mercoledì 4 dicembre 2019

Il pomodoro e le palline


Il pomodoro e le palline


Mi guardo allo specchio: vedo un volto giovane, arrossato ed affilato, con qualche brufolo di troppo, le occhiaie da sonno e circondato da un cespuglio di folti capelli neri e ricci. Vedo un paio di grandi occhi nocciola. Forse delle nocciole acerbe, o con ancora la buccia, perché virano blandamente nel verde. Sotto un naso piccolo ma con una fastidiosa gobbetta il mio riflesso riporta delle labbra abbastanza carnose, ma sempre tese in una smorfia che non mi piace. 

Oggi sono al quindicesimo giorno di scuola, e mi pare di essere al quindicesimo mese ininterrotto. Mi guardo allo specchio ma sto solo riflettendo sulla giornata che mi aspetta. Ci saranno due ore di Filosofia, dove non discuteremo, ma dovremo memorizzare uno schema che parla dei pensieri di Cartesio o chi per lui, seguiranno due ore di Italiano: amo leggere eppure le trovo di una noia mortale, sarà che in quell'ora non si legge, piuttosto si parla di epiteti epici e di nomenclatura grammaticale, o si fanno inutili esercizi. Poi un'ora di Matematica per finire in bellezza, dove calcoleremo equazioni esponenziali o logaritmi, utilissimi per fare la spesa o decidere se mettere o meno soldi in banca, suppongo. Chiudo gli occhi, smetto di vedermi ma non riesco a fermare i pensieri. Quando li riapro sono ancora lì. Sbuffo e mi gratto sotto al reggiseno, poi vado ad infilarmi una canottiera ed una felpa scura. Sto bene attenta che il cappuccio cali il più possibile sulla mia faccia, prima di uscire a prendere il bus. 

Mi appendo alla barra di sostegno, che al solito non c'è posto per sedersi. Molti dei passeggeri sono mie compagne di scuola: perlopiù parlano di qualche ragazzo carino, qualcuno copia i compiti, altri non alzano lo sguardo dal telefono neanche per un secondo. 

Una volta ho sentito un'intervista di un regista di cui non ricordo il nome: raccontava che a Tokio si divertiva a fissare i volti delle persone mentre erano intenti a fissare
lo schermo del telefono o del tablet: non rischiava davvero di passare per uno stalker, perché non se ne accorgeva nessuno. 

Lascio scivolare questi collegamenti mentali e tento di uscire dal bus, ignorando gli spintoni e le grida. 

Alla prima ora leggiamo un pezzo di un brano di Lorenzo Valla, poi facciamo uno degli esercizi del libro, mentre mi chiedo a che cavolo possa mai servire se non ho letto il resto del testo e del suo pensiero. Alla seconda ora il prof ci restituisce le verifiche: me la cavo con un sei stiracchiato e una lamentela sul fatto che avrei potuto essere più precisa ed esaustiva. Segue un altro richiamo alla classe intera, che a quanto pare è molto meno carina e studiosa dell'altra sua quarta: stiamo estendendo lo stress della competizione dall'area della classe a quella della scuola, mica scherzi. 

Poco dopo, a metà della prima ora di Italiano sono già con la fronte crollata sulle braccia incrociate, appoggiate alla scrivania. Il cappuccio calato mi offre un'ombra ulteriore: sono al buio mentre sento varie voci intorno a me. Chi ridacchia, chi chiede i compiti della lezione successiva, chi chiede a che pagina siamo arrivati nell'antologia. Fra tutte, la voce del prof mi sembra solo vagamente più alta, ma francamente non so di che cosa stia parlando. Ogni tanto pare leggere, poi s'inceppa, aggiunge qualcosa di slegato e poi riprende. Rimango nel buio e mi accorgo di cosa stia dicendo solo alla terza volta che sbraita il mio nome: Deianira. Un nome che odio: a parte essere quello di una gran stronza, sa di snob come non ce n'è. Al quarto richiamo alzo il viso: vedo il volto barbuto e pelato del prof fissarmi quasi paonazzo. Mi chiede se stessi dormendo, se non faccio troppo tardi la sera, se non me la stessi prendendo troppo comoda. L'intera classe mi ride dietro, specie quando mi scappa uno sbadiglio che potrebbe essere stata la risposta più esaustiva che potessi trovare. Lui insiste a chiedermi se trovo la sua lezione così noiosa. Chiudo gli occhi, stringo i denti, ma poi gli dico di sì. Le risate scemano, lui diventa anche più paonazzo. Sta per dire qualcosa ma lo anticipo: «Continuo a non capire perché non leggiamo mai un brano, un racconto per intero: leggiamo solo pezzi di... qualche altro pezzo, ed a volte neanche interamente. Ci stiamo delle ore sopra neanche dovessimo cavarci oro da quelle quattro righe, e poi esercizi su esercizi. A me piace leggere, scrivere, qui non facciamo niente di tutto ciò». 

Lui dapprima risponde ricordandomi il rispetto, le regole, il programma che deve, dobbiamo portare a termine. Poi ci attacca qualcosa come: «Ovviamente non abbiamo tempo per leggere interi libri o capitoli, ma l'intento è quello di fornirvi una cultura classica di buone letture che possa...» 

«E chi lo dice che sono buone letture solo quelle? Chi lo dice che siamo delle brutte persone se non abbiamo letto proprio quei libri?» Mi agito e al momento me ne frego del rispetto, e già che sono in ansia per esporre i miei dubbi la dice molto, ma continuo: «Che poi, manco li leggiamo davvero, visto che oggi leggiamo un pezzo di un pezzo di un autore, domani un altro pezzo di un pezzo di un altro, e poi dovremo impararci a memoria la nostra bella lezioncina fatta di collage di pezzi e opinioni sull'autore, senza manco sapere come la pensa lui in proposito». 

Il prof sbatte una mano sul tavolo come ad evocare il silenzio, ma la classe si era già ammutolita, parlavo solo io. Mi ricorda – a suo dire – che quei testi sono la base di una cultura decente, e dobbiamo vederli nei contesti storici adeguati, e che gli esercizi servono a migliorare le nostre conoscenze. E poi, aggiunge con un sorriso da vincente, se proprio voglio posso sempre leggere il resto a casa. 

