giovedì 19 luglio 2018

Coincidenze

L’ago è inutilmente disinfettato, il dito teso. Il microscopio pronto per guardarmi dentro. Deposito quella goccia di me e osservo con cura quelle cellule che, nella loro semplice complessità, io sono. Finita l’osservazione chiudo il primo vetrino con un secondo, chiudo il quanto con della parraffina; infilo tutto in una busta: invio.

13 settembre 2007

Jeans neri, un maglioncino bianco aderente, capelli castani ben curati, e Claudia supera le prime dieci tavole della redazione per sedersi, come sempre, vicino a Marco: capelli neri corti, un completo marroncino e il sorrisetto imbarazzato di sempre.

«Come va?»

«Bene… ho ricevuto una strana lettera.»




«Volevo più che altro sapere di ieri notte: hai fatto centro?» Claudia ammicca leggermente, un’espressione tra la soddisfazione e la noia le si disegna in volto: «La solita scopata insoddisfacente.»

Marco torna a guardare la tastiera cercando di trovare qualcosa di decente nell’ennesimo banale concerto organizzato dal comune. Claudia lo incalza. «Che c’è?»

«Niente. Questa lettera?»

«Ah, sì. Stamani mi arriva una busta. Dentro c’è solo un foglio bianco, con una data, e la citazione di un proverbio: “A buon intenditor poche parole” e..»

«Quale data?»

«Dodici settembre. Quella di Ieri.» Marco ride digitando di malavoglia sulla tastiera. «Be’, chiunque sia il mittente, o meglio, l’autore dello scherzo è ottimista sullo stato della distribuzione postale.»

«Però ha sbagliato di un solo giorno, se l’intenzione era quella di azzeccare la data di arrivo.»

«Vero. Il mittente c’era?». Claudia fa spallucce «Sì, ma non lo conosco. Non mi dice nulla. Ed era scritto a macchina.» Marco digita. «Nella busta c’era anche un vetrino, tipo quelli del laboratorio, con del sangue, credo.»Marco si ferma e la guarda in volto. «Sicura? Che ne hai fatto?»

«Ho detto “credo”. L’ho buttato via.»

«Credi sia una minaccia o qualcosa del genere?»

Lei scuote il capo, accendendo finalmente il suo Mac «Ma no… una cavolata.»

«L’hai detto a qualcuno?»

Claudia sorride «L’ho detto a te.» Marco sospira, poi chiude il computer. «Ok. Mi faccio una sigaretta. Stasera andiamo da Arnold’s?»

«Ho un impegno, stasera…»

13 ottobre 2007

Marco fa un cenno verso Claudia. Lei ricambia con un gesto del mento, e dopo qualche attimo speso col caporedattore, si siede al suo tavolo bianco. Il suo portatile, dello stesso colore, sembra quasi un’escrescenza del legno e della plastica sulla quale lavora.

«Ancora, cazzo.»

«Mr sonoioilfigo si è lamentato dei tuoi bassi rendimenti causati dalle tue serate eccessive?» Claudia, però, non sembra troppo in vena di scherzare. «No, mr Geloso. Mi è arrivata ancora la lettera.»

«Quale lettera?» Claudia diventa una smorfietta indispettita «E poi racconti sempre che ti interessa quello che faccio, quello che mi succede, quello che…»

«Ok aspetta aspetta. Ci sono. Quella del vetrino e della data?»

«Sì, lei…»

«Che diceva?»

Claudia fa spallucce «Le solite cose. Una data: Dodici Settembre. Una citazione: “A buon intenditor poche chiacchere”.»

«Poche parole», corregge Marco. «Quel che è. E il vetrino col sangue…»

«Ma, voglio dire, è tanto il sangue?»

«Macché, è un vetrino per il microscopio, credo. Una goccia al centro. Tutto qui.»

«E che hai fatto?»

«Non molto. L’ho tenuto, questa volta. Anche se non so bene perché.»

