giovedì 19 luglio 2018

Monologo su felicità e lavoro, parte 2

Sì ma… non voglio intristirvi. Non è che debba andare sempre così, nella vita. Ci sono spesso degli impedimenti, degli ostacoli, dei ritardi. Ma si può anche scegliere eh! Scegliere. Per esempio… per esempio, quanti di voi hanno scelto il proprio lavoro? Vedete.. . vedete… va beh, come non detto. Però alla fine sì, si può scegliere la propria attività. E figuriamoci. Altrimenti saremmo schiavi, no?
Mi ricordo di una mattina… ero all’ospedale, per una visita. Una cosa semplice, non allarmatevi. Aspettavo in sala d’attesa. Ovviamente. E c’era tanta altra gente, ad aspettare. Così, non mi ricordo come, facemmo quattro chiacchere. Qualcuno ruppe il ghiaccio e cominciammo a parlare delle nostre occupazioni. Di cosa facevamo. Praticamente manco ci presentammo, ma in tempo zero avevamo organizzato una sorta di gara nell’elencare i lavori più inutili del creato! Che strana coincidenza…
C’era per esempio, quello che si definiva uno “scaldaletto”. Io l’avrei chiamato “tester di materassi”, ma era una cosa diversa. Lui non dormiva nei materassi, no. Lui lavorava per alcune persone famose, di stile… e… queste persone famose e di stile… odiavano andare a dormire sui materassi freschi. Avete presente la sensazione no? Quando sei appena entrato nel letto, e senti quel freddino su tutta la schiena, e così anche per le lenzuola. Ecco, per evitare quel fastidioso brivido alle persone famose e di stile, lui s’intrufolava nelle coperte per un poco, giusto il tempo di scaldarle, poi sgusciava via, e lasciava il posto ai padroni del letto.


