domenica 7 settembre 2025

Un posto segreto



Dalle radici coperte di foglie secche, i tronchi di due querce salgono verso il cielo sporco di nuvole e si scontrano a metà strada, come due ubriachi che si sorreggono. Mi chiedo quale cadrà per prima, ma tu diresti che deve essere un portale per i folletti; o forse, sono due angeli che si abbracciano in mezzo al bosco.

Sfrego la manica della giacca sugli occhi e mi fermo davanti a un cespuglio, grigio e malridotto come me. Piego la schiena e un'onda di bruciore mi attraversa le vertebre. Con la mano sposto un mucchio di foglie e recupero solo un paio di gallinacci ammuffiti. Sospiro e li butto nel cesto di vimini: la carne gialla dei gambi si spacca contro il reticolo di legno e rotola nel vuoto del paniere.

Mi appoggio al bastone e sfioro la E incisa sulla corteccia intagliata.

Il fiume oltre la valle taglia in due la conca in cui sprofonda il paesotto, incastonato tra due catene di picchi di cui non ricordo il nome. Le casette di pietra da qui sembrano una manciata di pezzi del presepe, sparsi sul muschio da un bimbo distratto. Per il fiume, il paese e le montagne tutto è sempre uguale, come non fosse successo niente. Ma nulla è rimasto come prima. Nulla lo sarà più.

Afferro il ramo pungente di un pino per raggiungere il sentiero.

Gli scarponi sporchi di fango scivolano sulle rocce. Oltre un capanno dei cacciatori diroccato spunta un albero ricurvo. Dicevi sempre che i porcini stanno all'ombra dei faggi e dei pini, vero?

Mi addentro tra gli alberi, e le suole affondano nel terreno molliccio: un rigagnolo d'acqua sporca lascia una puzza di stantio che aumenta a ogni passo.

Supero un cipresso e il prurito mi avvolge la faccia. «Dannazione!» Mi tolgo la ragnatela dalla guancia, con le nocche pulisco i baffi.

Sotto al faggio, un paio di lattine di Coca e una busta di carta giacciono sparse, formano un sorriso storto che emerge dal sottobosco. Quanto pesa il culo ai giovani d'oggi? Raccolgo tutto e butto nel cesto, insieme ai funghi rotti.

Col bastone smuovo le foglie presso il tronco, infilo la mano tra le radici. Tocco qualcosa di morbido, ma si sfalda tra le dita come muffa. Si sta facendo tardi e non sono riuscito a trovare niente. Maledetti funghi.

Al centro del ruscello una pallottola di schiuma bianchiccia si ferma sul bordo. La sfioro con il bastone: un passerotto morto galleggia sul pelo dell'acqua e lo stomaco mi si stringe. «Che schifo...»

Sono stufo: torno al sentiero e prendo a scendere. Dopo la prima curva, una sagoma spunta oltre un salice e il vento porta l'aroma dolciastro del tabacco.

Il Barba alza la mano nodosa verso di me. Lo zaino gli spunta dalla schiena, sopra la bandana rossa che gli avvolge quella coda grigia da finto ragazzino. Avrà cinque anni più di me, ma ne dimostra dieci di meno.

Si ferma a riaccendere la pipa e mi fa un cenno con il mento. «Carlo, hai intenzione di vincere la gara anche quest'anno?»

Sorrido e mostro il mio magro bottino. «Direi proprio che a questo giro non c'è rischio.»

Si gratta il collo, sopra la camicia di flanella e osserva perplesso il mio cestino. Il suo è pieno di porcini e ovuli rossi, così gonfi e lisci che sembrano già puliti.

«Ma l'anno scorso...»

Deve proprio insistere? «Non ero io quello bravo. Non lo sono mai stato.»

Annuisce deluso, neanche lo avessi offeso, ma prima che mi faccia altre domande lo anticipo.

Indico il suo cesto stracolmo. «Quelli dove li hai presi?»

Alza il bastone di betulla verso il sentiero alle mie spalle. «Là sopra, oltre il sasso a forma di piramide, magari qualcosa è rimasto.»

Certo, nella direzione opposta dalla quale è arrivato. Tutti uguali i fungiàt. «Posto segreto, eh?»

Un taglio di ceramica nella barba forma un sorriso sbilenco. Si sfiora la bandana. «Un pirata non rivela mai dove nasconde il tesoro.»

Già. «Be', io devo aver perso la mappa. Torno indietro.»

Mi saluta in uno sbuffo di fumo e prosegue sul sentiero. La sua bandana svanisce oltre un castagno.

Raggiungo il bordo del dirupo. Punto i piedi e guardo in basso: una spianata di rocce si apre oltre un tronco caduto. Il vento che filtra tra gli alberi mi carezza il mento e la vertigine mi alleggerisce la testa. Quel vuoto mi sembra d'improvviso desiderabile, ma la nausea mi fa indietreggiare. Non fare cazzate, Carlo.

Sistemo il paniere sulla spalla e scendo al paese. La brezza porta la musica degli alpini, ma mi arrivano solo note più tristi che stonate.

La fila presso l'alimentari di Ezio fluisce mentre mi avvicino. Al primo bidone dei rifiuti abbandono le lattine e supero la tenda di perline.