È allora che Marco apre il cassetto, tira fuori un pacchetto di Lucky, e mostrandole indica col mento la finestra, dove iniziano le scale antincendio. Terzo posto nella classifica dei luoghi della redazione dove si possa fumare: dopo i bagni e l’uscita al primo piano, dove c’è il parcheggio per le auto dei dipendenti. Il caporedattore e chi è sopra di lui sta fuori dalla classifica: loro fumano comodamente nei loro uffici o nella sala riunioni. Si sa, però, che chi è troppo in alto o troppo in basso (come le donne delle pulizie, che fumano nel magazzino) non fanno troppo testo.

Claudia lo segue fuori: dal pavimento di ferro d’inizio scala, si vedono solo altre mura, alle quali sono appese altre scale. Marco le passa una sigaretta; la guarda in volto mentre lei si tende per accenderla. Lui si gira dall’altra parte mentre si accende la sua. Sbuffa fumo denso, leggero, che scivola via tra i gradini superiori, prima di dissolversi oltre i fori della ringhiera. Claudia tira fuori qualcosa dai pantaloni. «Ce l’ho qui, guarda..» mostra la busta a Marco, che la prende; sigaretta in bocca, legge il mittente «Giacomo Brenna. Non ti dice niente?». Lei sbuffa un filo di fumo, quasi inesistente, da quelle labbra socchiuse, scuotendo appena la testa. «Dopo vediamo. E non hai qualche idea? Qualche riferimento? Voglio dire: è piuttosto singolare che qualcuno ti spedisca un vetrino di sangue.»

«Questo lo so, ma no, non ho nessun ricordo. Non trovo nessuna motivazione. No.»

«”A buon intenditor poche parole”: sembra che voglia comunicarti qualcosa.» Claudia spegne la sigaretta sullo scorrimano in ferro e lascia cadere la cicca giù dal terzo piano. «Forse non sono una buona intenditrice.» sospira, prima di rientrare in ufficio. Claudio la guarda fino a che non la vede sparire dietro le tende in plastica, poi schiaccia la sigaretta sotto le Reebok, quindi entra.

Marco prende a digitare. Internet. Pagine bianche on line: “Giacomo Brenna”. «Non mi da niente. Forse per motivi di Privacy. Sarebbe da controllore sui cartacei.»

«Niente neanche lì. Non credo, sinceramente, sia un nome reale.»

«Su google e i social network niente di utile: troppi nomi simili per controllare, a meno che non ti dicano niente. Guarda pure…». Claudia si siede, naviga per un po’; si stende sullo schienale, la testa tirata indietro e i capelli scivolano, lunghi e castani, dietro di lei. «Niente.»

«Se quello del mittente è un nome falso, o comunque inesistente, be’, doveva essere ben certo che la lettera ti arrivasse, altrimenti l’avrebbero rispedita chissà dove.»

«Già…» Marco non può fare a meno di guardarla «Sei preoccupata?». Lei sorride «Oh, no, solo un po’ perplessa. Ora però mettiamoci al lavoro, quello vero, prima che sia Mr. Sonoioilfigo a farci preoccupare.»

13 Novembre 2007

Marco è steso sul divano di pelle marrone. Ettore, il suo gatto – un enorme micio tigrato dagli occhi verdi – miagola appena mentre, con un certo impegno, si fa le unghie sul bracciolo. Marco non lo sgrida neanche più: ormai è più di Ettore che suo, quel divano scucito e bucherellato, ma lì da troppo per potersene sbarazzare senza pentirsi.

I piedi sul tavolino in noce, una Becks in mano, Marco guarda con un certo disimpegno un’antica puntata di Quantum Liptium, quando suona il telefono. Suoneria personalizzata, foto memorizzata per la chiamata: prima di leggere il nome, o anche solo di prendere il cellulare disperso tra i cuscini sa chi è a chiamare.

«Marco, ciao. Scusami… verresti all’Arnold’s? Io sono già qui. Ti aspetto.»

«Tutto bene?»

