domenica 17 gennaio 2021

Visita alla casa abbandonata

 



Rumori di vetri rotti, uno spiffero freddo che passa veloce da una finestra spaccata e coperta d'una velina di polvere vecchia, un ragno morto appeso ad una densa ragnatela che gli ha fatto da casa e da tomba. Qualche vecchio giornale ingiallito per terra e, più in là, in un angolo dove la parete è decisamente scrostata, fumetti e settimane enigmistiche mai risolte del tutto, abbandonate al tempo ed all'incuria. Pavimenti scricchiolanti ed insicuri, un'edera che ha superato la soglia esterna, in qualche punto, per intrufolarsi in un enorme camino in pietra, come a ribadire la propria vitalità su quel nido di fuoco, ed ormai di cenere: nel suo coprire di verde le crepe di quella pietra cava, esulta in una continua eco la propria vittoria.

Fuori solo rampicanti, cespugli di rovi e saliscendi di ortiche. Dentro, qualche vecchio cimelio, rifiuti veri e finti, come un piccolo accendigas che è solo un “trattieni-accendino”: si tira una leva semplicemente meccanica, e un dente smuove la rotella e pigia il tasto, per generare la fiammella. Come a sostituire lo sforzo di un pollice.

Stranamente, quella c'è ancora, come se il tempo avesse intaccato tutto: le pareti, i pavimenti, la vita, ma non quell'unico accendino. Non quella fiammella che, giusto ora, una ragazzina dai lunghissimi capelli rossi, vestita di un'ampia maglia azzurra, sta tenendo accesa. Tiene nella mano il piccolo ritrovato ingegneristico come fosse qualcosa di particolare, con la curiosità che hanno solo i bambini. Forse non è anagraficamente collocabile in quella fascia d'età. Tredici, quattordici anni. Ma in quel momento potrebbe averne anche venti, o cinquanta: sarebbe comunque una bambina. Ha esattamente quello sguardo lì.

L'ha, quella luce bambina negli occhi verdi, ora che gioca con quel piccolo, semplice strumento; l'aveva prima, quando si è intrufolata sotto una sbarra di ferro con il cartello “Pericolante, non entrare”, e si è infilata tra i rovi ed ha scavalcato la finestra, facendo attenzione ai vetri. Quindi ha passato praticamente ore a cercare intorno. A perlustrare tra la polvere, con l'emozione e la sensazione dentro di sé che cavalcava una leggera paura, un'ansia non ben definita. O forse è solo quel particolare, intrigante disagio che ti assale e ti accoglie quando stai facendo qualcosa che “non va fatto”: non si dovrebbe proprio, ma lo fai lo stesso.

Eppure la paura non l'ha bloccata, no. Le ha solo regalato quel brivido, e l'emozione di sbirciare con occhi meravigliati quella che, in altri contesti, sarebbe solamente una serie di ampi ed alti locali abbandonati e ripieni di polvere e cianfrusaglie.

Come quella che ha trovato ora, in una stanza che forse un tempo era adibita a ripostiglio, o chissà, a pensatoio. Una volta si faceva. Doveva o poteva essere qualcosa del genere, perché molto piccola, alta, senza dentro nessun mobile, se non una poltrona sgualcita e rovinata e un tappeto. Ma quest'ultimo non stava per terra, ma era appeso alla parete, come se fosse un quadro, o una lingua di peli rossi che scendeva dal soffitto lambiccando lungo la parete.

La ragazzina si era perfino seduta, con quel cimelio ritrovato in mano: un album da disegno, di quelli molto vecchi, una via di mezzo tra un diario a copertina rigida per gli schizzi, ed un album A4, per le dimensioni, ovviamente parecchio vecchio. Dentro, però, una strana forma di meraviglia: disegni a carboncino, quasi sempre senza nessun colore aggiunto. C'era il retro dell'enorme casa (forse una villa padronale di quella sorta di villaggio fantasma in cui si era andata a cacciare scappando di casa), quando ancora era intatta, con il prato ben tagliato, nessuna ortica, i vetri a posto. Le pareti senza edera, e le tapparelle ancora pulite. Qualche albero da frutto nel giardino, e delle nuvole grigie in cielo. In quel momento si chiese se fossero grigie per il mal tempo di quel giorno in cui il disegno era stato fatto, o semplicemente per la natura del carboncino. Era un disegno ben fatto, e chissà quanto tempo doveva avere. Però era strano: raccoglieva in sé una certa malinconia nei tratti grigi o neri. Disegnava come di una notte che sperava di essere nata giorno. La bambina sospirò per un attimo, poi voltò pagina.