L'alimentari è un quadrato grande quanto una cucina. Le scatole di fagioli si arrampicano su ogni mensola ai lati e le bresaole penzolano sopra il piano dei formaggi.

Un tizio robusto con il basco in tweed davanti a me svuota il cesto di porcini sulla bilancia di Ezio: il suo tesoro non è grande quanto quello del Barba, ma poco ci manca.

Ezio stappa il pennarello e scrive 3, 9 kg sulla lavagna alle sue spalle, di fianco al nome di Alessandro: per ora è il terzo della classifica.

Il fungiàt guarda nel mio cestino, si copre la bocca ed esce di corsa. Cazzo ha da ridere?

Ezio si pulisce gli occhiali con il bordo della camicia. «Ciao Carlo. Consegni anche tu?»

«Sì, non è una gran giornata.»

Alza le sopracciglia e mi fissa dietro le lenti unte. «Sicuro? Guarda che hai ancora un paio d'ore.»

«Sicuro.»

Ezio butta i resti dei gallinacci rotti sulla bilancia: 127 grammi. Alza le spalle e non prende neanche il pennarello. «Carlo, l'anno scorso avevi vinto, non voglio segnarti oggi, non è il caso.»

Eh? Io è da stamattina che cerco, non è colpa mia se il bosco mi odia. «Segna comunque, ho partecipato. Ho... ho promesso che l'avrei fatto.»

«Ma avete sempre fatto una bella figura, ora davvero, lascia stare.» Prende i rimasugli del mio fungo con indice e pollice, neanche fossero infetti.

«Senti, segnami i miei 127 grammi. Che problema c'è?»

Abbassa lo sguardo. «Ti prenderebbero solo in giro, specie perché l'anno scorso...»

«L'anno scorso non ero solo, Ezio!»

Deglutisce e si sistema il colletto. «Lo so, ma...»

«Ascolta, era Elena quella brava. Lei parlava con i funghi, io... io parlavo solo con lei, e al massimo trovavo IL fungo.» Smuso verso la bilancia. «Segnamelo e basta..»

«Sotto il mezzo chilo non li segno, Carlo.»

Serro le palpebre a nascondere un formicolio agli occhi, sarà la cataratta. Riprendo il cesto con uno strattone: i resti dei gallinacci cadono a terra. «Per Elena era importante, io volevo solo...» Un magone mi sale alla gola e la mano mi trema.

«Carlo scusa, ma davvero, lo faccio per te...»

«Lascia stare. Ho capito. Non valgo abbastanza per voi.»

Fa per borbottare qualcosa, ma mi volto e calpesto i gallinacci in terra. Supero la tenda.

Vicino alla staccionata che delimita il pascolo dalla strada, un bimbo dalla zazzera rossa, seduto nel prato, smette di giocare con le biglie e mi fissa. I suoi occhi azzurri sono come il cielo terso di nuvole, ma tristi come chi non riesce più a vederlo. Faccio tanta pena?

«Fai anche tu la gara dei funghi?»

Scuoto la testa. «Sembra di no. Non ho trovato nulla di valore.»

«Ma c'hai ancora tempo, la conosci la ghiacciaia?»

«No, non sono di qui, anche se vengo tutti gli anni.»

Sorride e la tristezza nei suoi occhi scompare. In lui le emozioni corrono più veloci delle nuvole. Indica oltre la staccionata, verso il torrente. «Dopo il fiume, c'è un sassone bianco pieno di scritte, nella valle di sotto è pieno, davvero!»

Alzo le spalle. «Li avranno già presi, ormai.»

Il bimbo tira un pizzicotto alla pallina e la fa scorrere verso di me. «Non credo sai, i caccia funghi son tutti vecchi.»

Piego le ginocchia in uno scricchiolio e gli rilancio la biglia. «E quindi?»

La recupera e sorride. «I vecchi cercafunghi fanno sempre le stesse cose, e restano sempre al di qua del fiume. Dall'altra parte mica ci vanno.»

«Sono vecchio anche io,» sbuffo.

«Ma non sei un cerca funghi.»

Grazie per ricordarmelo. Carezzo la E sul mio bastone. «E come lo sai?»

Ride e indica il mio cestino vuoto. Pure lui deve prendermi in giro?

Afferro la staccionata. Oltre il fiume, gli alberi iniziano a tingersi di rosso. La giornata volge al termine; se solo la prossima avesse speranza di essere migliore, varrebbe la pena rallegrarsi.

«Ci metti poco, non ti preoccupare.» Raduna le biglie e le mette in un sacchetto di stoffa.

Mi alliscio i baffi. Sono sicuro di averlo già visto, ma non ricordo. «Come ti chiami?»

Fa un sorrisetto e mi guarda dritto in faccia, con la spavalderia dei pischelli. «Però se aspetti troppo diventa tardi. Ciaoo!» Scappa via verso il ristorante.

Che tipo.

E va bene, un ultimo sforzo. Sistemo il cestello sulla spalla e scendo verso il fiume.

Il torrente scorre sotto un ponte di legno e pietra. Il rumore dell'acqua sovrasta le poche voci dei turisti che scattano foto, e goccioline mi bagnano la faccia. Alcuni sassi emergono dalla schiuma bianca della corrente e brillano al sole ambrato del tramonto. Era questo il tuo posto preferito, vero? Sfioro il corrimano, appena oltre il ricordo delle tue dita.