Mi viene da rispondergli che no, non posso né voglio, primo perché non sono testi che ho scelto io, e non vedo come potrei appassionarmi ad una cosa imposta da non so neanche chi. Secondo, se per domani ho altri quattro “pezzi” imposti da leggere per Filosofia, un altro paio di Storia dell'Arte, più altri esercizi (qui neanche pezzi) di Inglese e di Matematica no, non posso proprio mettermi a leggere per conto mio: non me lo lasciate fare. Non me ne date il tempo. 

Ma non dico nulla, serro forte le labbra e con il piccolo coltellino che mi regalò mio padre incido una linea profonda sul sottobanco. È talmente immerso nella manica della felpa che mi sembra di indossare una lama. Il prof si ritiene soddisfatto e dopo un altro rimprovero che mi passa da parte a parte riprende a leggere il suo pezzo di turno. 

Quando sono a casa ingurgito un piatto di pasta al pesto, i miei torneranno da lavoro alla sera. Accendo un poco la TV ma la spengo dieci minuti dopo qualche litigata di reality, una mezza dozzina di pubblicità sulle macchine e le dentiere ed il discorso troppo complesso di un'opinionista che sembra essere fornito del dono dell'onniscenza su qualsiasi argomento gli capiti a tiro. 

Faccio scivolare il culo dal divano al tappeto e controllo il telefono: sui gruppi di WhatsApp un paio di persone rievocano la mia litigata con il prof, la maggior parte mi prende per i fondelli, altri chiedono se hanno saputo dall'altra quarta cosa chieda il prof di Fisica. 

Come se non fossi già abbastanza agitata di mio. Come se fossi stata io a scegliere questo maledetto Liceo e non i miei. Ma forse non sarebbe cambiato proprio un bel nulla. Mi sdraio sul tappeto a guardare il bianco del soffitto per qualche attimo, poi tiro fuori il coltellino dalla tasca e ne sfioro appena la lama con il pollice. Lo richiudo rapidamente. Non ne ho assolutamente voglia e sto ancora digerendo la pasta, ma mi metto alla scrivania di buona lena. 

So che devo ripassare per la verifica di Fisica, studiare la grammatica di Inglese per l'interrogazione (perché a quanto pare é fondamentale saper enunciare le regole per imparare a parlare una lingua), andare a rivedere che cosa sia il saggio breve per Italiano (nella sostanza far finta di scrivere la tua opinione su qualcosa ma, in realtà, facendo un collage di aforismi già scelti e propinati insieme alla traccia), e se avanza tempo fare gli esercizi di Matematica. Chiudo gli occhi e mi faccio forza, poi imposto il timer online. 

Ho trovato un sito dove spiega la “tecnica del pomodoro”: in sostanza sezioni il tuo tempo in piccole porzioni da mezz'ora. Venticinque minuti li dedichi allo studio (in teoria senza distrazioni, ma la fa facile), cinque minuti al riposo, poi passi ad un'altra materia: sempre venticinque minuti di studio e il resto riposi. Cinque fantastici minuti di riposo o di culo sul letto. Il sito ha anche l'immagine di uno di quegli antichi timer da cucina che funziona come un cronometro virtuale. Mi gratto a lungo il collo, poi do il via. 

Al terzo giro di lavoro del “pomodoro”, tra qualche messaggio, qualche velocissima scappata al bagno e qualche prurito sono ancora a metà di Fisica. Mi manca ancora Italiano, Inglese, Matematica. Stringo i pugni, resetto il timer e vado avanti. Tralascio Italiano e in un paio di giri di timer me la cavo con Inglese. Ma a metà del secondo giro di “pomodoro” sugli esercizi di Matematica mi trattengo dal buttare il pc contro al muro. Mi limito al libro e poi all'astuccio. 

Sono ancora a raccogliere le penne e le matite che si sono sparse per tutta la camera ed a chiedermi che diavolo di senso dovrebbe avere questo pomeriggio frazionato in tanti piccoli pezzi di noia quando suonano alla porta. 

Sono i miei. Che cazzo suonano a fare? Non chiudo mai a chiave la porta di ingresso. Sono già abbastanza carcerata di mio. Poco dopo sono di nuovo a mangiare, questa volta con loro, ed alterno i “niente” con gli “abbastanza bene” alle loro domande. Non solo non ho voglia di parlare, ma vorrei raccontare qualcosa di diverso, invece so che domani sera sarà esattamente la stessa cosa. 

Sono appena uscita da scuola, aspetto il bus per tornare a casa. È in ritardo. Sento Sara che mi chiama sotto alla pensilina, a due passi da me, mescolata tra altra gente che vedo ogni giorno, ma in pratica sono dei quasi perfetti sconosciuti. Lei si è convinta di essere la mia migliore amica. Si risistema il pesante zaino sulle spalle e comincia: «Come è andata Fisica? Non era troppo difficile no? Non per una che quest'estate leggeva libri di Hawkins sulla spiaggia». 

Metto un broncio e guardo i suoi capelli castani e ben stirati: «Hawkins non parla di meccanicissimi problemi del cazzo sull'elettromagnetismo». 

«Vero... però...». 

«Però non c'entra proprio nulla. Odio studiare quella roba e no, non credo sia andata bene» mi ritrovo ad alzare le spalle, ma ci sto male. 

«Magari no dai. Oggi vieni a fare una scappata al centro commerciale, dopo i compiti?». 

Mi gratto un occhio talmente forte che rischio di scavarci dentro. «No, non mi piace il centro commerciale, e tanto non ho sti gran soldi da spendere». 

«Be' ma mica ci andiamo per quello». 

La guardo interrogativa, ma lei si limita a sorridermi. 

«No infatti, chi andrebbe mai al centro commerciale per comprare qualcosa, o al cinema per vedere un film». 

«In effetti si può fare altro anche al cinema» sorride. 

Scuoto la testa e ripropongo «Se andassimo al parco, invece?» 