«Ti dico poi. Vieni?»

«Certo. Arrivo subito.» Fine telefonata.

Marco toglie il gatto dal divano, indossa la giacca ed esce di casa.

Arnold’s è un locale stile autogrill americano. Corti tavoli di legno vicino alla lunghissima finestra che dà alla strada, separati da sottili mura giallognole. Una Harley di fianco al grosso bancone, e un po’ ovunque cornici bianche e nere mostrano foto della Coast to Coast.

Il barista, Arturo – ma che tutti chiamano “Art” – è un omone sulla cinquantina, con la barba e i capelli brizzolati. Indossa spesso camicie di flanella scozzesi e non è mai stato in America.

Sua moglie, invece, non è più tornata in Italia.

Quando Marco entra Art gli indica il tavolo di Claudia. «Vi porto il solito.»

«Grazie Art, Ciao Claudia…» Si siede al tavolo. Lei ha un boccale vuoto davanti a sé.

«Eccomi qui». Art lascia sul banco due Bulldog medie e un piatto colmo di pistacchi, porta una mano alla barba in segno di saluto e torna al bancone. «Che succede?» Marco non lascia gli occhi castani di Claudia. «Altra lettera. Puntualissima.»

«Mh», Marco alza il boccale, lo scontra appena con quello di lei. «Skoll.»

«Dodici Settembre. Proverbio. Vetrino.» Claudia beve un po’ di birra. «Niente di nuovo. Però ho fatto analizzare il sangue sui due vetrini rimasti. Da un amico che lavora al laboratorio ematico dell’ospedale. »

«E..?»

«Ed è sangue della stessa persona.» Lo dice con voce strana.

«Questo me lo aspettavo…» È a quel punto che Claudia butta sul tavolo una mezza dozzina di foto. Tutte di un uomo tra i cinquanta e i sessanta, un po’ grassoccio, dai capelli corti e completamente sbarbato. Sempre vestito diversamente, ma sempre elegante.

«E questo chi è?»

«Mio padre…»

Lui inghiotte il sorso. Fa tremare la testa e dondolare appena le labbra; rimette il bicchiere sul tavolo. «E cosa c’entra ora?»

«Non ne sono sicura…»

«Dimmi, Claudia.»

«Be’, non lo so se lo sai…»

«Non lo so.»

«Mio padre lavorava sulle navi, era un bel tipo. Girava il mondo, ogni tanto mi portava dei regali dai posti più impensabili, forse per compensare al regalo più grande. Quello che non avrebbe mai potuto farmi: la sua compagnia stabile. Restare con me.» Marco può solo restare a guardarla, allungando senza riscontro, senza un perché, una mano sul tavolo. «Poi un giorno partì per il Senegal e… sparì.» Claudia non piange, niente, rimane solo a guardare la mano di Marco, abbandonata sul tavolo. «Io e mia madre non se sapemmo più nulla. Il Governo lo diede per disperso. Io ero poco più che una bambina. Qualche anno dopo lo considerai disperso anche io. Mia madre no. Mai. Sperava di rivederlo prima di morire. Ma non fu così.»

«Claudia…»

Lei beve, sorride pensierosa. Se ha qualche traccia di malinconia, la nasconde bene. «No. Non ti preoccupare. Non sono triste: è passato un sacco di tempo. Solo..»

«Solo?»

«Solo mio padre è sparito il dodici Settembre di vent’anni fa. Avevo dodici anni allora.»

«Il dodici Settembre.»

«Sì.»

******

Claudia è seduta davanti al tavolo della cucina. Un tavolo grosso, quadrato, ricoperto di plastica ignifuga. La cucina è moderna e a muro. I toni sono quelli del bianco e del grigio. Su tutto troneggia un grosso lampadario a imbuto, ricoperto di fiori secchi e con una luce bianca ospedaliera.

Marco le porta il caffè e si siede vicino a lei. «Sei proprio sicura che sia lui? Dopo tanti anni?»