Dopo il fiume, il sentiero entra nel bosco e riprende a salire, la parte facile è già finita.

La pietra bianca si erge sopra un gruppo di violette. Le scritte sulla roccia ci sono davvero... Spero ci siano anche i funghi.

Mi aggrappo a un bordo smussato della pietra. Oltre un declivio, si apre una vallata nel bel mezzo di un faggeto. Dubito che il Barba non abbia già fatto razzia, ma ormai ci sono.

Il sentiero è bello che finito, però, e la discesa è più ripida di quanto credessi.

Allora, peso a valle. Il bastone come punta, poso lo scarpone di lato e...

Il piede mi scivola e il ginocchio cede. «Cazzo.» Il sedere mi sbatte a terra, scivolo. Mi aggrappo a un ramo, ma anche quello si spezza e rotolo giù. «No!» Qualcosa mi colpisce alle costole e rantolo dal dolore. Rotolo e allungo una mano sull'erba, ma le dita scivolano nel terriccio. Non riesco a fermarmi!

Erbacce e rovi mi graffiano il viso e le fronde degli alberi si confondono. Un colpo alla nuca mi fa smettere di ruzzolare, la testa mi gira.

Sfioro il tronco di quercia che mi sostiene. Diavolo, sono in fondo alla vallata e ho uno scivolo di terra davanti a me.

Il pendio d'erba sporco di foglie mi vortica davanti agli occhi. Devo riposare un momento. Chiudo le palpebre e respiro piano. Il ronzio si affievolisce; poso i palmi a terra e mi lascio cullare dal buio e dal rumore del vento...



***



Un brivido mi accarezza la guancia: intorno a me è buio, ma un bagliore azzurro viene da poco lontano, oltre una coppia di faggi così vicini da sembrare un albero solo.

È sera, devo essermi addormentato. Pianto le mani a terra e mi rialzo. La schiena è ancora indolenzita, ma la nausea è passata. Il cielo è nuvoloso, da dove arriva quella luce?

Il dirupo sale verso il buio, non riesco a risalire di qui, devo trovare un'altra via. In pochi passi raggiungo la base della valle e mi muovo verso il bagliore. Scosto i rami pieni di foglie rosse e una luce violacea mi sorprende: viene da ogni punto della radura.

In un anello di prato e foglie cadute, presso i tronchi dei faggi e dei pini si ergono grossi funghi luminescenti. «Ma cosa diavolo...» Gallinacci azzurri, porcini dai riflessi blu e mazze di tamburo verdognole.

«Riesci a vedere ora? Riesci a vederli?»

Quella voce. Un formicolio mi serpeggia lungo la schiena, sale fino alle dita illuminate dell'azzurro di un porcino, presso un cespuglio di trifoglio.

«Hai perso il bastone. Lo sai che devi starci attento nel bosco: è la tua guida.» Un'ombra esile spunta oltre una betulla e scavalca un rigagnolo d'acqua chiara.

Non è possibile...

Indossa la lunga giacca di velluto verde che le ho regalato tanti anni fa, e il berretto che aveva quando l'ho conosciuta: dalle trame di lana viola escono capelli grigi e lisci. Sull'avambraccio ha il mio cestino e tra le dita il suo bastone.

Devo avere sul volto l'espressione più stupida del mondo. Perché mi riserva il sorriso che mi dedicava quando mi prendeva in giro: disegna due fossette ai lati della bocca sottile. Abbassa la testa e la frangetta irregolare le trema sulla fronte.

«Elena...»

Mi allunga il bastone e lo afferro. Faccio per sfiorarle la mano, ma lei si allontana. Inspiro e mi passo la manica sugli occhi, ma è ancora lì. Non ci sono dubbi, è Elena... ma una luce azzurrognola la circonda, e la sua pelle è più pallida di come la ricordassi.

«Non stare lì imbambolato, vieni.» Si avvicina a un castagno e si china sulle ginocchia. Dalla tasca della giacca recupera un coltellino. La lama dell'Opinel è fatta della stessa luce di quei funghi. Elena afferra il porcino e lo solleva con delicatezza, ruotandolo appena. Taglia il gambo presso il terreno. «Va tagliato alla base, per preservare il micelio.» Lascia scivolare il fungo nel cestino e si rialza. «Così hai buone speranze che rispunti nello stesso posto.» Mi fa l'occhiolino. Il viso le si illumina di quella felicità che la appagava sempre, quando trovava il primo tesoro della giornata. La stessa felicità per cui la seguivo.

Non riesco a muovermi, e il cuore mi rimbomba nel petto.

Elena mi chiama, cammina verso una roccia rossastra. Indica con il bastone un rigonfiamento tra le foglie. «Vedi qui, se uno non sta attento non ci fa caso.» Con il piede apre un varco nel fogliame e rivela una mazza di tamburo illuminata di verde. «È incredibile quello che ci lasciamo dietro per distrazione.» Toglie altre foglie e tre porcini gonfi escono dalle erbacce. «Mi dai una mano o resti lì a fissarmi?»

