giovedì 19 luglio 2018

Le case cambiano



Lei gli levò la mano dalla coscia, prima di passare la sua sul finestrino appannato, creando una sorta di finestrella a oblò, attraverso la quale si vedeva la panoramica di un lungo marciapiede che costeggiava un anonimo complesso residenziale. «Aspetta! Aspetta… ora arriva, sono le nove. Ora arriva.»
Federico sbuffò leggermente stizzito, accostandosi al viso di Giulia, per sbirciare a sua volta fuori dal vetro. Era una serata nebbiosa, pallida. Passava poca gente: individui soli o al massimo in coppia, nessun grido, nessun inseguimento, niente di affascinante da guardare. Solo un cancello oltre il quale si innalzava un palazzone amorfo e grigiastro, non diverso dagli altri classici formicai di periferia della grande città. «E poi mica è detto che arrivi ora, anche i più abitudinari cambiano, o sbagliano. Nessuno è… così tanto una macchina.» Giulia scosse la testa, divertita.«Lui sì. Sono quasi le nove. Sarà già andato al solito ristorante a mangiare», pulì meglio il finestrino, allargando l’oblò per ampliare la superficie di quel singolare schermo. «Poi va sempre al solito discount a fare un po’ di spesa: l’indispensabile per un giorno, non di più.»
«Sei una cazzo di stalker», le rise dietro Federico.
Lei rimase quasi offesa, poi si tuffò in una apparentemente lucida replica: «Nah. Non capisci: lui è un emblema, un simbolo. Un totem. È l’essenza stessa dell’abitudine, della ripetitività. E forse anche del non senso delle cose. Ripete le stesse cose negli stessi orari. Un po’ lo facciamo tutti, costretti o meno, ma in questo lui è l’apice, la perfezione. Seguirlo vuol dire verificare che… »
«Deve essere un filosofo, allora.»
«Cazzo c’entra?»