In un secondo disegno, si rappresentava l'interno della casa: i giornali erano raccolti in un portariviste, i libri erano dentro una bella libreria, il pavimento era pulito e senza ragnatele, il camino era senza crepe, e con il fuoco acceso, l'edera non stava ancora banchettando contro le sue pareti salde. Però, anche qui, c'era un certo languore indefinito. Le ombre troppo lunghe, e forse – a seguire teorie della luce di cui la bambina era giustamente ignorante – non dovevano neppure esserci. Il fuoco era grigio, perché disegnato sempre con il carboncino, seppure con molteplici sfumature accurate e curate. Era però come un fuoco sì ben attivo e danzante, ma tetro.

La ragazza girò un'altra pagina, e questa volta singhiozzò di colpo. Non era più disegnata la casa come era un tempo, ma come era ora. Vetri rotti, riviste per terra, ragni impiccati alle loro stesse dense ragnatele, stralci di edera che si facevano, affamati, strada dentro le pareti interne. Esattamente come lei l'aveva vista pochi attimi prima. C'era perfino, vicino ai fornelli usurati e vecchio stile della cucina, un gingillo ingegneristico bello ma particolare: rosso, serviva per trattenere un accendino nero dentro una morsa, bastava pigiare una leva per far muovere la rotellina del gas, ad occhio. Poteva quasi immaginarsi la fiammella che si accendeva: l'aveva usato lei fino a poco fa, e l'aveva preso esattamente da quel tavolo.

Ma fu la pagina dopo a farle sgranare gli occhi e saltare in piedi di colpo, facendo danzare la polvere dentro quello stanzino. Dovette correre fuori dalla stanza lasciando cadere a terra l'album da disegno. Si guardò intorno spaventata, una mano sul cuore e la schiena appiattita contro la parete. Il respiro le si fece veloce veloce, e chiuse gli occhi per qualche secondo. Sperava che, quando li avesse riaperti, si ritrovasse a casa, sul letto, o magari vicino alla gonna di mamma. Ora l'essere scappata di casa, nella sua testa, stava diventando una terribile idea. Un rimorso ansioso. Ora, l'essere qui, il fascino che aveva creato, stava diventando solo un dolore al petto, un raschiare nella gola ed uno stringersi di pareti invisibili intorno a lei ed un tirare forte di un cappio intorno al proprio fiato: paura. Riaprì gli occhi, ma non c'era la gonna di mamma, non c'era il miagolare confortevole del suo gatto, non c'era la sicurezza del proprio letto. Si trovava ancora lì: in un corridoio sporco e polveroso, pieno di vetri rotti, con poca luce, ed una porta aperta su una stanza piena di nulla. C'era ancora quella lingua di pelo appesa sulla parete, e per un attimo le venne in mente che, forse, stava dentro la bocca di uno stranissimo mostro. Quel che però le fece più paura, era che l'album era ancora lì, per terra. Aperto sull'ultima immagine che aveva visto. Deglutì con forza, e gli diede un'occhiata veloce, come schiava di quella particolarissima e doppia sensazione per cui tentiamo di sfuggire a quello che ci spaventa, sì, ma, d'altra parte, ne siamo sinistramente ed oscuramente attratti. Come falene dalla luce calda di una candela accesa. Quel che l'aveva terrorizzata era ancora lì, impresso su carta giallognola nei tratti sicuri di un carboncino scuro: c'era lei. Una ragazzina sui tredici, quattordici anni, dagli occhi verdi, con sguardo aperto da bimba, vestita di un'ampia maglia azzurra, e con lunghissimi capelli rossi. Stava seduta su una poltrona consunta e polverosa, a guardare un album rigido, una via di mezzo tra un diario ed un A4, dentro una stanzina piccola e alta, contenente solo quella poltrona, un tappetto rosso come una lingua arrampicata sulla parete, ed una bambina, lei, seduta sulla sedia.