È proprio lei. La raggiungo e le prendo il cestino, per tenerglielo davanti agli occhi.

Il suo sguardo scivola nel mio ad assicurarmi che quello non sia un sogno, ma non riesco a crederci.

Accarezza il terreno con la lama e lascia cadere il fungo nel paniere.

«Elena, ma tu... tu sei...» Le lacrime mi scivolano sulle guance secche e la gola mi gratta.

Si slaccia il fazzoletto che porta alla manica e mi pulisce la faccia. «Lo so. Non fare lo stupido, Carlo.» La voce s'inasprisce di rimprovero, le labbra si aprono in una smorfia dolce e buffa: la sua. «Credi che basti questo a spezzare un legame, quando è vero? Che uno stupido infarto possa portarmi via?»

«Ma tu...» Le sfioro le dita, la luce della sua pelle scalda la mia. Lascio cadere il cestino e allargo le braccia.

Alza le sopracciglia e mi fissa, in attesa. «Se inizi a fare una cosa, poi devi farla sul serio.»

Sorrido e la abbraccio. La sua luce mi avvolge, sembra così fragile e leggera. Profuma di vaniglia e di bosco, come sempre.

Mi passa le mani sulla schiena e il dolore mi scivola via dalle ossa, strofina la guancia sulla mia e posa la bocca all'orecchio. «Sono come i funghi, Carlo. Mi troverai ovunque guarderai davvero.»

Sussulto e un formicolio mi scalda il petto. Una carezza leggera come la brezza mi sfiora la guancia. «Ma ora devi andare, hai ancora tanto da vedere.»

«No. Io non voglio andare.»

Ride, roca e forte, come faceva quando le raccontavo quelle barzellette che capiva solo lei. «Non fare il brontolone ora.» Si distanzia di un passo e fa scivolare la mano tra i miei capelli. L'altra indica la radura illuminata dai funghi. «Ora hai anche tu un posto segreto...» Con il bastone punta il cestino. «Coraggio, non hai mica finito.»

«Se inizi una cosa...»

«Esatto… Ma ricorda di farlo a modo tuo.» Sorride, e una piccola goccia di luce le scende dagli occhi.

Mi chino a prendere gli ultimi porcini e metterli nel paniere. «Questi sono davvero bellissimi, vero?»

Due fasci di luce colpiscono i tronchi e mi abbagliano. Mi copro il volto con la mano.

«Carlo, sei lì?!»

È il Barba. Mi volto, e un nodo mi si arrampica per la gola. Elena è sparita, e la luce dei funghi si è spenta. No!

Inspiro e mi passo la mano sul volto. Ti prego, ti prego… Riapro piano gli occhi.

Lei non c'è, ma il cesto di vimini è pieno di porcini e mazze di tamburo. Il suo fazzoletto è legato al manico.

Lo sfioro con il pollice. Non era un sogno, vero?

Un fruscio e dei passi si avvicendano poco più avanti, la luce di due torce torna a invadere la radura. Il Barba e il ragazzino dai capelli rossi scendono dalla collina. Là dietro deve riprendere il sentiero.

Mi sfioro la guancia senza ritrovare quel calore. E io che faccio ora?

La luce dei funghi si è dissolta, ma il cielo si è aperto e le stelle illuminano il bosco, assieme alle torce dei due.

«Carlo! Maledizione, ci hai fatto spaventare!»

Il ragazzino mi corre incontro. «Scusa, non pensavo ti perdessi!»

«Non mi sono perso... Anzi, credo di essermi trovato.»

«Oh!» Si ferma davanti al cestino. «Guarda quanti bei funghi!»

Il Barba lo raggiunge e gli spettina i capelli. Così vicini, si assomigliano un mucchio. Deve essere il nipote. «E questi dove li hai presi?»

Storco il labbro e alzo il bastone verso la collina dalla quale sono scesi. «Da quella parte, oltre la betulla piangente a forma di culla.»

Ridacchia nella barba e mi tira una pacca sulla spalla. «Stai imparando!» Mi osserva in una panoramica e annuisce. Recupera la pipa e se la accende. Deve essere il suo modo di verificare che stia bene. «Con il casino che è successo si sarà preoccupato anche Ezio.» Punta il beccuccio verso i porcini. «Se glieli porti credo te li segnerebbe, per la gara.»

Tiro su col naso e recupero il paniere. Voglio finire a modo mio. «No. Ma se volete, per ringraziarvi, posso prepararvi la cena: risotto ai porcini e mazze di tamburo fritte.»

«Sii!» Il ragazzino si alza e lascia cadere la pietra con cui si era messo a giocare.

«In marcia, allora.» Il Barba sbuffa un cerchio di fumo e si avvia per la collina. L'aroma dolciastro mi sfiora il naso e mi ricorda la vaniglia.

Lo seguo aiutandomi con il bastone e mi fermo in cima. Lascio che quei due si distanzino di qualche metro e mi volto a guardare un'ultima volta la radura: un ovale perfetto, tagliato da un piccolo ruscello e circondato da aceri, pini e castagni.