«Quello no, bisogna prendere un altro bus e ci si mette troppo tempo». 

«Giusto... poi non facciamo in tempo a studiare» replico con una vena sardonica che non viene colta. Allora riprendo da un altro lato il mio tentativo di convincerla: «Possiamo studiare qualcosa là». 

Ma lei sembra leggere i miei pensieri: «Sai benissimo che non lo faremmo». 

«Allora un'altra volta». 

Saliamo sul bus e un'ora dopo sono davanti a youtube a mangiare un panino appena inventato con le quattro cose rimaste nel frigor. Sto guardando un ragazzino che gioca ad un videogame che non conosco. Il tutto è interrotto da circa tre pubblicità: una mi consiglia un manuale universitario di Fisica, l'altra un portatile appena uscito ed infine un reggiseno nuovo. Alzo la maglia e ci infilo dentro gli occhi: c'è poco da contenere e va benissimo quello che indosso ora. 

Guardo un altro video a caso, ma mi accorgo che sto notando solo il timer del tempo: ne sto perdendo troppo e dovrei mettermi a studiare. 

Mi rimetto sulla scrivania e imposto il pomodoro-cronometro: leggo un pezzo di tal Bacone, che serve come premessa a Galilei per studiare la Filosofia moderna, ma dubito che i due la pensassero allo stesso modo, o comunque non mi importa. Poi passo a studiare la figura di Cromwell, e cerco di farmi entrare in testa qualche data, prima di mettermi a fare qualche esercizio per Chimica: ossidoriduzioni o qualcosa del genere. 

In qualche modo finisco, ma non controllo i risultati. Il telefono trilla più volte sui soliti messaggi di classe, ma preferisco ignorarlo e stendermi un poco sul letto. Mi tolgo le scarpe l'una con la punta dell'altra, poi chiudo gli occhi, ma non sto bene. Ho male al petto e mi sembra di respirare male e, dopo pochi secondi che sto fissando il soffitto, è come se sentissi una strana pressione al viso ed un grumo denso ed amaro alla gola. Mi viene da riabbassare le palpebre, e mi sembra quasi di sentire due grosse mani che mi premono con forza in faccia, e qualcosa mi schiaccia lo stomaco. Sento l'agitazione salire e non so perché, mentre mi sembra di sentire il cuore accelerare e la testa immergersi in un pozzo di nausea. Poi mi tiro su seduta con uno sforzo ed una spinta di reni decisa: respiro densamente, come se ogni volta dovessi costringere il mio corpo a buttare fuori aria; le mani strette sulle ginocchia, e lo sguardo puntato ad una macchia sulla parete di fronte a me, ma solo dopo qualche lungo minuto mi sembra di tornare a respirare quasi normalmente. Allora mi metto semplicemente a piangere finché non mi fa male la faccia e non mi bruciano gli occhi; solo allora in qualche modo riesco a dormire fino a cena. 


Non amo i miei capelli: non si sistemano mai a dovere, neanche quelle poche volte che provo a farlo; spesso i ciuffi sembrano punte acuminate prive di qualsiasi interesse fuorché quello di mirare ai miei occhi, però, sono lunghi e folti abbastanza da possedere un indiscutibile vantaggio: posso tenere le cuffie del lettore mp3 senza che nessuno se ne accorga. A volte puoi tenere la musica a palla e alternare qualche movimento della testa e qualche breve sorriso per intere "conversazioni" (parlare non significa quasi mai comunicare) e nessuno se ne accorge. Altre volte, puoi creare la tua personale barriera autistica con il resto del mondo. 

Alle volte è anche quasi divertente: non mi è mai sembrata così gesticolante la prof di Scienze sotto una vecchia playlist dei Pink Floyd; con il sottofondo di Rancore e di Anastasio, invece, noti nei suoi sorrisetti e nei segni tracciati sulla LIM un continuo e maltrattenuto autocompiacimento. Sembra che siano sempre sul palco, tutti loro, come diavolo fanno? Ma ringrazio ancora i miei capelli e le cuffie: tutto assume un'aria quasi buffa, quando sostituisci le parole delle persone con la musica. Tutto diviene più sopportabile. 

Dopo pranzo - oggi dei sofficini con pseudo-contorno di fagioli e pomodorini - ho deciso di andare al parco. Se resto anche oggi a fare i compiti e guardare il WhatsApp di classe impazzisco. 

Sono sul bus e vedo le case diradarsi per lasciare spazio ai primi alberi. Dal finestrino, sopra ad una collinetta riesco ad intravvedere il cimitero: per uno strano senso dell'umorismo l'ospedale cittadino è stato costruito proprio di fronte. 

Le voci sul bus ora sono ben rade, di primo pomeriggio la fauna da mezzi pubblici é praticamente estinta: non rientra nei soliti meccanismi studio-lavorativi: posso lasciare le cuffie nella tasca dei jeans. 

Un paio di fermate, poi entro a buon passo nel parco: non c'è molto, ma forse mi piace per questo. Uno stagno incorniciato da un ponte ricurvo più o meno al centro, un percorso doppio (per bici e pedoni) a creare un circuito di... non saprei quanti chilometri, ma lo fai in una mezz'ora a piedi. Tutt'intorno una decina di panchine, qualche raro attrezzo ginnico di quelli da percorso vita, e prato ed alberi a chiazze più o meno casuali. 

Ne scelgo una a caso, uso la felpa come poggiaculo e dallo zaino tiro fuori un quadernetto a pagine bianche e la matita, una di quelle che - dicono - poi la puoi infilare nel terreno e viene fuori una piantina. Sarà. 

È già da qualche mese che non disegno. Mi guardo intorno, non sapendo bene cosa scegliere: qualche grosso cane che si porta dietro il suo "padrone", qualche albero dalla forma strana, le nuvole, che la forma strana ce l'hanno sempre... no, aspetta, trovato. 

