venerdì 17 agosto 2018

Il ponte






Una volta mio padre mi portò a vedere un vecchio paesino. Lui lo chiamava “borgo”: non so cosa voglia dire di preciso, ma in quel paese c’erano case molto antiche, strade molto strette, e mura di cinta (sono quelle che circondano il borgo, il vecchio paese, appunto) molto grandi e solide.
C’erano molte botteghe (che è un modo particolare di chiamare dei piccoli negozi, che pare, mio padre ed altre persone utilizzano quando chiamano i negozi in posti come quel borgo) che vendevano di tutto un po’: dal pane, ai francobolli, agli aquiloni. Me ne ricordo uno bellissimo, grande e colorato, sembrava avere due grandi ali che mettevano perfino in ombra una parte del negozio (o della bottega), ma quell’ombra faceva risaltare, ossia rendeva più bella, l’altra parte della bottega.

Però non voglio raccontarti delle botteghe del borgo, o degli splendidi aquiloni che vidi quel pomeriggio con mio padre. Voglio invece raccontarti del ponte. Sì, perché quel borgo era collegato ad un altro borgo da un ponte straordinario e del tutto particolare.
La cosa era più o meno così: alla fine del borgo, appena oltre il muro di cinta, c’era un prato verde e, dopo una decina di passi, iniziava un ponte molto, molto lungo. A dir la verità, di questo ponte quasi non si vedeva la fine. La si intravvedeva: ossia, la vedevi più con la fantasia e l’immaginazione che con gli occhi. Guardare verso la fine di quel lungo ponte era un po’ come immaginarsela, o progettarla. Come quando disegni una linea su un foglio: a scuola ti spiegano che la linea è infinita, ma tu puoi tracciarne solo una parte: tutto il resto non lo fa la mano, o la penna, o la matita con cui stai tracciando quella parte di riga: il resto lo fa la tua fantasia. La matita ha una fine, non la tua immaginazione.

Dizionario filosofico di un emerito D: il lavoro.



"Me matan si no trabajo, y si trabajo me matan",
Daniel Viglietti, cantautore uruguaiano.


Lavoro.

Il termine deriva etimologicamente da "laborare", che significa all'incirca "vacillare sotto un peso gravoso". Aggiungiamo anche "labor": fatica.
Stesso significato troviamo nel tedesco "arbeit". Che indica oltre alla "fatica", il "compito", il "turno" e il "travaglio".
Travaglio che ci porta direttamente allo spagnolo "trabajo", che denota il "lavoro" come la "corvé", "l'occupazione", la "sgobbata" e il "travaglio" appunto. Questa espressione (assieme al portoghese "trabalho" e al catalano "treball" - il quale ha un suo senso anche nel dialetto comasco...) a sua volta deriva dal latino "tripalium": una tortura medievale e forse anche romana alla quale venivano sottoposti gli schiavi. Consisteva nel legarli a tre pali, probabilmente due a croce ed uno posto in verticale, e dare fuoco alla struttura.
Nel linguaggio moderno i tedeschi precisano poi l'ambito dal quale il lavoro deriva. Meglio, distinguono chi lo compie e chi lo offre: "Arbeitgeber"denota il datore di lavoro (non più "padrone", per carità...) laddove "Arbeitnehmer" indica il "prenditore del lavoro". Insomma, colui che non solo si prende il salario, ma anche il lavoro: che scroccone!
Evidentemente la lingua deve adattarsi alla nuova retorica dominante.

La paura




Quattroangoli, era un paese strano. Non aveva proprio la forma di un quadrato o un rettangolo, ma aveva sicuramente quattro angoli. Probabilmente non aveva una forma precisa e regolare, ma sicuramente era divisibile per quattro: come una torta imperfetta ma equa.
Era un bellissimo paese. Non tanto grande, ma tanto, tanto diverso e vario. Ogni angolo era differente dagli altri: c’era natura, cultura, posti dove fare comunella e altri dove pensare. E c’era anche un grande mistero e la paura.

Infatti, in uno dei suoi angoli, c’era un bel bosco ed un lago, e poche case: la natura sembrava invadere ogni cosa. O forse, la natura non invadeva proprio nulla: era semplicemente dove doveva stare. Le case, le abitazioni e i pochi edifici in questo angolo stavano ben tra le piante, l’erba ed i boschi: a volte, tra edifici ricoperti d’edera, foglie e glicini non sapevi dove finiva la natura e dove iniziava l’opera dell’uomo.

Un altro angolo era l’angolo dei divertimenti: c’era il cinema, una palestra pubblica e gratuita, un teatro all’aperto e una grande piazza dove gli abitanti di Quattroangoli potevano incontrarsi per chiacchierare, raccontare storie e giocare. Lì in mezzo, c’era anche una grande cassa con dei palloni da utilizzare in caso di bisogno, per così dire.


L'anziano e il bambino


L’anziano e il bambino



Alessandro, un ragazzino di circa otto anni dai bei capelli rossi e gli occhi chiari e vispi - da tutti chiamato Alex – stava passeggiando con la mamma presso un lungo marciapiede, non distante dalla riva di un piccolo lago. Era uno dei primi giorni d’estate e quella stava diventando una sorta di routine che avevano abbandonato durante il resto dell’anno. D’estate in un certo senso ci si risveglia, per questo genere di uscite all’aperto, e forse anche per altro.
La stessa routine, o una molto simile, ma più quieta, l’aveva un signore anziano, con un gran cappello di paglia in testa ed una vecchia camicia indosso: doveva abitare giusto dall’altra parte della strada. Alex l’aveva visto spesso: se ne stava seduto su una panchina sotto un gran pino che gli faceva ombra, nel pomeriggio tardivo. Bastone posato al suo fianco, una borsa con l’acqua vicino e un libro sulle ginocchia: gli occhi, solcati da rughe ed occhiaie, assorti sulle pagine e l’inchiostro, dietro spesse lenti degli occhiali con montatura a tartaruga.
Di norma Alex e la mamma passeggiavano per una mezz’ora su quel bel tratto pedonale, e spesso sua madre si fermava a chiacchierare con qualche amica o qualche conoscente che trovavano durante il percorso.
Quel giorno, Giulia – la madre del bambino, appunto – si era fermato qualche passo dietro ad Alex, fermandosi con un’ amica che non vedeva da parecchio tempo: il bambino già intuiva che ci sarebbe stata parecchio: sospirò, fece qualche saltello sul posto, poi si mosse, incuriosito, poco più avanti, verso l’anziano seduto sulla panchina.