mercoledì 18 luglio 2018

I pensieri di Goccia



Due o tre cose su Goccia



Goccia conosce Spina. A volte uno punge l’altro. A volte uno disarma l’altro.
Goccia è un ragazzo, poco più, poco meno. Difficile dire perché lo chiamano così. Forse perché è grassottello, anzi, praticamente morbido e paffuto. Forse perché è delicato quanto una goccia: potrebbe evaporare o asciugarsi in un istante. Forse perché su una mano ha un tatuaggio, o più probabilmente una voglia che assomiglia vagamente ad una goccia.
… I tre puntini. Goccia è come i tre puntini (ma sono diversi e simili da quelli di Spina): sembra in sospensione ed in dissolvenza. Come una pausa tra le note di una musica. Più lo sciabordio di un’onda, che la sua vetta più alta.
I pensieri di Goccia


[Il messaggio di Goccia, come quasi intuibile, mi è arrivato tramite un messaggio contenuto in una bottiglia di vetro lasciata nelle acque del mare. O forse era un lago…]


Dov’è la gioia?





Tempo fa ho visto quella bella e famosa immagine che disegna gli introversi come racchiusi dentro una bolla di timidezza ed isolamento. Una sorta di sottile barriera che loro hanno per difendersi dal mondo esterno. Non è che abbiano paura di essere attaccati o colpiti da chissà quale violenza. Semplicemente, sopportano a fatica la confusione, la continua presenza o il chiasso del mondo fuori da quella bolla.


Se ti avvicini troppo bruscamente, la bolla si spezza e così la difesa dell’introverso, e allora questo va in panico; perché, in fondo, quella bolla è una parte di loro. Se la spezzi, li hai anche un po’ feriti.





Mi è sembrata una bella metafora della mia condizione. Quella barriera, quella bolla che ci racchiude, un po’ ci imprigiona, un po’ ci difende. Faccio fatica a comunicare oltre a quella bolla. Non è che non voglio: il mio denso silenzio vorrebbe alle volte essere un grido, a volte un discorso lunghissimo, a volte, ancora, una chiacchierata spontanea e infinita.


Il mio silenzio è ricco di tentativi falliti, di parole sospirate ma non dette, di comunicazioni lasciate in sospeso. Però, vi prego, fidatevi, il mio è quasi sempre un silenzio dolce, non un silenzio amaro. Un silenzio primaverile e non invernale.


Cosa vuol dire? Che differenza c’è?



Nel primo tipo di silenzio, per farvi capire, cresce l’erba, i fiori raccolgono la loro energia per poi poter crescere e offrire il loro calore. Nel primo silenzio, un artista si potrebbe racchiudere per pensare e meditare la sua storia: ancora non l’ha creata, non l’ha scritta, o disegnata, o messa in materia, no; ma le sta semplicemente… come dire… dando le condizioni d’esistenza. È un silenzio che vuole ospitare, pur non avendo la spontaneità ed il coraggio della parola. In questo silenzio la distanza si colora di un tepore affettuoso, per quanto malinconico.


Il secondo tipo di silenzio, è un silenzio che non genera né arte, né erba, né colori. A volte, invece, distrugge e, se non distrugge, si limita a lasciare tutto in stasi. In un silenzio del genere l’artista sta semplicemente racchiuso tra le ginocchia e le braccia, come una sfinge, completamente schiacciato dal peso del mondo. In questo silenzio ogni distanza diventa siderale.


Fidatevi, quando vi dico che in questa bolla si respira il primo tipo di silenzio…


Silenzio.


Vorrei toccarvi, ma posso farlo solo con la scrittura.


La scrittura è un linguaggio, un mezzo, una comunicazione particolare: mi permette – come fosse una vibrazione – di oltrepassare le pareti della bolla senza romperla. Forse è l’unica strada per mettere in azione la possibilità del silenzio.


In questo silenzio, mi chiedo e vi chiedo: dov’è la magia? dov’è la gioia?

Non affrettatevi a cercare tra le mie parole. Cercate nel vostro, di silenzio. Magari anche nel buio che trattenete, se volete, sotto le palpebre: in quel calore che potete creare, con la giusta atmosfera, dentro agli occhi e sotto la pelle.


Forse la gioia è proprio in quel primo silenzio.


Forse è nel tempo: non il tempo che scorre e che si misura. Ma quel tempo che sembra nascere nel tempo. Non è facile da spiegare…


C’è un tempo, e poi, improvvisamente, quando facciamo qualcosa di magico, ne nasce un altro, che sembra crescere in verticale su una linea orizzontale. Un tempo profondo, più che esteso.


Respirate lentamente, guardate il palmo della vostra mano, tenuto leggermente arcuato, con le dita aperta, come se ci vedeste crescere un germoglio, o un fiore stupendo.


Forse quel fiore nasce con la musica giusta nell’esatto momento in cui dovete ascoltarla.


Forse nasce quando, in un periodo di profonda noia o tristezza, una sola parola regala un’atmosfera completamente diversa non solo a quelle ore, ma anche ai vostri ricordi, alle vostre speranze.


Forse, ancora, nasce in un momento di creatività inaspettata, in cui quello che prima sembrava terribilmente difficile diventa facile, quasi naturale. E cresce.


Forse nasce da un contatto trattenuto e poi lasciato scorre fra due dita che si sfiorano, o quattro occhi che si guardano.


Forse nasce da una risata improvvisa e genuina, o da un gioco che non ha altro scopo che l’essere un… gioco.


Forse quel fiore nasce in una sorpresa che vi sorprende al momento giusto, e se non siete tanto distratti da capire che quello è il momento giusto (può capitare, e non dovreste giudicarvi troppo male per questo) può capitare di perderlo.


In fin dei conti, se si ritrova quel silenzio, via via diviene più facile riuscire a cogliere quei momenti giusti.


Ci vuole però un’attenzione tremenda, una capacità di rallentare quando tutto sta andando di fretta, quando tutto sembra scandito. In quei momenti lì, allora credo che il fiore riesce a trovare la forza di crescere, e la magia può spuntare.


Ma il mio è solo un messaggio in bottiglia, è una vibrazione scritta oltre la mia bolla. Il mio momento può essere diverso dal vostro, ma tutti, credo, abbiamo bisogno di domandarci qualcosa del genere, di tanto in tanto.


Dov’è la gioia?


Dov’è la magia?


Dove cresce quel fiore?





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