C'è un piccolo gruppo di ragazzi in un pezzo di prato sotto la collina che ho scelto come accampamento. Stanno facendo... qualcosa di circense. Uno molto alto e magro fa roteare delle clave azzurre; una ragazza bassa e biondina lancia in aria quattro cerchi colorati, riprendendoli alternativamente ogni volta, e ogni tanto facendosene cadere uno al collo; un altro ragazzo, coi capelli rasati tranne per un lungo codino rasta gioca con quattro, no, cinque palline bianche: infine, un bambino dai capelli rossicci che avrà sugli otto anni gira intorno al trio, ed ogni tanto gli passano qualche attrezzo o gioca con un bastone alto più o meno quanto lui. 

Mi giro meglio verso questo strano quadretto, resto per un bel po' ad osservarli, seduta sulla mia felpa. Ogni tanto qualche passante si ferma ad osservarli, poi prosegue per la sua strada. Ogni tanto ho l'impressione che il bimbo guardi verso di me: ogni volta che lo fa giro lo sguardo verso il bosco poco lontano, o il libro di Fisica che mi sono portata dietro per precauzione ma no, non ho intenzione di aprire. Il resto del tempo lo passo a cercare di ritrarli mentre si allenano. Non è facile disegnare tanto movimento, sembra come paradossale. 

Una volta ho letto che Leonardo da Vinci teneva degli uccellini in una gabbia solo per liberarli e studiare ogni singolo dettaglio del loro movimento, e riportarlo su carta, o forse anche per inventare qualche macchina per sollevarci da terra. Io probabilmente disegnerò bene quanto Leonardo scriveva, ma credo di aver appena trovato i miei uccellini per questo pomeriggio, e volano bene. 


Questa volta non sono neppure tornata a casa: sono scesa alla fermata precedente a quella più vicina al parco, mi sono comprata un panino "con tutto" (e credo lo sia letteralmente guardando la trasparenza della carta nella quale è avvolto) dal bar-camioncino di turno e poi ho raggiunto la mia collinetta. Talmente mia che ho passato una ventina di minuti ad incidere una sorta di "D" sulla corteccia di un vecchio castagno, già arrossito e spelacchiato dal movimento e gli artigli degli scoiattoli una stagione fa. 

Poi, per una mezz'ora ho provato a studiare Storia, quindi ho tentato di disegnare una betulla poco distante, quindi mi sono messa le cuffie nelle orecchie: mi sono sdraiata a fissare il cielo sporco di foschia e di nuvole senza neanche accorgermi di scivolare nel sonno. 

Quando apro gli occhi sono abbastanza stordita ed assonnata da non avere una percezione chiara di quello che sta succedendo e dei rumori che ho intorno, ma mi trovo la faccia di un bimbo coi capelli rossi quasi davanti al muso, che sta guardando da seduto il mio quaderno, dimenticato aperto qualche passo vicino alla mia felpa poggiaculo. «Sei sveglia?» mi fa con un tono che non saprei classificare se di curiosità o di rimprovero, ma soprattutto non saprei decidere quale sia meglio. 

«No, sto dormendo». 

«Allora sto dormendo anche io». 

Mi passo le mani sugli occhi, poi le uso per tirarmi su «O forse siamo morti eh? Tu lo sarai di sicuro se non smetti di guardare quel...» mi abbasso infastidita a recuperare il mio quaderno dei disegni. 

«Guarda che sono io che devo arrabb...» 

«Dovrei». 

«Devo essere arrabbiato, al massimo: ci hai spiato e disegnato». 

Deglutisco e mi guardo intorno, non tanto per quel suo "spiato", quanto per il "ci". Mi stringo nelle spalle «Non hai tutti i torti» ma arrossisco quando mi accorgo che devo aver dormito mentre gli altri tre ragazzi si allenavano tutto intorno a me. Lo stanno ancora facendo, e forse l'hanno fatto per tutto il tempo del mio sonnellino, incuranti del fatto di colpirmi con una pallina, un cerchio o cosa cacchio cosa. Devo essere diventata tipo peperone di colpo, se sento quel bimbetto indicarmi e cominciare a ridere. 

«Hai il sedere tutto sporco!» 

Se non altro non è per il rossore. Mi passo con forza la mano sulle natiche per togliere dai jeans terra ed erba: il bambino ride anche più forte. 

«Ehi, guardate che avete un amichetto pervertito qui» e mentre il bambinetto mi guarda sempre ridendo, solo un po' più curioso, il ragazzo con il rasta mi risponde senza smettere di giocare con quattro palline bianche, due per mano: «Oh dovevi vedere mentre dormivi!» 

Fulmino con gli occhi sia lui, sia quello che ora intuisco essere il suo fratellino, ma l'intera squadra di strambi che mi accerchia si mette a ridere. La biondina dice di non farci caso: Jacopo è un coglione, ed il fratellino ha grosse speranze di diventarlo per davvero un pervertito, ma né lui né gli altri mi hanno toccato le tette mentre dormivo. Buono a sapersi. 

Faccio loro un cenno con la mano, che potrebbe essere stato interpretato come un ambiguo "non importa" ma in effetti, chissenefrega, e faccio per allontanarmi quando il tipo con le mazze (o clave?) smette di farle roteare e mi ferma: «Puoi restare, siamo stati noi ad invadere il tuo spazio». «Ed è figo quel disegno, se vuoi continua», aggiunge il lanciapalle. Stringo i denti ed abbasso lo sguardo per l'imbarazzo e faccio comunque per andare se non che mi ritrovo davanti il moccioso. Lo guardo dall'alto con fare che vorrebbe emulare quello di una dura: «Che c'è ancora, Rosso Malpelo?» lui spalanca la faccia in un sorriso divertito a quel nomignolo, poi allunga le mani chiuse a conca verso di me mostrandomi tre piccole palline morbide e multicolore, un po' malridotte dall'uso: «Vuoi provare? É divertente! E Jacopo è bravissimo, ti insegna lui». 

Non so neanche perché, ma prendo in mano quelle tre sferette morbide, guardo quel gruppetto di strani ragazzi e provo a lanciarle riprenderle in aria tirandone una per volta velocemente e cercando di scambiare ogni pallina di mano in mano. Ci riesco a fatica con le prime due ma per prendere la terza mi cascano tutte a terra. Sbuffo per togliermi un ciuffo di capelli dagli occhi e faccio per raccoglierle quando Jacopo mi anticipa: «Non così, con tre palline devi lanciare prima quella che hai nella destra verso la sinistra, poi la sinistra verso l'altra e poi ancora la destra». 