Funghi o non funghi, è davvero un posto bellissimo.

domenica 8 settembre 2024

Il Catena, prove di montaggio

 Il Catena di Careno


«Aveva una bandana rossa. Sempre. Talmente sempre che quanto ti chiedevano: “Di che colore ha i capelli?” Tu, senza dubbi, rispondevi: “Rossi”. Sicuro. Sicuro come una bandana. Una bandana rossa.


Lo chiamavano il catena. Non conosco il perché di questo soprannome, ma so per certo che, in qualunque stagione, lui stava a petto nudo e con dei pantaloni verde militare, e la bandana rossa, ovviamente. Era una mezza leggenda, per i paesini del lago di Como: te ne racconto una.


Una volta, su a Careno, vicino a dove abita del resto, fece una scommessa con gli amici: doveva traversare il lago orizzontalmente. Tu dirai: be’, non è poi questa grande impresa. Ok, dico io, ma doveva farlo con le mani legate dietro la schiena.

Un idiota, ma non è una cosa impossibile, dirai tu.

Ok, ma era d’inverno, dico io.


Tu di un po’ quel cazzo che vuoi.

Ad ogni modo, lui si butta nel lago, col freddo e con le corde ai polsi. Sbraccia per una decina di minuti convinto, mentre la folla degli amici e dei curiosi si raduna a guardarlo sulla spiaggetta. Lo guardano e d’un tratto passa un motoscafo. Dram.

Un fulmine d’acqua e ferro, scheggia e il Catena sparisce. Come divorato dalle acque.


Puoi immaginare l’apocalisse che segue: telefoni che strillano, bocche che strepitano, sirene che arrivano.

Avevano anche chiamato i sommozzatori, le rane, più volte reclamarono l’arrivo del buon Dio, e infatti era intervenuto pure il prete, sai com’è nei paesini quando succedono 'ste cose.

L’intera Careno era in tumulto, tutti.

Tutti tranne la moglie. Lei se ne fregava, o meglio, pareva completamente calma, placida, rilassata. “Fa sempre così” rassicurava. Gran stronza, tutti pensavano.

Il marito ci lascia le penne e lei se ne frega. Questo pensavano tutti.

Be’, gli uomini rana stavano ancora sondando le acque del lago che quasi ti tirano fuori il lariosauro che, beato beato, il Catena emerge delle acque come un Signur dei nostri: le mani legate, il petto magro e nudo, la bandana quasi nascosta da quel putridume che dovevano essere i sui capelli. Di tutto quel casino, lui neppure se n’era accorto.»

venerdì 10 novembre 2023

I pensieri di Goccia: lato implicito e esplicito

 I pensieri di Goccia: sulla scuola e i bambini.

Oggi non sono tanto felice. Oggi assomiglio più a Spina che a me stesso. 

Del resto, anche Spina ha più di un lato. E tutto quello di cui voglio raccontare oggi ha più di un lato. 

Un lato esplicito e uno implicito. Che paroloni, eh?

Ma se mi segui è semplice: il lato esplicito è quando ti dicono: "prendi la medicina che è buona e ti fa bene!"

Il lato implicito è che ti hanno raccontato una mezza bugia (che per un lato è un mezza verità): quella medicina non è buona per niente. È amara come il caffelatte quando dimentichi lo zucchero e ti brucia la gola. Però è vero che fa bene.

Il lato esplicito è l'aspetto e il colore del piatto. Il lato implicito il sapore: richiede un po' più di tempo, per scoprirlo.

Il lato esplicito è quanto ti dicono che puoi guardare la tv. Il lato implicito è che puoi guardarla fino alle otto di sera. 

Succede anche con le carte: hanno una figura sul dorso, magari rappresentano un meraviglioso cavaliere o una  dama coraggiosa. Volta la carta, e ci troverai solo un numero. 

Così capita che molte cose abbiano più lati, e i lati non si cancellano a vicenda. Ci sono persone che sono di animo buono, ma quando sono arrabbiate a volte la lingua gli scappa e dicono cose che non vorrebbero. Ma restano buone.

I tramonti con le nuvole in cielo non sono come i tramonti limpidi. Ma sono sempre tramonti, e tra le nuvole che prendono il colore del fuoco puoi immaginarti tutto quello che ti impediscono di vedere, e anche di più.

Anche la scuola ha più lati, sai?

Del lato esplicito ti parleranno tutti: a scuola si impara, a scuola si fanno amicizie. A scuola impari a tracciare simboli su carta, e con i simboli puoi comunicare con tutti e inventare mondi. 

Però, c'è anche il lato implicito  e credo sia giusto parlarne: non conosceresti davvero Spina se vedessi solo quanto è scorbutico: lo fa di rado, ma quando ti abbraccia, lo fa con tutto se stesso. 

Conosci una cosa, quando vuoi vedere tutti i suoi lati. Il cielo è meraviglioso, ma non c'è sempre il sole: e la pioggia te lo fa apprezzare anche di più, quando ti manca. 

Proviamo a conoscere un po' la scuola allora, con tutti i suoi lati. Lato esplicito e lato implicito. 

Volta la carta, ok?

Esplicito (figura): Ci trovi i fogli da colorare, le parole delle maestre e enormi schermi luminosi.

Implicito (dorso): Ci trovi aule affollate, rumori diversi e sedie scomode. 