Un altro, un altro invece… faceva il “controbilanciatore di tubi”, in sostanza, aiutava una coppia di idraulici, una coppia affiatata ed esperta, s’intende. Li aiutava a tenere in equilibrio un tubo mentre loro aggiustavano i collegamenti, le protezioni, le guarnizioni. In sostanza faceva il lavoro di una pietra. E veniva anche pagato!
Poi c’era un ragazzo giovane, ben messo fisicamente, tutto muscoloso eccetera… ecco lui l’ho invidiato. Non solo per il fisico, no. Ma perché lavorava sempre in spiaggia. Ma no, non faceva il bagnino. Lui faceva “l’ammonitore di costruzioni di castelli di sabbia”. Mica scherzi! In pratica lui girava in spiaggia con la divisa, e se vedeva un bambino costruire un castello lo “ammoniva” educatamente, facendogli presente che i castelli fanno inciampare le persone che passano, sono pericolosi e spesso anche brutti. Inoltre, erano palesemente abusivi: Troppa sabbia. E se non bastava, precisava che sono del tutto anacronistici e, soprattutto, che cacchio li fai a fare che tanto domani li butta giù la ruspa o l’alta marea?
Sapeva essere molto persuasivo, il ragazzone.
Una di quelle che rischiava davvero di vincere, era una bionda da panico… tutta… tutta (classico gesto sui pettorali a indicar le zinnone alla Salerno) insomma, chiaro no? Beh, questa faceva… faceva… essì, faceva proprio l’assaggiatrice di sperma. No no no… non pensate male. Non in quel senso. Era proprio una specie di dottoressa. Lavorava in laboratorio. Esaminava una cosa tipo trecento campioni al giorno…
Non in quel senso! Però, è difficile… insomma, pensate alla cosa… per trecento volte doveva star lì ad aspirare con una bacchetta di vetro un poco di… sostanza, per metterla nel vetrino ed analizzare. Ci vuole pazienza. E un po’ di stomaco. Non tanto per la bacchetta, però pensateci… su trecento, in quanti volete che abbiano perfettamente centrato il bicchiere?!
‘Somma dai, magari voi siete dei Wyatt Herp, dei Doc Holiday, dei Buffalo Bill… però… tenere con una mano il campioncino, e con l’altra… somma, l’arma del delitto e fare colpo, Bang centro cento punti. Bisogna esser bravi…
Pensavamo che lei avesse vinto la gara dei lavori più strani ed assurdi, in quella sala d’aspetto. Invece no, c’era anche un “correttore di spam”. Sì sì… questo prendeva malloppi e malloppi di mail pubblicitaria, che chiunque getta nel cestino con un borbottio nervoso, e li correggeva. Pareva anche uno preciso… Sicuramente, non correggeva la mia.
Ma mica è finita. No, c’era anche uno che, assai originale, invece di dirci subito cosa faceva, spiegò che la sua attività consisteva nel forare dei pezzi di carta che le persone portano in borsa. Fare dei piccoli buchi su degli svolazzi. Li odiava quei piccoli fori. Faceva il bigliettaio.
Il migliore però, il più assurdo, era un signore sulla sessantina. Vestito bene. Il suo mestiere consisteva nel confermare varie compravendite firmando l’accordo tra compratore e venditore. La gente arrivava nel suo ufficio, si faceva fare un autografo, pagava e se ne andava. In sostanza, faceva una firma e guadagnava anche duemila o tremila euro per una cosa che non vendeva.
Era un notaio.
Che poi, fu un’attesa divertente. Se pensate che questi siano lavori bizzarri, tranne l’ultimo, s’intende, che si limita ad essere assurdo. Pensate allora a quelli più sinistri: c’è chi ci riempie di subdola pubblicità per farci comprare cose che non ci servono, spesso con soldi che non abbiamo… Ma che la banca potrà prestarci al GIUSTO tasso d’interesse… a quelli che negli uffici di borsa hanno già racchiuso in effimere cifre il destino di molti esseri umani, alle indossatrici di pelli di visone, agli addetti alla sperimentazione sugli animali. Volendo ben guardare, non esiste un lavoro immune da qualche preoccupante malvagità sottaciuta.
Ma alla fine, importa davvero qualcosa? Ma no, suvvia. Nella società moderna… nella società moderna che cosa si produce, a quale scopo, e con quali conseguenze, è del tutto indifferente sia a chi finanzia sia a chi produce.
L’importante è che crei profitto. Che si venda bene. Del resto, vogliamo davvero credere che una cassa d’acqua minerale debba fare il giro del mondo perché non si può trovarla sul posto? Che le arance della Spagna siano meglio di quelle della Sicilia? Che esista ancora il bisogno di un rappresentante di chiodi o peggio ancora un rappresentante di persone?
Ops… questa mi è scappata. Scappata. Fate finta di niente, okkey?
Quel che cercavo di dire davvero, è che in quella stanza, facendoci qualche sana risata prima di farci mettere le mani addosso dal camice bianco di turno, non abbiamo fatto altro che parlare di lavoro.
Mi è venuto in mente quel programma… sapete, quello di Frizzi. Fabrizio Frizzi. Quello che ha perso gli occhiali e ha sposato quella che conduceva un programma dove degli attori litigavano a morte su un copione assurdo e venivano giudicate da un magistrato dislessico.
Quello lì. Ecco, lui ora conduce una trasmissione, mi pare sulla Rai. (Io con la televisione ho un rapporto un po’ particolare…) Dove la concorrente di turno deve indovinare che mestiere facciano il signor x o la signora y, sempre di turno, in base a quanto hanno le mani conciate, a come si vestono, come si presentano e, talvolta, grazie a quanto mai creativi indizi sulle loro allergie intime o alle ricette di cucina che preferiscono. Devono insomma capire la loro occupazione in base ai segni che il lavoro lascia su di loro.
Ecco, in quella sala d’attesa, dove il tempo aveva senso solo nel suo scorrere, anzi, nel suo arrivare, successe una cosa del genere. Nessuno aveva chiesto o detto CHI era; tutti dissero COSA erano. Anzi, come campavano. Da dove prendevano i soldi. Il salario. Di loro non sapevo i gusti letterari o culinari, se avessero dei figli, se facessero lunghe passeggiate in campagna, o se coltivavano ancora quella ormai perduta abitudine di fermarsi a guardare il tramonto, di tanto in tanto. Tutti mi avevano raccontato di come spendevano un tempo assai simile a quello speso in quella sala d’attesa. Un tempo nel quale l’importante non è sentire, vivere, ma concludere il più in fretta possibile. Un tempo in cui il tragitto perde ogni importanza in favore della meta.
In quel tempo lì, in attesa, avevo conosciuto notai, bigliettai, pseudo ricercatrici, simil idraulici, finti bagnini, ma non avevo incontrato nessun Mirco, nessuna Azzurra, nessun Franco. Nessun ragazzo, nessuna donna, nessun uomo. In quel tempo lì, pensai che più o meno tutti noi siamo come spersonalizzati. I nostri lavori, i nostri salari, le nostre spese, sono come ingranaggi, come pezzi di un macchinario molto più grande e più complesso.


Ma io non voglio parlare di macchinari, non mi sono mai piaciuti. Preferisco i pezzi. Ecco, voglio parlarvi di pezzi.