Lei sorseggia e fa spallucce. «Non vedo chi altri: il mio indirizzo, la data esatta in cui è scomparso, e tra l’altro il gruppo sanguigno dei vetrini è uguale al mio.»

«Ah…»

«Già..»

Marco butta altre due zollette nel caffè e beve. «Ma l’esame del DNA l’hai fatto fare?»

«No. Mi sa di cosa complicata, e comunque non vedo chi altri..»

«Il gruppo sanguigno, in fondo, vuol dire e non vuol dire..»

«Sì ma..»

«Ma c’è tutto il resto» Marco annuisce «Però io lo farei fare lo stesso, che ti frega?»

«Già. Che mi frega?»

«Non volevo dire..». Lei lo ferma. Si alza appena dalla sua sedia, si scosta di poco e lo bacia appena sulle labbra. Un soffio leggero. «Lo so..»

13 Dicembre 2007

Marco e Claudia sono sul divano di lui. Il gatto si gratta le unghie in mezzo a loro, che si limitano a guardarlo. «Tanto ormai..» butta là Marco, mentre lei guarda le fiamme appannate dietro al vetro scuro della stufa in ghisa. «Allora mi dicevi che ti sei finalmente decisa a far fare l’esame, no?» Claudia versa il tè nero nelle due tazze: una rossa e classica, l’altra bianca e nera, a forma di muso di mucca. «Sì. Quasi una decina di giorni fa. Come pensavo era una cosa un po’ complicata.»

«E allora?»

«E allora lo era davvero. Ci hanno messo molto», sorride lei.

«Dai, dimmi.» Insiste Marco.

Lei sospira, nel farlo sparge il fumo de tè bollente davanti a sé. «Non è il suo.» Lui le si avvicina per istinto. Le prende una mano. «Ed è certo?». Claudia annuisce. «Certissimo. L’analista – per capirci – mi ha detto che non siamo neanche lontanamente parenti. Figuriamoci mio padre.»

Lui la guarda. «Non so se mi sarebbe piaciuto. Se fosse stato lui sarebbe vivo e vegeto e non si sarebbe fatto vedere da vent’anni, per poi farlo con questo mezzo ridicolo».

«Invece, se è morto come pensi, ha una buona scusa per non farsi sentire.», scherza lui. «Decisamente.»

Marco le si avvicina ancora, il gatto salta sul braccio del divano prima di finire schiacciato, ma Claudia si scosta quando le suona il telefono. Lo mostra sorridendo e scuotendolo appena nella destra. «Parli del diavolo. È l’analista.»

«Pensavo tuo padre», scherza Marco mentre lei ascolta dal cellulare. «Be’ dimmela questa cosa.»

«Perché? Uffa, va bene. Vengo io. Arrivo subito. Come minimo mi offri un caffè».

Marco aspetta. Lei chiude il telefono, lo tiene un po’ in mano in silenzio. «Dice che ha novità per l’esame. Che non mi vuole dire per telefono. Devo andare da lui.»

«Credi che abbia sbagliato qualcosa nel confrontare i DNA?»

«Non lo so. Vado e te lo dico.»

«Ti accompagno?»

«Ma no, ti chiamo poi io. Grazie.»

******

Notte fonda. L’Arnolds ormai ospita solo loro due, il vecchio Arty e la sua Harley.

Sua moglie non è ancora tornata, e pare non ne abbia nessuna voglia.

Claudia e Marco sono al solito tavolo: oltre la loro finestra la città è buia e deserta.

Lei piange.

Le sue mani sono sulle spalle di lui; il viso sul petto. Marco la stringe, impotente, non sa cosa le succede; la stringe e una mano le sfiora i capelli castani: la coccola e non sa perché, poi lei inizia a parlare «Non è mio padre. No. Non è un parente. Nessun cazzo di parente.» Lui la stringe al suo petto. «E’ uno stronzo. Un maledetto stronzo.». Marco le prende le spalle, la scosta appena per poterla guardare dritto negli occhi castani. «Claudia, non capisco. Cosa succede?».

