giovedì 19 luglio 2018

Utilità

Alcuni gesti nervosi dei tecnici dello studio lo informarono del tempo limite. Fabio socchiuse gli occhi, non per fastidio, ma per noia; col plettro accarezzò le ultime note della sua canzone, nella sala di registrazione. La sentì risuonare ancora un po’, poi fece un cenno verso i fonici di là del fumoso vetro, e uscì.
Sul portico esterno, Marco, il bassista, lo raggiunse – Che hai?
Fabio si accese stancamente una sigaretta – Non mi piace, Marco, non solo non sfonderemo mai, ma non trovo più senso in quello che faccio, nelle nostre canzoni.
– È difficile, ci vuole tempo.
– Sì, ma non sempre c’è, e sto perdendo il gusto: nessuno apprezza il nostro lavoro – e avrebbe volentieri continuato così, come da tempo, ma il telefono lo interruppe. Era l’ospedale.
Marco vide il suo viso dapprima tirarsi in una maschera di terrore «è per suo figlio, ha avuto in incidente… in motorino» per poi rilassarsi lentamente «no, non si preoccupi, é solo una distorsione… al braccio. Solo per accertamenti sarebbe meglio…»
– Devo andare…
Marco annui – sì, ne parliamo poi.
Salì sulla Guzzi, e andò all’ospedale. Veloce passaggio al centralino, poi nella 404.
– Allora, che hai combinato?
Il ragazzo stava steso sul letto, una fasciatura al braccio destro – Eh…ho frenato sulla ghiaia e ho perso l’equilibrio.
– Bravo – infierì ironicamente il padre.
– Hanno detto che non hai nulla di che, ma per sicurezza preferiscono tenerti qui sta notte, d’altra parte saresti costretto a tornare con me in moto, oggi: non è il caso, anche se almeno non rischieresti di cadere – sorrise
– Ah! ah! –  fece la smorfia del figlio – Piuttosto, come va il lavoro, sei ancora in crisi?
– …Vago nell’inutilità.. – non trovò altre parole, ma solo un sorrisetto amaro – Ma…vedremo, e… a domani.
– Sì…buonanotte.
Fabio gli passò la mano fra i capelli, gesto che sapeva quanto il figlio odiasse, prima di uscire dalla stanza.




Camminò seguendo il caso per l’ospedale, preso dai suoi pensieri; vide un’ausiliaria che rimetteva in ordine i vassoi: lavoro utile. Un medico che controllava una cartelletta in corridoio, muovendosi accigliato verso una stanza: utile. Una signora delle pulizie lustrare il vetro di una sala d’attesa: utile.
Si chiese a cosa mai potesse servire uno che scrive qualche canzone ascoltata solo da radio locali, fingendo di non conoscere  intimamente la risposta: a nulla.
In compagnia di questi pensieri si accorse di essere entrato nel reparto di rianimazione. Forse anche lui, in un certo senso, ne aveva bisogno. Camminava distratto e pensieroso lungo il corridoio che dà alle stanze dei pazienti di quel reparto, stanze protette da un vetro cupo, che par rievocare la nebbia di Milano sulla superficie semitrasparente del divisorio tra medici e pazienti.
Una signora, dal viso segnato dal troppo piangere, gli si fece incontro – Fabio Venturi, è lei!
Fabio fece in tempo a sgranare gli occhi, a  deformare appena la bocca, non a risponderle: coperto da un camice azzurro e una cuffia bianca, si ritrovò in una delle camere del reparto. Su un lettino, una ragazza sui sedici anni, pallida, incosciente. Troppi macchinari, luci, tubi si alternavano a tenere in vita la sua giovane tragedia. Anche un piccolo apparecchio inutile: un piccolo lettore mp3, che le faceva ascoltare da sei mesi, senza sosta, delle canzoni. Quelle di Fabio.
Osservò il gesto ansioso della madre di là dal vetro; gli ricordò quello nervoso dei tecnici dello studio di registrazione.
Fabio annuì alla donna ed entrò nella stanza. Si avvicinò alla ragazza e, lentamente, le tolse dall’orecchio un lato della cuffia, per  avvicinarsi con la bocca, e cantare, dolcemente, la sua canzone: una ninna nanna che un figlio dedica al padre in guerra, e racconta della sua speranza che ritorni a casa.
Francesca ascoltò a lungo e sospirò appena, la pelle ebbe come un fremito, poi un sussulto. Senza troppi avvertimenti, si svegliò. Rimase immobile per alcuni istanti, fissando Fabio. Non disse nulla con le labbra, seppure fosse improvvisamente in grado di farlo, ma raccontò tutto con gli occhi, poi, sentì il bisogno di abbracciarlo con forza.

Il giorno dopo Guido, il figlio di Fabio, si svegliò nella sua stanza, e chiese se il padre fosse arrivato a prenderlo.
L’infermiera ebbe un sussulto, cercò le parole giuste mentre gli sfiorava appena la testa con la mano, come era solito fare il padre  – No, mi spiace… Guido, c’è stato un incidente… è in coma.

Nessun commento:

Posta un commento

Dimmi che ne pensi