domenica 6 febbraio 2022

Alianti

 




Da ragazzino attraversavo il bosco in bici per andare a vedere gli aerei che partono.

Quelli che andavo a spiare, però, non erano aerei normali: sembravano giocattoli. Come quelli fatti di compensato e polistirolo. Una semplice striscia di legno, forata in cima per infilarci le ali di plastica bianca. Un pezzo unico che entrava dentro con lo stesso rumore che fanno le unghie sulle lavagna, ma ne valeva la pena. Sembravano così fragili ma, se piegavi bene il polso, se prendevi la corrente giusta, oh, se volavano. Li vendeva uno di quei negozietti che ha dentro un po' di tutto e un po' di niente (oggi li chiamerei "cazzari", ma un tempo ero più attento alla sorpresa che allo scopo). Stava proprio di fianco al bar Vittoria, in un paesino montano sulle rive del Mallero.

Quelli veri però partivano oltre un bosco vicino a casa, che allora mi sembrava enorme.

Ci sono aeroporti da dove si parte per arrivare in altri aeroporti.

Poi ci sono aeroporti dove non si fa che tornare. Li si abbandona giusto il tempo di guardarli dall'alto, assaporare l'ebbrezza del cielo, guardare le nuvole da vicino e tornare esattamente dove si è partiti.

C'è chi la chiamerebbe un'esperienza inutile: perché non ha uno scopo, non ha una meta.

Ma se nel primo caso si vola per raggiungere una destinazione lontana; nel secondo si vola per… volare. Nessun'altro scopo, nessun'altra meta.

Sarà per quello che mi piacciono gli alianti. Quando fanno i pazzi, e atterrano in un posto diverso da quello da dove sono partiti, fanno "fuoricampo": non è una cosa che succede spesso. Non è per quello che sono disegnati.

Loro fanno così, da almeno una cinquantina d'anni prima dei fratelli Wright. Diversamente dai loro cugini motorizzati, si fanno trainare per un pezzo, raggiungono la quota giusta per poter giocare con la portanza e le correnti ascensionali, seguendo la linea di minor resistenza e, tra le nuvole e la voglia di andarsene, stringono tutta la libertà che possono, prima di tornare dove sono partiti.

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