Deglutì con forza, cercò di guardare altrove, ma senza davvero riuscirci. Si chiese, invece, cosa sarebbe potuto esserci dopo, perché quell'album non era affatto finito lì. Le avrebbe indicato il proprio futuro? Avrebbe visto qualche altra scena del passato di quella casa? Poi cambiò genere di domande: come era possibile? Qualcuno la stava spiando? Chi era l'autore di quello stranissimo album? Non riusciva più neppure a seguire il filo dei propri pensieri, interrogativi, emozioni. Era un groviglio unico di dubbi e fantasie. La duplice sensazione perdurava: coraggio e curiosità. Paura e ansia. Alla fine decise di avvicinarsi lentamente e silenziosamente all'album come se fosse una bestiolina munita di zanne aguzze. Qualcosa che pareva tranquillo ma poteva anche farti davvero male. Ginocchia un poco piegate, schiena inarcata verso il basso, occhi ben aperti sulla bestia di carta ed entrambe le braccia tese, con la muscolatura rigida come pronta, in caso, a scappare. Trattenne perfino il respiro, mentre si avvicinava, ed ogni piccolo passetto, no, ogni centimetro superato sembrava un chilometro. Il tempo si stava enormemente dilatando. Però, alla fine raggiunse l'album: allungò il braccio e lo aprì di scatto, sfogliandolo verso la pagina successiva. Fece uno scatto indietro per istinto, ma poi sospirò. Il disegno ora visibile era misterioso ma diverso da tutti gli altri, e meno inquietante del precedente. Riprese a respirare e lo guardò meglio, senza prenderlo, ma sbirciando dall'alto: c'era un'altra stanza, più ampia, quadrata. Parecchio usurata, ed abbandonata anche in questo caso. Mobili rotti, sporchi e consunti, ma tutti spostati agli angoli. In mezzo, sul pavimento, non c'era nessuna piastrella, nessuna moquette o parquet: ma solo fiori. Ed era questa la cosa diversa da tutti gli altri disegni a carboncino: i fiori erano colorati. Erano d'un giallo intenso, che sembrava dar luce anche al grigio carboncino con cui era disegnato tutto il resto. Tutto il contorno. Guardò meglio, la ragazza, e vide che sullo sfondo, in un angolo, c'era una porta aperta, nel disegno. Capì che era la porta per lo stanzino con la poltrona ed il tappeto sulla parete. Inspirò, e prese un'altra abbondante dose di coraggio. Prese l'album da terra, lo mise sotto il braccio, e si incamminò cautamente, lentamente, verso la direzione opposta: seguì il corridoio, e, nonostante ciò che aveva visto, sgranò gli occhi e sospirò una calda meraviglia dal petto quanto vide quanto l'aspettava: una stanza quadrata, con vecchi mobili spinti contro gli angoli e le pareti e, in mezzo, su tutto il pavimento, quella coltura di fiori gialli, belli vivi. Sembrava che qualcuno avesse coltivato il pavimento. Era bellissimo.


Si ritrovò a poggiare la spalla allo stipite della porta, a guardare quei tantissimi fiori in mezzo alla stanza. Erano vita che spezzava con forza tutto quel grigiore. Sorrise tra sé e sé quando sentì un rumore dietro di sé. Si girò di scatto, ma non vide nulla. Ebbe solo una vaghissima impressione di vedere un'ombra entrare in una stanza, con movimenti furtivi e delicati. Ma, assurdamente, non ebbe paura in quel momento. Spostando di poco la testa, riuscì a guardar fuori dalla finestra, notando che stava per tramontare. Era passato un sacco di tempo. Serrò un attimo le labbra, poi annuì tra sé: prese a camminare verso casa, con l'album sotto il braccio. Era tempo di tornare da mamma, e magari di cenare e giocare con il gatto. Ma in cuor suo, sapeva che nulla sarebbe rimasto come prima, da ora in poi.




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