«Io sono mancina». 

«Allora tutto il contrario, ma inizia con una pallina. Passala da mano a mano, quando i tiri sono naturali passi a due, poi passi a tre. Ci vuole pazienza, ma poi il tempo ti ringrazia e quello che ti sembrava impossibile ti sembrerà scontato. Ed è divertente, come diceva Paolino». 

Non so davvero che fare, non capisco neanche che ci faccio qui, ma quando sento il moccioso replicare scocciato al fratello un "io sono Rosso!". Decido di restare. 

Una quindicina di minuti dopo conoscevo tutto il gruppo e avevo assegnato loro un nomignolo: Paolino il Rosso, Jacopo il racattapalle, Matteo Tremazze (ne fu particolarmente fiero), e Simona era ovviamente diventata Alice, tra i capelli biondi e l'essere l'unica ragazza tra quel gruppo di pazzoidi. 

Circa un'ora e mezza più tardi ero ancora lì a tirar palline, sotto la guida di Jacopo e del Rosso ed ero riuscita - giusto una volta - a "chiudere" (così loro chiamavano quando riuscivi a prendere per una volta tutte le tre - o più - palline in sequenza nel modo prescelto) il giro con i tre "beanbag" ed avevo imparato che quel movimento (o trick) si chiamava "cascata": avrei dovuto esserne felice, perché , con un po' di allenamento per "rendere solido" quel trick avrei imparato la cosa più difficile della giocoleria e sarei entrata nella tana del bianconiglio. A dire il vero tra vedere Tremazze a lanciare e roteare in ogni modo possibile quelle tre (ed a volte quattro) clave, o Alice far volteggiare velocissima quei cerchi tra le braccia e la testa non mi sembrava proprio la cosa più difficile la "cascata" ma quella piccola conquista mi aveva divertita davvero. 

Ora, dopo un'altra mezz'ora di gioco (e un altro paio di chiusure della cascata con tre palline) però sono esausta: mi lascio cadere sul prato a guardarli giocare e lanciarsi quegli attrezzi tra loro, mentre Rosso si siede al mio fianco: ora non mi imbarazza farmi vedere mentre tento nuovamente di ritrarre quel trio di giocolieri, però, quando Jacopo mi chiede di vedere "la mia opera" scrollo la testa: «Non è finito. Fa pietà». 

«Allora torna». 

«Mh?» 

«Noi ci alleniamo qui quasi ogni pomeriggio, puoi tornare a finire il disegno e... se vuoi continuare, vedere quant'è profonda la tana del bianconiglio». Non rispondo al suo occhiolino vivace, ma so già che tornerò a spiarli. 

***

Tre giorni dopo, infatti, sono ancora qui al parco. Io e Rosso siamo sdraiati sul prato, l'uno di fianco all'altro, la sua manina morbida nella mia rovinata all'altezza delle unghie e talvolta sui polpastrelli. Guardiamo entrambi verso l'alto: lui un po' intimorito, io curiosa. Il bianco delle nuvole e l'azzurrino del cielo sono solcati da una serie di attrezzi colorati che volano sopra le nostre teste: cerchi, palline, clave. Dopo un paio di minuti vedo una clava rallentare la propria traiettoria, uscire dal disegno che stava compiendo e precipitare: Rosso si copre le mani con la faccia, io alzo istintivamente la mano e, con mia grande sorpresa, riesco a prendere l'arnese al volo. Gli altri gridano e applaudono, il moccioso mi abbraccia, quasi buttando la faccia sul mio petto: «Lo dicevo io che sei un pervertito». Gli altri ridono in coro. Mi ritrovo a ridere a mia volta, poi mostro loro il mio piccolo "capolavoro". Il disegno fatto non solo al parco, ma più che altro nelle ore di lezione più noiose a scuola. 

Più che un ritratto del trio di giocolieri in allenamento ed il moccioso che li accompagna nel parco, è un disegno di supereroi: Rosso il moccioso ha degli occhiali luminosi, un bastone con il quale l'ho visto ogni tanto giocare (e qui ovviamente sembra fatto di lucido metallo) ed osserva il trio di giocolieri (più che altro Simona, più che altro il suo culo); Matteo Tremazze gioca, ovviamente con tre mazze (o clave) che sembrano piccoli razzi sparafuoco ed indossa una sorta di armatura medievale; Simona ha lunghi capelli biondissimi che le fanno da mantello ed è armata di dischi con lame rotanti ed infine Jacopo, con il suo lungo rasta punk e le palline esplosive completa il quartetto: tutti stanno scagliando le loro strambe armi contro dei robot umanoidi che hanno un po' dei signori grigi di Momo e un po' dei nemici con la cresta di Mad Max. 

Ricevo qualche complimento ed un altro abbraccio di Rosso, poi Jacopo mi fissa con insistenza: «E tu dove sei?» 

«Io...» mi guardo un poco attorno, poi indico uno degli alberi del disegno: «Sono morta da qualche parte dietro a questi arbusti». 

«No, non sei morta, non è questo il tuo ruolo». 

«Dici?» 

«Dico». 


Il pomeriggio successivo, puntuale, occupo con lo zaino di scuola e la mia felpa poggiaculo la solita collinetta, ma non trovo il mio piccolo gruppo di superoi. Però, dopo una decina di minuti di lettura del nuovo pezzo antologizzato di Italiano vedo arrivare Jacopo, da solo. 

Ha il suo colorato sacco di palline sulla spalla, il singolo rasta che sballonzola su una felpa grigia e pantaloni della tuta, nera. Si ferma, in piedi, ad un passo da me. «Studi?» 

«Italiano, sì, ma ho appena smesso». 

«Noioso?» 

«Più che altro odio i manuali, e fare solo pezzi di boh... microtesti e critica letteraria di non so cosa». 

Lui sorride, prende un filo d'erba, se lo mette tra i denti e si sdraia con le braccia dietro la nuca: «Io ho finito il Liceo un paio di anni fa, e francamente non ne potevo più, ti capisco». 