Lei si rimette contro di lui e lo abbraccia; la guancia sul suo petto e continua «Dodici Settembre. È una merdosa data del cazzo. Non è solo sparito mio padre, ma io ho fatto la più grossa cazzata della mia vita, Marco.» Lui le guarda la nuca, semplicemente ascoltandola. Semplicemente accogliendola. «In quella stessa data, l’anno scorso. Dico il 2006. Eravamo in una discoteca. C’eri anche tu..» lui cerca di ricordare. «E con noi Sabrina.» Claudia strofina appena il volto sul suo petto, consolandosi sul suo pail «Vicino a noi c’erano due tipi. Paurosamente checche. Parlammo della cosa ». Lui comincia a ricordare qualcosa.

«Sparavamo stronzate: che in realtà un qualsivoglia etero potrebbe diventare gay, ma anche un gay potrebbe cambiare sponda. Sabrina mi propose una scommessa: provare a far fare il salto ai due, o almeno a uno dei due. Così poco dopo andammo a tampinarli, scherzando riuscimmo a fargli fare un ballo. Tutto qui. Però io puntai quello meno convinto. Voglio dire: con meno lustrini eccetera. Meno donna.»

«Non capisco dove..»

«Aspetta. A fine serata lui mi lasciò il numero e così ebbi una mezza vittoria su Sabrina, che ottenne solo una stretta di mano un po’ flebile. Non era finita lì. Per due o tre giorni lo chiamai io. Volevo vedere quanto sarebbe andata avanti la cosa. Poi mi chiamò lui.»

«Una decina di giorni dopo in tutto eravamo a letto insieme.»

«E hai vinto la scommessa.»

«Bella scommessa del cazzo. Ovviamente la cosa non durò, da quella scopata, più di una ventina di giorni. Ma in quei venti giorni ci siamo sempre visti. L’avevo fatto impazzire sul serio.»

«Non ne dubito…» sospirò Marco.

«Finì tutto e finì male. Per togliermelo dai piedi gli dissi la verità: che era solo una scommessa femminile e non me ne fregava un cazzo. Lui ci andava troppo sul serio e a me non interessava davvero.»

«Gran bel colpo!»

«Sì, per me, però: qualche giorno dopo mi chiamò il tipo che era con lui in discoteca. Incazzato come una faina, mi disse che ero una troia, me ne disse di ogni. Che era colpa sua se si erano lasciati, che stavano insieme da anni ed erano una coppia perfetta, si amavano e tutto quanto.»

«E poi?»

«E poi mi urlò dietro che tutto era finito per una scommessa di una stronza. Che l’avrei pagata.»

«E tu?»

«Io non lo presi in considerazione. Dissi che se il suo amico era venuto con me era perché non lo amava poi così tanto. Che forse preferiva la figa. E, insomma, di andare a fare in culo.»

«Poi non si fece più vedere. Fino a quel fottuto tredici Settembre. Quando arrivò la prima lettera.»

«E cosa vuole? L’hai sentito di nuovo?»

«No. Solo quelle lettere. Quel sangue. Quel sangue, Marco, è del tipo che mi scopai per quella dannata scommessa. E quel sangue è infetto.» Marco la prende per le guance e la guarda in faccia. «Che cazzo vuol dire infetto?». Lei arriccia il viso, e quasi schizza lacrime da quegli occhi castani, bagnati, stupendi. «Vuol dire che. Vuol dire che ha l’AIDS, e ora ce l’ho anch’io.»

Marco non sa cosa dire. «Ma… ma non è detto. Lo sai che non sempre..»

«No, no. Lo so: ho fatto anche io il test e sono risultata positiva: ho l’AIDS.» Marco la stringe «Io, io non so cosa…»

«Una scommessa. E quello era un’arma e non lo sapevo. Forse neanche lui. Ma il suo amico deve averlo scoperto, e ci ha tenuto a farmi sapere che quella sera avevo decisamente perso. Perso più di quanto abbia perso lui. Ora… Ora sono anche io un’arma.»