Il lato esplicito ti dice cosa porti e cosa trovi a scuola: ci porti zaini pieni di libri, astucci e quaderni. Ammiri cartelloni, disegni e scritte. 

Ci trovi l'impegno di seguire le regole (non si guardano i cartoni dopo le otto, quando suona la campanella si rientra in classe al proprio posto: quello dove hai nascosto le caramelle), l'ordine di una lezione e il sorriso di quella bambina che gioca così bene a palla. 

Ci porti una testa piena di speranze, di sogni e di futuro.

 Tutti ti diranno che a scuola ogni bambino è importante, che siamo tutti meravigliosamente diversi, ma tutti così simili. 

Ti diranno che non devi avere paura di sbagliare, perché sbagliando si impara.

A volte, ti diranno, perfino, che la cosa più importante è restare diversi! Perché non c'è nessun altro come te al mondo. E questa cosa è davvero una cosa enorme. Gigantesca. In tutto il mondo, in tutto il tempo, tu sei così. E tutti gli altri no: per questo è bello incontrarsi, ma non copiarsi. 

A me piacciono i dolci, Spina li odia. Ma mi piace sentire quando si infervora contro i dolci: mi diverte quasi quanto mangiare il cioccolato seduto sul tappeto. 

Però, a scuola c'è anche il lato implicito (volta la carta, ricordi?). E quello è che tu puoi essere diverso quanto vuoi, ma devi stare seduto come tutti gli altri, anche quando c'è il sole e quelle mura sembrano così piccole. 

Il lato implicito è che puoi colorare, ma devi stare entro i bordi e usare i colori giusti. (Perché l'albero è viola e il cane rosso?). 

Siamo tutti diversi, ma tutti seguono le stesse parole, nello stesso modo. E siamo tutti originali ma più avanti va la scuola, meno conta la musica, la danza e il disegno. Tutti devono imparare l'inglese e la matematica a dovere (è una medicina: un po' amara, ma ti fa bene).

Si impara sbagliando, ma se sbagli prendi un brutto voto. E se prendi un brutto voto, ti viene meno voglia di sbagliare, e quindi di imparare.

Il lato implicito è che la meravigliosa diversità che sei spesso deve essere filtrata attraverso i programmi, i rituali, le regole. 

Le regole ci permettono di vivere insieme, ma quelle che funzionano davvero, sono quelle di cui riconosciamo l'importanza. 

Il lato implicito, sono quella pioggia di etichette che i bambini e gli studenti della scuola devono portarsi dietro. Voti, numeri e sigle che spesso non li lasciano più.

 Come i numeri neutri dietro le figure colorate delle carte. 

Il lato esplicito della scuola sono anche le compagnie: ci trovi chi ti presta la calcolatrice, chi ti racconta della sua giornata e chi ti regala sorrisi quando sei tristi. O, come Spina, ti prende in giro per farti rialzare, ma poi ti dona un abbraccio che non manca di nulla.

Il lato implicito è che a scuola c'è anche chi ti tratta male. 

Magari non riesce subito a capirti, magari ha paura, perché per quanto faccia il grosso, è ancora lì che dentro piange, quando per la prima volta ha salutato la mamma per chiudersi per tante ore in un posto nuovo e diverso. 

Quelli che ridono delle altre persone li chiamano bulli, o prepotenti. A volte non è facile trattarli: ma a volte è come la carta: vedi quello che vuole la tua merenda o ti prende in giro per la tua felpa viola... ma volta la carta, e vedrai un ragazzo stanco e spaventato, con una gran voglia di un abbraccio di quelli che sa dare Spina.

A volte i prepotenti sono ancora più impliciti (più nascosti): sono quelli che ti hanno messo un'etichetta e decidono che tu non possa capire certe cose. Ti diranno che sei ancora un bambino. O non hai la testa adatta. Come con le formine e la sabbia: per entrarci bisogna formarsi (prendere quella forma) o riorientarsi. (Come quelli che si perdono, e poi qualcuno li riporta a casa).

A scuola trovi anche i programmi. 

Quelli espliciti: sempre diversi, ogni materia (storia, geografia, matematica, lettere...) è preparata in modo diverso per ogni persona (la differenza che ci distingue e avvicina, ricordi?). La scuola ti insegnerà a pensare e non ti riempirà di nozioni, ma cercherà di trovare  i tuoi talenti e il tuo fuoco.

Quelli impliciti: programmi sempre uguali, spiegati allo stesso modo. Dalla barbabietola da zucchero al teorema di Ruffini. Le nozioni scorrono come in autostrada, e non c'è tempo e spazio per ricordarli bene. Masticarli, come il cioccolato sul tappeto. 

C'è la velocità, l'entusiasmo e la fretta della spiegazione; il ritmo dell'orario e la necessità della firma,  ma manca la lentezza, lo spazio della riflessione, il silenzio della biblioteca.

Lo so. Tutta questa storia del lato implicito e esplicito ci sta facendo venire un po' di mal di testa, e forse mettendo un po' di tristezza. 

Però... come abbiamo detto: un lato non esclude l'altro. 

Spina è scontroso e irritabile, ma dà i migliori abbracci del mondo. Molte maestre sono troppo prese dai numeri per guardare i colori e alcuni compagni sono troppo presi dalla paura per pensare all'amicizia.