Faccio per dire qualcosa ma lui continua, meglio così, preferisco ascoltare. 

«Ma una cosa l'ho capita: non devi prendere la scuola come un posto dove impari davvero. É più che altro una raccolta di spunti: tra un mucchio enorme di palline - e qui dal suo sacco ne prende una, facendola passare tra le dita - ne raccogli tre o quattro, ed approfondisci di tuo». 

Mi verrebbe da dirgli che non se ne ha mai davvero il tempo, se non d'estate, ma non sembra essercene bisogno, continuo ad ascoltarlo. 

«Magari anche anni dopo certe cose tornano sotto luci diverse. Alla fine non impari davvero niente se non lo fai per conto tuo. Se non ne senti il desiderio. Se non sei trascinato dalla curiosità personale: si resiste alla scuola, non si migliora davvero in essa. Solo» - lancia per aria la pallina, la raccoglie con la nuca per farsela cadere di nuovo sulla mano «Se non altro quando l'hai finita la guardi con meno astio». 

«Dici di rimpiangerla?» 

«Col cazzo. Ma capisco che non è colpa di nessuno, o forse di tutti, ma ben equilibrata: è un sistema a cui tutti ci adattiamo. Gli studenti cercano di studiare il meno possibile e prendere bei voti a prescindere dal loro interesse, i professori ripetono a iosa il programma ministeriale, il ministero segue la tradizione, i genitori sono talmente impegnati nel lavoro che devono pur parcheggiare i figli da qualche parte...» 

«Bella merda». 

«Sì, ma tu vedi di raccattare quello che ti interessa dal sacco. Ci sono cose positive: alle medie ho conosciuto i miei compagni circensi, ed abbiamo iniziato a fare giocoleria. E quella per me è stata una rivoluzione. Forse la tua è il disegno, o chissà che altro saprà coglierti». 

Non rispondo a quello: «Parlami dei tuoi amici». 

Allora lui si appoggia all'albero, mi racconta che Simona (la bionda dei cerchi) ha la sua stessa età e alle medie era in fissa con l'hula hoop, poi ha semplicemente diminuito le dimensioni. L'ha conosciuta quando era in quinta elementare. Matteo in prima superiore, anche se non era in classe con lui, e giocolava già, più che altro con le clave. Tutti loro hanno una specializzazione ma sanno fare anche altro: Jacopo se la cava con il diablo e va in monociclo; Simona è brava con l'hula hoop e le bolas; Matteo non è malaccio con i piatti e ogni tanto fa lo sputafuoco. 

Mi racconta che quello gli piace davvero, anche se ci vuole un impegno incredibile e una pazienza da supereroi davvero. Che quest'estate partiranno per un viaggio per l'Europa, su un vecchio furgoncino di suo zio, con l'idea di fare spettacoli per le piazze e per strada e si porteranno dietro anche Rosso. 

Incomincio a conoscerlo meglio mentre mi lascio trascinare dalle sue parole, calme ma piene di entusiasmo, di chi ha davvero voglia di parlare dei suoi progetti, delle sue idee. Per una volta non so che ore sono, non mi preoccupo di cosa dovrei fare o cosa mi aspetta domani. Mi racconta anche di come la giocoleria sia un modo, uno dei tanti, di usare un'arte manuale per crescere personalmente, e per vedere il tempo in maniera diversa. 

Questo mi incuriosisce particolarmente: «In che senso?» 

«Alzati, ti faccio vedere». 

Recupera dal sacco sette palline, me ne passa tre, ne tiene tre per lui ed una la lascia a terra, vicino al suo piede destro. 

Si mette di fronte a me e comincia a giocare con tre palline in modo fluido e veloce: «Ora quanti giri riesci a chiudere con la cascata?» 

«Tre, quattro se mi va di fortuna». 

Ci provo, e mi fermo a due. Ossia riesco a rilanciare e riprendere due volte la terza pallina che lancio in successione.«Ricorda che ogni errore è solo l'occasione di un possibile miglioramento». 

Allora lui prima mi fa vedere quanti movimenti siano possibili con tre palline in una sorta di spettacolo apposta per me: con tre palline si possono formare varie forme: una sorta di scatola o quadrato, un cerchio o ovale che lui chiama doccia, si possono fare movimenti completamente diversi con le braccia, e perfino lanciare le palline dietro la schiena o sotto le gambe. 

Lo guardo già abbastanza confusa ed ammirata, ma lui continua: con il piede lancia in aria la pallina che era a terra, ed ora inizia a giocare con quattro: prima due in una mano, poi le fa intrecciare velocemente. Rallenta di poco il ritmo, e sempre con l'aiuto del piede ora si mette a giocare con cinque. Qui tutte le palline sembrano intrecciarsi e non riesco a seguirne bene il movimento, lo schema. Ma non basta, in un altro movimento del piede riesce, anche se solo per qualche lancio, a giocare con sei. 

«Wow!» 

Lui riprende fiato e scuote la testa. «È solo questione di tempo e di allenamento e quindi di divertimento, ma la cosa interessante è un'altra». 

«Cioè?» 

«Che all'inizio ti sembra impossibile giocare anche solo con tre oggetti, e tu in pochi giorni sei ormai capace». Mi fa cenno con il mento di riprovarci. 

Questa volta mi fermo a cinque giri! 

«Ecco. E vedrai che, se continuerai, ti verrà naturale quello che ti sembrava prima impossibile. Un lancio alla volta». 

«E il tempo?» 

Lui riprende a giocare fluidamente con tre palline, proprio davanti a me. «Il tempo diventa come morbido, malleabile: prima ti sembra di dover fare movimenti velocissimi per giocare con tre, e farlo con quattro ti sembra inverosimile. Poi con tre i movimenti ti sembrano lenti, con quattro normali. Di nuovo l'impossibile ti sembra arrivare alla pallina successiva, ma è come se si creasse uno spicchio di tempo in più in ogni gesto, ogni lancio, quando migliori. Impari che la qualità del movimento é più importante della quantità e della velocità dei lanci. Ora ho imparato a giocar bene le cinque, e sto provando a migliorare le sei: immagino che entro qualche mese avrò creato gli spicchi sufficienti. E con tre ormai posso farlo ad occhi quasi chiusi». 

