Una volta mio padre mi portò a vedere un vecchio paesino. Lui lo chiamava “borgo”: non so cosa voglia dire di preciso, ma in quel paese c’erano case molto antiche, strade molto strette, e mura di cinta (sono quelle che circondano il borgo, il vecchio paese, appunto) molto grandi e solide.
C’erano molte botteghe (che è un
modo particolare di chiamare dei piccoli negozi, che pare, mio padre
ed altre persone utilizzano quando chiamano i negozi in posti come
quel borgo) che vendevano di tutto un po’: dal pane, ai
francobolli, agli aquiloni. Me ne ricordo uno bellissimo, grande e
colorato, sembrava avere due grandi ali che mettevano perfino in
ombra una parte del negozio (o della bottega), ma quell’ombra
faceva risaltare, ossia rendeva più bella, l’altra parte della
bottega.
Però non voglio raccontarti delle
botteghe del borgo, o degli splendidi aquiloni che vidi quel
pomeriggio con mio padre. Voglio invece raccontarti del ponte. Sì,
perché quel borgo era collegato ad un altro borgo da un ponte
straordinario e del tutto particolare.
La cosa era più o meno così: alla
fine del borgo, appena oltre il muro di cinta, c’era un prato verde
e, dopo una decina di passi, iniziava un ponte molto, molto lungo. A
dir la verità, di questo ponte quasi non si vedeva la fine. La si
intravvedeva: ossia, la vedevi più con la fantasia e l’immaginazione
che con gli occhi. Guardare verso la fine di quel lungo ponte era un
po’ come immaginarsela, o progettarla. Come quando disegni una
linea su un foglio: a scuola ti spiegano che la linea è infinita, ma
tu puoi tracciarne solo una parte: tutto il resto non lo fa la mano,
o la penna, o la matita con cui stai tracciando quella parte di riga:
il resto lo fa la tua fantasia. La matita ha una fine, non la tua
immaginazione.