Eppure, qualche alba, qualche dolce incredibilmente buono lo si trova negli anni di scuola. 

Nella fatica della ripetizione, nella sensazione di dover seguire un percorso deciso da altri e non il proprio, nella paura dell'errore, nella frustrazione di non essere all'altezza e nella noia della ripetizione, qualcuno o qualcosa potrebbe sorprenderti. 

Un ricordo piacevole che affiora tra le nebbie degli anni sui banchi, e ti fa ridere coprendo le lacrime con i sorrisi quanto il tempo ha medicato le ferite. 

Un amico che sa affiancarti per tutta la vita. 

Una maestra che conosce ogni tuo colore, e ti regala i pastelli con cui disegnare fuori dai bordi. 

Il bidello che ti sorprende ricordando ogni nome di ogni bambino, e per nessuno di loro manca il saluto. 

La sorpresa più grande, però, io credo te la farai da solo, quando capirai che la curiosità di conoscere e conoscersi è troppo grande per stare dentro un'aula e per il tempo di una lezione, ma ti può offrire una strada da seguire. 

Una di quelle che hanno alti e bassi, ti affatica le gambe e ti fa chiedere un centinaio di volte: "Siamo arrivati?", e ti chiedi chi te l'ha fatto fare. 

Ma poi guardi il panorama, grande come il mare e verde come il cielo: volti la carta, e non hai più dubbi: tu, te lo sei fatto fare e forse, forse, ne valeva la pena. 

venerdì 28 luglio 2023

I pensieri di spina, il buio

  Poi arriva il buio: più che altro è un'ombra, circondata di nero, ma meno scura della sua forma, del suo nucleo interno. Un nodo di tenebre in un'infinita notte, ma in qualche modo ti parla di casa.

È un buio che ha la tua forma e il suo odore. Se provi a sdraiartici dentro sembra fatto apposta per te, come una guaina. Un sacco a pelo spessissimo dove trovi rifugio quando fuori tempesta. Quando non sai neanche se esista più un fuori. Prima ti inquieta, ti stordisce e ti fa paura, ma poi, quando ti arrendi al buio lo senti tuo.

Ti ci affezioni e ne fai un guscio intimo e impenetrabile. Sei nel buio e tutto il resto si spegne: appare vacuo e lontano. Forse c'è uno spiraglio, una chiave, ma è ben nascosta. E' tua quandto lo è il buio. Non si addomestica, non segue gli ordini. Non ha tempi ufficiali.

Dopo un po' non ti sembra neanche strano starci dentro, viverci immerso, ma sei tu stesso a scalciare affinché non ci entri nessun altro. Un po' perché quello è il tuo buio, un po' perché un conto e rimanere immersi, un conto è volere che qualcun altro ne rimanga impantanato. Ad ognuno il proprio buio, allora.

In fondo, forse c'è la vaga scintilla di una luce, ma non è una torcia esterna che potrà mai dissolvere quell'ombra. Qualsiasi cosa potrà mai farlo, viene da dentro.

Perché quello è il tuo buio e spetta a te dissiparlo, o accettarlo. Quello è il tuo buio: ha esattamente la tua forma, e precisamente il suo odore. 

mercoledì 14 dicembre 2022

Pezzi

 





Mi ricordo di un amico, si chiamava Franco. Lavorava in un’industria metalmeccanica. Era in una catena di montaggio addetta alla costruzione di alcuni… piccoli ingranaggi meccanici, che servivano per collegare i mitra agli aerei. A dire il vero, Franco aveva saputo solo in pensione che quei pezzi meccanici tanto anonimi servivano per esigenza belliche. Probabilmente, se lo avesse saputo, si sarebbe licenziato prima…. se non altro, prima di andare in pensione.

Non m’importa se fosse una frase fatta o meno. Una bella bugia o una bella verità. Quello che qui mi importa, è dirvi perché non è andato in pensione. Non solo per una cosa che non sapeva, ma anche per una cosa che faceva. Il lavoro di Franco consisteva in sostanza nell’infilare un lungo cilindro di metallo in un foro, spingerlo dentro facendo girare una manovella alla sua destra, bloccarlo con una manovella alla sua sinistra, e tagliare spingendo un pedale in basso. Nella pratica doveva usare entrambi gli arti e il piede sinistro come facesse egli stesso parte della macchina sulla quale lavorava.

A volte mi ha fatto venire in mente quel famoso manifesto di protesta in forma di fumetto, che girava nella Francia degli anni 70: dove era rappresentato un operaio alle prese con un macchinario del genere. Si vede questo omuncolo in divisa blu che muove la mano destra su un arnese, la sinistra sull’altro, e la gamba va su e giù su di un pedale. Mentre è tutto sudato e smanetta come un matto con quasi tutto il corpo, il proprietario, gilè sul petto, bombetta in testa e braccia conserte lo guarda fisso, sospira pigramente, e gli chiede: ma non è che potresti fare qualcosa anche con l’altro piede? L’operaio annuisce e gli tira un calcio nel culo.