Qui rido «Che spaccone, prova». 

Allora si ferma, si mette a mezzo passo da me e mi chiede di allargare le braccia. Poi fa passare le sue sotto le mie. Io continuo a fissarlo, mentre comincia a giocolare dietro la mia schiena, quasi abbracciandomi. Assottiglio lo sguardo e lo provoco: «Così vedi parte del tragitto Racattapalle, chiudi gli occhi». 

Lo fa, e riesce a fare qualche giro, ma mi bastano un paio di volteggi per capire meglio quello che dice sul tempo, ora che siamo così vicini: per giocolare devi stare completamente nel tempo presente. Un lancio alla volta.Una presa alla volta. Ogni gesto è completo, ma deve coniugarsi ai successivi. Non so quanti giri sia riuscito a completare tenendo gli occhi chiusi, ma tutte e tre le palline gli cadono di mano quando mi alzo sulle punte dei piedi e poso le mie labbra sulle sue. 

Allora riapre gli occhi grigi e li fa cadere nei miei. Mi fissa stupito ed imbambolato. 

«Imbranato». 

«C. cos...». 

Gli metto le braccia intorno al collo e lo bacio di nuovo. Questa volta sento le sue mani sui fianchi e la sua bocca che mi risponde. Non ho bisogno di sezionare il tempo, non ho bisogno di pensare ad altro: per una volta è tutto qua. Tra le mie dita ed una fila di nodi perfetti che scorre in un'unica treccia altrettanto perfetta. 

***

Dopo quel giorno, le successive tre settimane sono state... degli spicchi di tempo prese da un'altra arancia. Spesso ci trovavamo, ogni pomeriggio nel parco. Con quella che ormai ho soprannominato la Gang del bosco, o i Wood's Jugglers: loro giocolavano, io provavo ad imparare qualcosa ma, più che altro, disegnavo, giocavo con il Rosso o ripassavo. 

Altre volte ci siamo visti solo io e Jacopo: andavamo in giro sulla sua moto, perché voleva farmi vedere i suoi posti preferiti: scorci di piazze dove si era esibito, un boschetto dove ci si poteva arrampicare sugli alberi ed avere una vista di un lago vicino, un paio di pub dove facevano musica dal vivo, un piccolo cinema vecchio stile, ma con le poltrone comodissime, le caramelle al sacchetto e i biglietti con i volantini dei prossimi film. E ancora una vecchia palestra dove talvolta si trovava con altri giocolieri, una teeria dove provammo dei pasticcini porcosissimi e una piccola baita in montagna, presa con Airbnb dove ieri sera abbiamo fatto l'amore. 

Ne usciamo ora, metto meglio in spalla lo zaino e faccio per uscire dal portico quando lui mi richiama. «Ti voglio con me in giro per l'Europa». 

«Dici?» 

«Dico». 

Sorrido, ma alzo un poco le spalle «Ma io non so fare nulla, non sono una della gang del bosco, o una supereroina». 

«Per me lo sei. E poi...» 

«E poi?» 

«E poi la giocoleria non è altro che una buona scusa per vivere bene, divertirsi, viaggiare, conoscere gente interessante e, nel frattanto, imparare qualcosa di nuovo». 

«Vorrei che la vita fosse così semplice». 

Lui mi si avvicina e mi mette le mani sui fianchi. «Oh, ma lo è. E tu potresti allenarti nel frattempo, fare anche un pezzo semplice, o disegnare dei volantini o chessò, scrivere un diario delle nostre avventure». 

«Il mio prof di Italiano dice sempre che scrivo male». 

«Non capisce un cazzo. E io ti voglio con me per bighellonare per l'Europa». 

Mi alzo sulle punte dei piedi per dargli un bacio. Sorrido sulla sua bocca mentre gli chiedo «Dici?» 

«Dico». 

***

Mi alzo la mattina per andare a scuola, e come negli ultimi giorni l'angoscia non mi preme come prima sullo stomaco. Il pensiero scivola sui discorsi e sul ricordo della pelle di Jacopo, o fantastica su sogni piacevoli, o semplicemente se ne sta qui, "un lancio, un gesto alla volta". 

Metto nello zaino l'ultimo quaderno, poi lancio l'astuccio dietro la schiena, per cercare di prenderlo al volo senza guardare, come fa lui con le palline, ma sbaglio la presa: sfioro la cucitura e crolla a terra. "Ogni errore è un passo sulla via via del miglioramento" rido guardando il pavimento: devo essere migliorata forte, perché l'avevo perfino lasciato aperto: matite e penne dappertutto, raccolgo il quanto con un sorriso probabilmente stupido sul volto, mi manca solo il coltellino fuggito anche lui da quella custodia, quando sento suonare il cellulare. 

Guardo lo schermo: Simona-Alice, non mi chiama mai e sono le sette e mezza. Rispondo. 

«Ciao Cerchiona» uno dei tanti nomignoli che affibbio loro. Dall'altra parte sento solo il suo respiro spezzato. 

«Simo?» 

«...» 

«Che cazzo succede?» 

«Deianira io...» 

«Dimmi». 

«Sto cercando un modo ma non mi viene». 

«Parla!» Sono ancora accovacciata per terra a fissare l'astuccio rosso, il coltello bruno ed il pavimento di parquet. 

«Mi dispiace tantissimo» 

«PARLA!» 

«M.mi hanno chiamato poco fa i genitori di Jacopo». 

«Ch.e cazzo...» 

Sento le lacrime dall'altra parte del telefono. Sento il mio cuore fare a botte con lo sterno. 

«Continua porca troia.» 

«Mi hanno detto che... ha fatto un incidente in moto, stava andando ad aiutare lo zio che consegna giornali». 

«Merda, C.come sta?!» 

«...» 

«Devo venire lì a infilarti i cerchi nel culo? parla!» allora lei mi scaraventa tutto contro senza pause. 