«Mai sentita la storia del villaggio di Kant? Konigsberg o come diavolo si chiamava…»
«No. Non so neanche chi cazzo sia Kant se è per quello», replicò Giulia, ancora attenta a guardare fuori dal finestrino. Intanto Federico diede un’occhiata all’orologio sul cruscotto della Panda: segnava le 20.57.
«Beh, era uno che pensava che l’uomo ha in sé la morale, ed il mondo è tale perché noi lo percepiamo secondo certi schemi mentali e… » scrollò le spalle, accendendosi una sigaretta con un accendino fuxia. «Non fumare in macchina», lo ammonì Giulia, ma lui continuò.
«Lo dici sempre, ma questa carretta sa sempre di fumo: è il suo bello.» Lei neanche rispose, continuò a guardare fuori dal finestrino.
«Comunque… questo Kant era famoso anche perché, oltre a dire stronzate di vario genere, era un abitudinario da guinnes: si svegliava sempre alla stessa ora, mangiava secondo gli stessi orari, e tipo alle 17, cascasse il morto, faceva una passeggiata intorno al villaggio.» Sbuffò un cerchio di fumo impreciso dalle labbra «Era talmente in fissa, talmente preciso con gli orari e le abitudini che i cittadini di Konigsberg, o come cazzo si chiamava, regolavano l’orologio a seconda di quando lo vedevano in giro: quando usciva di casa per la passeggiata, erano le 17. Spaccate.»
«Ecco, allora, filosofia e stronzate a parte, Lui è Kant.»
Intanto, scoccarono le 21.
«Guarda!» Gridò Giulia, «eccolo!». Puntuale come un orologio svizzero, infatti, un uomo dimesso, abbastanza alto, dai capelli neri e vestito di un completo grigio modesto si avvicinava al cancello, sorreggendo nella mano sinistra una classica valigetta da impiegato, nell’altra, un sacchetto di plastica della spesa. Giallo, di quelli ecosostenibili che se ci metti dentro una scatoletta di tonno in più ti finiscono indecorosamente sulle scarpe, o meglio, ti crollano dolorosamente sui piedi. L’uomo si accostò lentamente al cancello. Posò con cura il sacchetto a terra, aprì la porta ed entrò. I due ragazzi in macchina lo seguirono con lo sguardo finché poterono, poi l’uomo si disperse dietro uno di quegli anonimi immobili. Pochi minuti dopo una luce al terzo piano si accese.
«Fra tre ore la spegne, e va a dormire: non credo esca mai dopo essere tornato a casa.» In quell’istante Federico la guardò ancora più stranito, quasi preoccupato. «Mi fai paura.»
Lei scosse la testa. «Te l’ho detto, l’ho scoperto per caso. Perché il mese scorso andavo in palestra non lontano da qui e lo incrociavo sempre quando tenevo gli stessi orari. Non so perché mi ha preso il tarlo di vedere se era sempre così preciso e… l’ho preso come un esperimento: è una sorta di idea platonica dell’abitudinario.»
Federico spense la sigaretta schiacciando la cicca nel posacenere della macchina, scuotendo un poco la testa e sorridendo. «Siamo passati da Kant a Platone, e tutto ciò solo per fare gli stalker e, soprattutto, perché stai cercando una scusa per non andare in camporella.»
«Per quello sarebbe bastato il mal di testa: invece no, è che questa cosa mi ha fatto pensare…»
A quelle parole Federico sospirò. «Non fate i pensatori, fate l’amore», ribadì sorridendo, seppure fosse un poco annoiato da quella situazione; ma la ragazza lo guardò di traverso, come se il suo sguardo lo trapassasse, e lui fosse fatto di fumo destinato a dissolversi. Lo stesso fumo che vedeva uscire, ancora caldo, dal posacenere della sua Panda. «Ti avevo detto di non fumare…», recitò piano, distratta, ma non gli lasciò il tempo di replicare. Del resto, sapeva già come avrebbe risposto, e non aveva voglia di litigare. La sua mente era ancora altrove, per quello d’improvviso chiese: «Quando abbiamo fatto l’amore l’ultima volta?»
A quella domanda Federico si risvegliò di colpo «Troppo tempo fa.» Replicò in un misto di speranza e vaga depressione.
«Te lo dico io: settimana scorsa, circa a quest’ora. Infatti oggi siamo usciti per quello, solo che a me è venuta in mente questa cosa, e siamo venuti qui a vedere…»
«A vedere Kant.»
«Già…» sospirò lei pensosa, mentre giocava con il cruscotto, aprendolo e chiudendolo ripetutamente, in un ripetersi di gesti e rumori borioso e monotono, dei quali non si accorgeva neppure. «Alla fine siamo come lui: ingabbiati negli orari, nelle abitudini, nelle cose che siamo costretti a fare. In quelle che facciamo per la società, quelle che dobbiamo fare per gli altri. Non facciamo mai nulla per noi. Nulla che vogliamo davvero fare.»
«Potevamo andare in camporella!», ribattè lui, fintamente piccato.
«Sì, noi siamo quelli che fan l’amore di martedì.»
«Eh… meglio di quelli che lo fanno a settembre.» Rispose sconsolato Federico.
«Uffa, quel che voglio dire è che sono venuta qui a seguire ‘sto tipo, perché pensavo fosse strano, e trovavo la cosa divertente, ora che mi accorgo di essere come lui anche io, e che forse lo siamo tutti, mi sta venendo la depressione: forse non c’è salvezza, non c’è via di uscita.»