No, Franco non ha mai preso a calci in culo il suo padrone. Era un tipo pacato. Ma la sua piccola rivoluzione l’ha fatta anche lui: per circa un quarto d’ora, ma quando si sentiva più eversivo anche per venti minuti al giorno, lui non lavorava. Ma non è che incrociasse le braccia e smettesse, no. Era sempre lì con una mano su una leva, l’altra sulla seconda oppure sul tubo, e il piede sul pedale. Ma non faceva i pezzi che doveva fare e che dovevano servire all’industria bellica, seppure non lo sapeva. Che se lo avesse saputo, l’avrebbe lasciato il lavoro. No, lui smanettava sul suo arnese, tutto sudato e seguendo un ritmo… solo che non era più il ritmo della catena di montaggio. Solo che i pezzi che costruiva non erano quelli che avrebbe dovuto costruire. Erano… dei pezzi completamente inutili. Piccole opere artistiche o artigianali che, su quella specie di tornio dove lavorava, lui creava sottraendo quel tempo a quello del lavoro. Erano cavalucci deformi, portamatite, ciondoli, semplici cerchi… non erano certo capolavori, Franco non era un’artista. Non ne aveva il tempo e non era pagato per quello. Ma ogni pezzo era comunque un divertimento, ed era meravigliosamente diverso dall’altro. E, soprattutto, era immensamente diverso dai pezzi bellici. E proprio per quello ogni pezzo era, alla sua maniera, un capolavoro. Ed erano dei pezzi completamente inutili. Non servivano per la guerra. Non servivano al lavoro. Non servivano proprio a nulla.

Eppure, è proprio per quei pezzi che Franco non ha lasciato il lavoro prima della pensione: perché gli donavano una sorta di libertà, di creatività che nella catena di montaggio aveva completamente perso. Nell’inutilità del sudore, lui trovava la libertà della creazione.

La pensava così, il signor Franco. O il numero 322078. Sì perché dove lavorava lui, tutti i manovali avevano un numero di identificazione. Un ID. Il primo numero indicava il paese, perché la ditta di Franco, o del numero 322078 era una multinazionale. Il secondo e il terzo indicavano la ditta all’interno di quel paese, e gli ultimi tre il numero dell’operaio in quella ditta. Lui era il settantottesimo operaio della ventiduesima ditta del terzo paese in cui la compagnia aveva i propri affari. L’Italia. E tutti i pezzi che faceva, erano nominati nella stessa maniera: avevano come premessa il numero di Franco, il 322078, poi la data di costruzione ed il numero del pezzo all’interno del giorno.

Così i capi reparto potevano controllare se lavorava bene. Se faceva abbastanza pezzi. Perché ai tempi Franco lavorava a cottimo. Così faceva una discreta fatica per ritagliarsi quel tempo per la sua attività creativa ed eversiva. E a creare dei numeri che non venivano segnati da nessuna parte. Non sfuggivano solo dalla catena di montaggio, dall’utilità bellica, ma perfino dalla burocrazia matematica che controllava ogni singola azione della ditta dove Franco lavorava, e si ritagliava del tempo per evadere inconsciamente da quella pratica di controllo e, fosse anche per un quarto d’ora o venti minuti al giorno, sentirsi libero. E ci rimetteva anche dei soldi. Ma a lui piaceva così.


martedì 20 settembre 2022

19. Imparare qualcosa di nuovo: perché e come farlo?



mercoledì 27 luglio 2022

18. Cosa vuol dire essere un pipistrello? Quanto ci aiuta l'empatia?



In questa puntata, seguiamo l'esperimento mentale e filosofico di Thomas Nagel, chiedendoci: che cosa vuol dire essere un pipistrello? Com'è per esempio non vedere con gli occhi ma attraverso un radar, un'ecolocalizzazione? E cosa ha a che fare questo con l'empatia: quanto è possibile calarsi nei panni degli altri per capire quello che provano per ascoltarli? --- Music: "Music by Cindy Locher, https://www.TheRelaxationWorks.com" (Quiet Soul) --- Approfondimenti e spunti: - Thomas Nagel, Che cosa vuol dire essere un pipistrello? https://www.amazon.it/prova-essere-pi... - - Arte di ascoltare e mondi possibili, Marianella Sclavi https://www.amazon.it/ascoltare-mondi... - La Gaia Scienza, Nietzsche https://www.amazon.it/gaia-scienza-Fr... - Collegamento: la stanza di Mary, Jackson https://www.spreaker.com/user/1503831...

mercoledì 22 giugno 2022

13. Le stanze di Sofia: Bolla di filtraggio


Lo spunto di oggi è una bolla di sapone. Parliamo però di bolle di filtraggio. Cosa sono su internet, questi algoritmi che, per personalizzare la nostra esperienza di navigazione online, rischiano di chiuderci dentro la sfera delle nostre opinioni pregresse e delle nostre passate esperienze. E... Sono davvero così strette e performanti? E... esistono solo su internet? Come uscirne? Ne parliamo in questa puntata. Fonti e approfondimenti: - Eli Pariser, Il filtro. Quello che internet ci nasconde https://www.amazon.it/filtro-Quello-c... - Filter Bubbles, Eli Pariser, Ted https://www.youtube.com/watch?v=B8ofW... - il meme citato, un cane su internet, prima e dopo https://pbs.twimg.com/media/BX5bpOICE...