«Deia non ce l'ha fatta, si è scontrato contro un coglione in macchina che l'ha preso in pieno, quando sono arrivati con l'ambulanza era tardi. I suoi genitori sono andati in ospedale ed era già... morto. Poi hanno chiamato me ed io quelli del gruppo e... te». 

«...» 

«Mi dispiace da morire... Non so davvero come...» 

«Dimmi che mi stai prendendo per il culo, prometto di non picchiarti, ma dimmelo». 

«Deia no... io, dio mio quanto lo vorrei. Non ci credevo neanche io, non so davvero cosa dire, so che tu e lui...» 

Sento la voce di Simona parlare, il suo respiro sussultare, i suoi singhiozzi, mi spiega meglio, parla, cerca di farsi capire e dà altre notizie, ma non riesco più a sentirla. Parole che non riesco più a comprendere, il pavimento bruno, l'astuccio rosso, il coltello sembrano diventati d'acqua. Lascio cadere il telefono dalle dita e riesco a malapena a fissare il mio avambraccio. Concentro lì tutto lo sguardo mentre sento dal telefono la voce in lontananza di Simona che continua, fa domande, mi chiama. Vedo solo la mia mano, il polso chiaro e sottile, la vena. Sembra tutto sfocarsi in quel percorso nascosto, mentre con l'altra mano prendo il coltello. Non c'è nient'altro che il braccio, le lacrime che sporcano la visuale e la testa che mi urla contro. Chiudo gli occhi e quando li riapro l'urlo è sceso alla gola. Il braccio, il parquet e il coltello sono diventati rossi quanto l'astuccio. Non riesco più a capire dove inizia una cosa e finisca l'altra; se sia più forte il dolore fisico o quello che mi sta divorando l'anima. La chiazza rossa si allarga ancora un po' prima che non sia più in grado di vedere nulla, capisco solo di cadere a terra e sbattere la guancia sul pavimento, senza più forze. Senza più pensieri e dolori. 

***


Le campane della chiesa suonavano a morto e la loro eco arrivava fino al cimitero. Tre riprese, poi tre rintocchi. La cerimonia era conclusa e, poco prima del De profundis, la gang del bosco aveva fatto un piccolo spettacolo in memoria, per non dipingere solo di tristezza questo giorno. 

Matteo ripeteva con gli occhi arrossati che, in fin dei conti, i giocolieri devono essere capaci di far saltare le emozioni, di trasformare gli abissi più tristi e disperati in un sorriso, magari nostalgico, ma pur sempre un sorriso. 

Un discreta folla di gente si accalcava ancora al termine delle parole prima degli amici, poi del sacerdote. Gli attrezzi colorati tra le mani di Simona e Matteo sembravano ancora più vividi nel generale grigio-nero della gente intorno a loro. Per qualche lungo secondo nessuno parlò, tutti sembravano concentrati sui propri ricordi, o sulle parole da dire, o semplicemente sulla terra fresca ed appena smossa che ricopriva così tanta giovinezza, così tanta vita rubata: solo al grido di Sara, una compagna di Deianira dai capelli castani e ben stirati, gran parte di loro si girò a guardare dove lei indicava: fuori dal cimitero, oltre le sbarre e sulla strada, stava correndo Rosso. 

I suoi genitori, Simona e Matteo lasciarono tutti sul posto e gli corsero dietro. Paolino stava scappando verso un grande edificio a parallelepipedo dalla facciata completamente grigia, attraversando la strada di fretta, piangendo e senza guardare. 

***

Quando riesco a riaprire gli occhi la testa non ha smesso di girare. Lo sguardo appannato riesce solo ad inquadrare pochi dettagli alla volta: il letto ospedaliero vuoto, di fianco al mio; le tende abbassate sulla finestra candida e sconosciuta; la fasciatura stretta sull'avambraccio sinistro; la testa rossa di Rosso Malpelo e le palline morbide, colorate ed usurate, che tiene raccolte tra le mani chiuse a conca. «Queste sono tue ora, D». 

Lo dice tra le lacrime, le stesse che sento scorrere sulla mia guancia. Mi tiro su seduta con la stessa fatica che ieri avrei dovuto fare per compiere una verticale e lo guardo, mezzo arrampicato sul mio letto. Ascolto il suo fiume di parole mentre cerco di riprendere coscienza del mio corpo. «Lui vorrebbe che le tenessi tu» fa rotolare le palline sulle mie gambe, formando una conca colorata tra le coperte chiare «La gang del bosco non vuole più partire, ma lui non vorrebbe, lui voleva andare e noi dobbiamo andare. Tu devi riunire il gruppo, devi venire con noi e far continuare il suo sogno e de...» lo interrompo abbracciandolo e stringendomelo contro con tutta la poca forza che ho al momento e lascia che inzuppi la maglietta ospedaliera che indosso, cerco di consolarlo con quell'abbraccio quando so benissimo che è lui a consolare me. E solo allora mi accorgo che fuori dalla finestra, stanchi e preoccupati, ma ora sollevati ci sono non solo i miei genitori, ma anche la gang del bosco. Rapidamente entrano nella stanza e mi abbracciano, ci abbracciamo. Come rami di alberi che si intrecciano, o come artisti dopo uno spettacolo faticoso, ma senza pubblico. 

***

Sono passati svariati mesi, ed oggi è il gran giorno, oltre alla valigia dei vestiti controllo la sacca colorata degli attrezzi: ho le sei palline di Jacopo, anche se per ora so giocarne solo quattro, tre cerchi, tre fazzoletti colorati ed un astuccio con le matite da disegno. 

Guardo il parcheggio e mi soffermo a fissare il parco in lontananza, quando sento la voce di Simona che mi richiama. «Coraggio D, è ora di andare!» do un'ultima occhiata a quegli alberi, annuisco tra me e me e raggiungo gli altri sul vecchio furgoncino. 

Non so cosa ci aspetta, non so cosa succederà. Non ho scritto nulla sull'agenda, non abbiamo programmi e non ho sezionato in alcun modo il tempo: ci limiteremo a prenderlo tutto d'un fiato. Un lancio alla volta.

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