Federico gesticolò con la mano, prima di posarla sul volante. «Ora esageri. Io sono certo che, se lo vogliamo davvero, possiamo guidare la nostra vita dove vogliamo. Basta poco.» Mosse appena il volante, finché il gioco del medesimo glielo consentì. «Anzi,» continuò, «Sono pronto a scomettere, che se lo seguiamo davvero per una settimana, perfino Kant esce dai suoi schemi. A tutti capita un imprevisto, una voglia improvvisa, una coincidenza, che ti fa uscire dai piani, nostri o della società, o di chi preferisci», lasciò il volante, per sfiorare delicatamente la coscia di Giulia. «E alla fine sono questi imprevisti, queste sorprese che rendono bella e piacevole la vita. E se possono capitare a Kant, allora c’è speranza per tutti» le sorrise.
A quelle parole Giulia annuì sorridendo dolcemente «Scommettiamo?» domandò avvicinando la bocca al suo orecchio.
«Sì, certo…», replicò lui, continuando a carezzarla. Lei ammiccò di nuovo, posando la testa sulla sua spalla. «Facciamo l’amore», sussurrò.
Per una settimana, quindi, seguirono Kant. E per sette giorni sette, non sgarrò di più di tre minuti, volendo essere larghi. Alle otto precise usciva di casa, oltrepassando – valigetta in mano – l’anonimo porticato del suo residence. Metrò, lavoro alle 9. Lavorava come impiegato in una grossa ditta che, a dire il vero, Giulia e Federico non avevano capito a cosa servisse e ciò, naturalmente, non faceva che alimentare la loro inquietudine. Pausa dalle 12 all’una, dove mangiava in mensa e, se aveva tempo, si faceva un caffé con canna da zucchero nel bar vicino. Sì, i due stalker avevano notato anche quello. Erano bravi, nella loro mania.
Dopo la pausa pranzo, Kant lavorava fino alle 18. Uscito dalla ditta dallo scopo talmente generico da non aver un senso – sempre secondo Giulia e Federico – si spostava al solito ristorante, dove mangiava per bene. Il “per bene”, qui significa un pasto completo: primo, secondo, contorno e dolce. Tutto, antipasti a parte: non era tipo da aperitivi ed antipasti.
Quindi breve spesa al discount, quello con i sacchettini gialli ecosostenibili, e quindi tornava a casa. Entrava dal grigio cancello, borsa e sacchetto in mano, e saliva al terzo piano: la luce restava accesa circa tre ore, poi si spegneva. Presumibilmente allora il signor Kant dormiva fino alle sette, e quindi si preparava, usciva di casa alle otto, e così via.
Per sette giorni sette, il ciclo fu continuo, a suo modo elegante e perfetto nella sua meccanica e puntuale precisione. La scommessa era persa, e aveva provocato una doppia sensazione in entrambi gli stalker: da una parte, dava loro una sorta di sicurezza, una piacevole tranquillità. La stessa che dovevano provare gli abitanti di Konigsberg quando, alle 17 spaccate, vedevano passare il filosofo per la via, bastone da passeggio alla mano. Dava loro la tranquillità della routine e, forse, qualcosa di più profondo: la certezza che le cose non cambiano. Era angosciante ma, in un certo senso, era come avere un punto fisso, una stabilità senza la quale tutto avrebbe potuto essere caos. Inoltre, ormai erano diventati amici di Kant, o meglio, lui non li conosceva neanche e, forse, non li aveva neppure notati in questi giorni. Ma loro si erano come affezionati a lui ed alla sua vita monotona, perfettamente scandita in sessioni di orari, che donavano loro come una fedele struttura a cui affidarsi, su cui poter contare. Se si fosse rotta, avrebbero vinto la scommessa, e forse avrebbero visto uno spiraglio di luce, una piccola via d’uscita, in quella che cominciavano a vedere come una sinistra gabbia kafkiana, fatta di doveri, abitudini, gesti inutili e ripetitivi. Al contempo, però, avrebbero perso un punto d’appoggio, ed un amico.
Dall’altra parte, questa settimana scandita dalla perfetta routine di Kant, li aveva come fatti rassegnare: forse ci si può solo accorgere di quella struttura, di quella gabbia, e prenderne coscienza è un modo per liberarsene in parte, almeno nella testa. Farlo poi praticamente, era molto più difficile. Le famose coincidenze che dovevano aprire nuovi spiragli nella vita dell’inseguito, come aveva inizialmente predetto Federico non erano arrivate. I suoi giorni erano scanditi in una schedulazione a tenuta stagna. E questo li inquietava: in specie perché, in fondo, quella era una vita a cui molti aspiravano. Non certo una vita entusiasmante, ma una vita serena, con un posto di lavoro fisso, una casa a cui tornare, e qualche ritrovo abituale per fare quattro chiacchere. Dall’altra, i due ragazzi avevano come l’impressione che tutta questa serenità e questa perfetta costanza, rubasse ogni stile, ogni personalizzazione ai giorni di Kant. E loro? Loro aspiravano a qualcosa di più, a qualcosa di diverso, o forse stavano solo preparandosi a programmare quietamente le loro ore, le loro giornate, i loro punti fissi, i loro anni?
