprese a vangare.
L’imperatore disse: “Devi essere stanco. Su, lascia che ti dia una mano”. L’eremita lo ringraziò, gli diede la vanga e si sedette per terra a riposare.
Dopo aver scavato due solchi, l’imperatore si fermò e si, rivolse all’eremita per ripetergli le sue tre domande. Di nuovo quello non rispose, ma si alzò e disse, indicando la vanga: “Perché non ti riposi? Ora ricomincio io”. Ma l’imperatore continuò a vangare. Passa un’ora, ne passano due.
Finalmente il sole comincia a calare dietro le montagne. L’imperatore mise giù la vanga e disse all’eremita: “Sono venuto per rivolgerti tre domande. Ma se non sai darmi la risposta ti prego di dirmelo, così me ne ritorno a casa mia”.
L’eremita alzò la testa e domandò all’imperatore: “Non senti qualcuno che corre verso di noi?”.
L’imperatore si voltò. Entrambi videro sbucare dal folto degli alberi un uomo con una lunga barba bianca che correva a perdifiato premendosi le mani insanguinate sullo stomaco. L’uomo puntò verso l’imperatore, prima di accasciarsi al suolo con un gemito, privo di sensi.
Rimossi gli indumenti, videro che era stato ferito gravemente. L’imperatore pulì la ferita e la fasciò servendosi della propria camicia che però in pochi istanti fu completamente intrisa di sangue. Allora la sciacquò e rifece la fasciatura più volte, finché l’emorragia non si fu fermata.
Alla fine il ferito riprese i sensi e chiese da bere. L’imperatore corse al fiume e ritornò con una brocca d’acqua fresca. Nel frattempo, il sole era tramontato e l’aria notturna cominciava a farsi fredda. L’eremita aiutò l’imperatore a trasportare il ferito nella capanna e ad adagiarlo sul suo letto. L’uomo chiuse gli occhi e restò immobile. L’imperatore era sfinito dalla lunga arrampicata e dal lavoro nell’orto. Si appoggiò al vano della porta e si addormentò. Al suo risveglio, il sole era già alto. Per un attimo dimenticò dov’era e cos’era venuto a fare. Gettò un’occhiata al letto e vide il ferito che si guardava attorno smarrito. Alla vista dell’imperatore, si mise a fissarlo intensamente e gli disse in un sussurro: “Vi prego, perdonatemi”.
“Ma di che cosa devo perdonarti?”, rispose l’imperatore.
“Voi non mi conoscete, maestà, ma io vi conosco. Ero vostro nemico mortale e avevo giurato di vendicarmi perché nell’ultima guerra uccideste mio fratello e vi impossessaste dei miei beni. Quando seppi che andavate da solo sulle montagne in cerca dell’eremita, decisi di tendervi un agguato sulla via del ritorno e uccidervi. Ma dopo molte ore di attesa non vi eravate ancora fatto vivo, perciò decisi di lasciare il mio nascondiglio per venirvi a cercare. Ma invece di trovare voi mi sono imbattuto nella scorta, che mi ha riconosciuto e mi ha ferito. Per fortuna, sono riuscito a fuggire e ad arrivare fin qui. Se non vi avessi incontrato, a quest’ora sarei morto certamente.
Volevo uccidervi, e invece mi avete salvato la vita! La mia vergogna e la mia riconoscenza sono indicibili. Se vivo, giuro di servirvi per il resto dei miei giorni e di imporre ai miei figli e nipoti di fare altrettanto. Vi prego, concedetemi il vostro perdono”.
L’imperatore si rallegrò infinitamente dell’inattesa riconciliazione con un uomo che gli era stato nemico. Non solo lo perdonò, ma promise di restituirgli i beni e mandargli il medico e i servitori di corte per accudirlo finché non fosse completamente guarito. Ordinò alla sua scorta di riaccompagnarlo a casa, poi andò in cerca dell’eremita. Prima di ritornare a palazzo, voleva riproporgli le tre domande per l’ultima volta. Lo trovò che seminava nel terreno dove il giorno prima avevano vangato.
L’eremita si alzò e guardò l’imperatore. “Ma le tue domande hanno già avuto risposta”.
“Come sarebbe?”, chiese l’imperatore, perplesso.
“Se ieri non avessi avuto pietà della mia vecchiaia e non mi avessi aiutato a scavare questi solchi, saresti stato aggredito da quell’uomo sulla via del ritorno. Allora ti saresti pentito amaramente di non essere rimasto con me.
Perciò, il momento più importante era quello in cui scavavi i solchi, la persona più importante ero io, e la cosa più importante da fare era aiutarmi. Più tardi, quando è arrivato il ferito, il momento più importante era quello in cui gli hai medicato la ferita, perché se tu non lo avessi curato sarebbe morto e avresti perso l’occasione di riconciliarti con lui. Per lo stesso motivo, la persona più importante era lui e la cosa più importante da fare era medicare la sua ferita.
Ricorda che c’è un unico momento importante: questo. Il presente è il solo momento di cui siamo padroni.
La persona più importante è sempre quella con cui siamo, quella che ci sta di fronte, perché chi può dire se in futuro avremo a che fare con altre persone?
La cosa che più conta sopra tutte è rendere felice la persona che ti sta accanto, perché solo questo è lo scopo della vita”.