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Mi ricordo di un amico, si chiamava Franco. Lavorava in un’industria meccanica. Era in una catena di montaggio addetta alla costruzione di alcuni… piccoli ingranaggi meccanici, che servivano per collegare i mitra agli aerei. A dire il vero, Franco aveva saputo solo in pensione che quei pezzi meccanici tanto anonimi servivano per esigenza belliche. Probabilmente, se lo avesse saputo, si sarebbe licenziato prima…. se non altro, prima di andare in pensione.
Non m’importa se fosse una frase fatta o meno. Una bella bugia o una bella verità. Quello che qui mi importa, è dirvi perché non è andato in pensione. Non solo per una cosa che non sapeva, ma anche per una cosa che faceva. Il lavoro di Franco consisteva in sostanza nell’infilare un lungo cilindro di metallo in un foro, spingerlo dentro facendo girare una manovella alla sua destra, bloccarlo con una manovella alla sua sinistra, e tagliare spingendo un pedale in basso. Nella pratica doveva usare entrambi gli arti e il piede sinistro come facesse egli stesso parte della macchina sulla quale lavorava.
A volte mi ha fatto venire in mente quel famoso manifesto di protesta in forma di fumetto, che girava nella Francia degli anni 70: dove era rappresentato un operaio alle prese con un macchinario del genere. Si vede questo omuncolo in divisa blu che muove la mano destra su un arnese, la sinistra sull’altro, e la gamba va su e giù su di un pedale. Mentre è tutto sudato e smanetta come un matto con quasi tutto il corpo, il proprietario, gilè sul petto, bombetta in testa e braccia conserte lo guarda fisso, sospira pigramente, e gli chiede: ma non è che potresti fare qualcosa anche con l’altro piede? L’operaio annuisce e gli tira un calcio nel culo.
No, Franco non ha mai preso a calci in culo il suo padrone. Era un tipo pacato. Ma la sua piccola rivoluzione l’ha fatta anche lui: per circa un quarto d’ora, ma quando si sentiva più eversivo anche per venti minuti al giorno, lui non lavorava. Ma non è che incrociasse le braccia e smettesse, no. Era sempre lì con una mano su una leva, l’altra sulla seconda oppure sul tubo, e il piede sul pedale. Ma non faceva i pezzi che doveva fare e che dovevano servire all’industria bellica, seppure non lo sapeva. Che se lo avesse saputo, l’avrebbe lasciato il lavoro. No, lui smanettava sul suo arnese, tutto sudato e seguendo un ritmo… solo che non era più il ritmo della catena di montaggio. Solo che i pezzi che costruiva non erano quelli che avrebbe dovuto costruire. Erano… dei pezzi completamente inutili. Piccole opere artistiche o artigianali che, su quella specie di tornio dove lavorava, lui creava sottraendo quel tempo a quello del lavoro. Erano cavalucci deformi, portamatite, ciondoli, semplici cerchi… non erano certo capolavori, Franco non era un’artista. Non ne aveva il tempo e non era pagato per quello. Ma ogni pezzo era comunque un divertimento, ed era meravigliosamente diverso dall’altro. E, soprattutto, era immensamente diverso dai pezzi bellici. E proprio per quello ogni pezzo era, alla sua maniera, un capolavoro. Ed erano dei pezzi completamente inutili. Non servivano per la guerra. Non servivano al lavoro. Non servivano proprio a nulla.
Eppure, è proprio per quei pezzi che Franco non ha lasciato il lavoro prima della pensione: perché gli donavano una sorta di libertà, di creatività che nella catena di montaggio aveva completamente perso. Nell’inutilità del sudore, lui trovava la libertà della creazione.
La pensava così, il signor Franco. O il numero 322078. Sì perché dove lavorava lui, tutti i manovali avevano un numero di identificazione. Un ID. Il primo numero indicava il paese, perché la ditta di Franco, o del numero 322078 era una multinazionale. Il secondo e il terzo indicavano la ditta all’interno di quel paese, e gli ultimi tre il numero dell’operaio in quella ditta. Lui era il settantottesimo operaio della ventiduesima ditta del terzo paese in cui la compagnia aveva i propri affari. L’Italia. E tutti i pezzi che faceva, erano nominati nella stessa maniera: avevano come premessa il numero di Franco, il 322078, poi la data di costruzione ed il numero del pezzo all’interno del giorno.
Così i capi reparto potevano controllare se lavorava bene. Se faceva abbastanza pezzi. Perché ai tempi Franco lavorava a cottimo. Così faceva una discreta fatica per ritagliarsi quel tempo per la sua attività creativa ed eversiva. E a creare dei numeri che non venivano segnati da nessuna parte. Non sfuggivano solo dalla catena di montaggio, dall’utilità bellica, ma perfino dalla burocrazia matematica che controllava ogni singola azione della ditta dove Franco lavorava, e si ritagliava del tempo per evadere inconsciamente da quella pratica di controllo e, fosse anche per un quarto d’ora o venti minuti al giorno, sentirsi libero. E ci rimetteva anche dei soldi. Ma a lui piaceva così.

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