Per qualche tempo, si dimenticarono di Kant e della sua elegante gabbia di gesti abitudinari e coerenti, per quanto poco emozionanti e vitali. Si rituffarono nelle loro vite, nelle loro letture, forse cercando dapprima di smorzarle un poco, cambiarle di qualche grado, ma in fondo senza grande sforzo: si erano quasi convinti che l’essere consapevoli della loro gabbia, era in qualche modo già un modo di uscirne, almeno in parte… o forse si erano semplicemente rassegnati. L’amore, in ogni caso, lo facevano sempre il martedì. Non sempre sulla Panda, però.
Qualche mese più tardi, Giulia finì la palestra e, camminando sul marciapiede, senza una vera ragione, le ritornò alla mente Kant. Così, chiamo Federico, e un’ora più tardi erano di fronte alla casa del loro vecchio amico. Erano quasi le otto. Così cominciarono a guardare alternativamente l’orologio e il cancello. Il cancello e l’orologio. Il tempo passava: 20. 58, 20.59… 21.00… 21.02…21.04…
E già quei pochi minuti bastarono a metterli in ansia: quattro, cinque minuti di “ritardo”: roba da niente, ma nella loro mente era già un ingranaggio che si inceppava, un meccanismo rotto che andava a minacciare l’intero macchinario. Si guardarono curiosi ed interrogativi, ma incapaci di dirsi alcunché: perciò aspettarono, aspettarono ancora. Si fecerlo le 21, 30. E poi le 22. Ancora niente Kant. E se cinque minuti erano già considerabili una sorta di eversione, due ore dovevano significare certamente rivoluzione.
Scesero dalla macchina, e provarono a suonare ad un citofono a caso del terzo piano di quel condominio: niente. Quindi ad un secondo. Dopo qualche attimo rispose una voce femminile, presumibilmente di mezza età. Giulia andò subito al sodo: «Buona sera, stiamo cercando Kant: sa dov’è? Abita qui, al suo stesso piano.» Se non fossero stati così inquieti, così… preoccupati, si sarebbero messi a ridere, ma a crepapelle. Ma in quella situazione, in quel preciso contesto, in cui tutto poteva cambiare e rivoltarsi su se stesso, Giulia nemmeno si rese conto della gaffe, o di aver chiesto ad una perfetta sconosciuta se sapesse dove fosse finito un filosofo tedesco morto più di duecento anni prima; allo stesso modo, Federico non ci fece caso. Come fosse perfettamente normale. O come se l’anormale fosse divenuto completamente normale. Forse era una di quelle coincidenze, di quelle uscite.
La signora al citofono aspettò qualche secondo, indecisa e confusa, poi chiese «Chi?!» Giulia riprese «Un signore sulla quarantina, dai capelli scuri, neri, vestito sempre di grigio…»
«Ah! Il signor Normini… quello dell’interno B…», nella mente di Giulia si era già configurata una risposta “Cazzo di Normini, Kant!”, ma Federico la anticipò «Sì, lui… sa mica che fine ha fatto? Dovevamo incontrarlo…»
A quelle parole Giulia lo guardò timorosa. Non aveva pensato che avrebbero mai potuto incontrarlo, o parlarci. Era come incontrare il personaggio di un libro che si è letto con affetto o come… incontrare un perfetto sconosciuto che hai seguito per giorni e giorni. Ma era di più, era come incontrare la crepa in un meccanismo destinato a decadere, un meccanismo che aveva contribuito a svelare. Scoperta e distruzione. Ma al momento non importava cosa avrebbero dovuto raccontargli, per non passare da stalkers o dementi. Non importava neppure la misteriosa importanza che quell’uomo, a sua insaputa, rivestiva ormai per i due ragazzi. Importava sapere che fine avesse fatto. Perché ormai Giulia e Federico avevano la fiducia che le cose potessero cambiare.
La signora del citofono continuò «Quello sempre tanto puntuale, tanto silenzioso e cortese… torna sempre a casa con un sacchetto giallo del discount…» a quel punto Federico la fermò, e provò la singolarissima sensazione di offesa a quelle parole su Kant: erano cose che sapeva benissimo, ma sentirle dire da altri gli risultò come una banalizzazione della loro ricerca, della loro indagine: quella signora del terzo piano era decisamente stupida. «Sì, lui.» Replico brusco. «Dovrebbe essere in casa, no?»
Per qualche istante seguì un denso silenzio. Pochi attimi, ma nella mente dei due sembrarono giorni: erano giunti alla resa dei conti, ed erano ormai convinti che, sì, le cose cambiano.
Poi la voce al citofono riprese a parlare «mmm no, mi spiace, ma il signor Normini si è trasferito qualche mese fa, in un appartamento non lontano… non so esattamente dove, ma lavora sempre allo stesso posto, e sono sicura che cenerà sempre al solito ristorante, ed andrà a far la spesa dove va sempre, potete trovarlo lì se non avete un contatto…» Forse la signora parlò ancora, diede altri dettagli, tanto semplici e tanto penosi, ma Giulia e Federico non stavano più ascoltando, erano rimasti immobili davanti ad una amara certezza. Le cose non cambiano.


Le case, cambiano.

Nessun commento:

Posta un commento

Dimmi che ne pensi