«Claudia…»

«La gente mi allontanerà. Mi scaccerà. Io sono… tutto per una fottuta sera.»

«Io non ti allontano. Io sono qui, Claudia. Io resto con te.»

Lei lo guarda negli occhi. E in quegli occhi la vede, quella follia. Quella decisione, e scuote il capo. Di colpo si scosta e si alza. «No, Marco. Devi allontanarti. Io sono un’arma.»

Lui fa per prendergli la mano ma lei si scosta bruscamente. «Lasciami. Sono un’arma.» corre verso l’uscita. Marco la segue.

Arty li guarda straniti, ma sulla soglia Claudia si ferma. «Lasciami andare», piange. «Non seguirmi, stasera. Ti prego.» Marco perde il respiro per qualche secondo, mentre la fissa. «Va bene.» Un passo in avanti «Ma non fare follie.» fa per avvicinare il suo viso al suo, ma Claudia si sposta ed esce in strada. «Neanche tu…»

******

Pulisco le suole delle Reebok dalle tracce che il mondo mi ha lasciato, suono il campanello ed aspetto che apra. Stormi di pensieri bizzarri, inaspettati come rondini d’inverno, mi guizzano nel cervello,volteggiano rapidi, affinché non possa coglierne la forma.

L’attesa, nel silenzio urlando, mi spinge alla fuga: girare i tacchi e andarmene. Rimanere. E’ una follia. Una stronzata, tremenda, tremenda stronzata .Vado? Resto? Vado?

La porta si apre decidendo al posto mio, rivelando l’irrimediabile.

Lei.

È troppo: non dà scampo. Labbra sottili, ancora più vermiglie su quella pelle bianca, gli occhi castani e pieni di forza, nonostante tutto. Il cappello a nasconderla. Le forme a scrivere vita, a donare desiderio. Mi è ancora distante d’un paio di pantaloni, neri, e una camicia rossa, come la mia voglia. Chiudo la porta, senza perderla, lei comprende, mi guarda, s’angoscia. È altro tempo, un’altra chance, ma no. No. L’impulso alla vita non cede all’istinto di sopravvivenza.

La raggiungo, accorcio i dubbi e i centimetri, fino a cancellare entrambi, gli uni con gli altri: ogni unione è irreversibile, e questa, è decisiva; dopo, niente è come prima. Il dovere si dissolve nel volere e sfocia nel bisogno.

Le strappo la camicia. Lo sguardo implora di salvarmi, no, la prendo per le caviglie e la faccio cadere a terra, con uno strattone le levo i pantaloni; mi tolgo i miei.

I suoi occhi: la superficie nega, rifugge, avverte celando il desiderio, l’istinto; l’istinto mescola l’amore, l’amore l’istinto, distinguere non posso.

Sono su di lei, liberarla dal reggiseno e strapparmi la maglia sono un unico gesto, le labbra si uniscono fino a far male, le lingue si confondono, il petto schiaccia il seno, il seno il petto. Groviglio di gambe, di braccia, di sessi. Follia.

Esco dalle mutande e le entro nel ventre.

Spingo, stringo, spingo. Ancora. Le sue dita sui fianchi, unghie lunghe, mi entra dentro. Lo voglio. Ancora.

Il suo gemito è il mio, la saliva un’alchimia, il sudore una doppia coperta.

Tentiamo di fonderci, questo vogliamo, il suo odore mi contagia, la voglia mi contagia,

la malattia, anche. Voglio tutto di lei; anche la sua morte. Spingo, Spinge. Grido, grida. Le esplodo dentro.

Si rilascia da me, esco da lei. Le sue mani sul mio volto: stringono. Gli occhi nei miei: placcano.

Segnano la stessa fine. Le carezzo piano le labbra, lentamente: tolgo le tracce che al mondo ho lasciato.



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